Autonomia differenziata? No, non vogliamo un Paese sempre più frammentato

I dati dell’ultimo rapporto Svimez, associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, sono chiari: si prevede che nel 2023 il Mezzogiorno rischia la recessione dopo la buona ripresa post-covid. Dalle proiezioni, il pil potrebbe contrarsi fino allo -0,4%. Ma in questi giorni sul tavolo c’è il dibattito sull’autonomia differenziata, ovvero il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia per le regioni ordinarie. Lo chiedono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna… Ma «allo stato attuale», spiega l’economista Luca Bianchi, direttore Svimez e autore insieme ad Antonio Fraschilla del testo “Divari di cittadinanza”, «l’autonomia differenziata non farebbe altro che allargare il divario già profondo tra le regioni del Nord e quelle del Sud». Un cantiere sull’autonomia differenziata è stato formalmente riaperto dal ministro per gli affari regionali Calderoli che accelera e invece «bisogna ripartire dai servizi, non dalla spesa».

I dati dell’ultimo rapporto Svimez sono chiari, si prevede che nel 2023 il Mezzogiorno sarà sempre più povero

Il Sud Italia andrà in recessione nel corso del 2023. Dalle proiezioni, il pil del Mezzogiorno andrà a contrarsi fino allo -0,4%; quello del Centro-Nord, pur rimanendo positivo a +0,8%, segnerà un forte rallentamento rispetto al 2022. Il dato medio italiano dovrebbe attestarsi invece intorno a un +0,5%. La Svimez valuta che a causa dei rincari dei beni energetici e alimentari l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta potrebbe crescere di circa un punto percentuale salendo all’8,6%, con forti eterogeneità territoriali: + 2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno, contro lo 0,3 del Nord e lo 0,4 del Centro. In valori assoluti si stimano 760mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico (287 mila nuclei familiari), di cui mezzo milione al Sud. In base alle stime Svimez, l’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si traduce in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane; il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.

Le stime quindi prevedono un divario sempre più profondo tra Sud e Nord Italia. Ma in questi giorni sul tavolo c’è il dibattito sull’autonomia differenziata, ovvero il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia per le regioni ordinarie. Lo chiedono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna…

L’impressione è che si stia andando velocemente verso un’attuazione “integrale” delle proposte di autonomia: una legge di attuazione; la possibilità di chiedere il decentramento di tutte le materie, compresa l’istruzione; l’inemendabilità da parte del Parlamento delle intese Stato-Regione; il finanziamento delle nuove competenze regionali sulla base della spesa storica. Si tornerebbe, in sintesi, a quattro anni fa, rimuovendo i cambiamenti intervenuti da allora, sia nel contesto economico e sociale del Paese, e basti pensare alla pandemia, o al pnrr, e ancora agli effetti della guerra in Ucraina. Il Paese è stato colpito da shock globali ai quali è velletario pensare di rispondere con politiche pubbliche frammentate a livello territoriale. Ora si ripropone addirittura la possibile concessione di competenze nel campo dell’istruzione, correndo il rischio di avviare un vero e proprio processo separatista: programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e meccanismi di finanziamento differenziati. Non dimentichiamo che l’istruzione è anche la voce più rilevante dal punto di vista finanziario: circa 5 miliardi di euro in Lombardia e poco meno di 3 miliardi in Veneto, una quota compresa tra il 15% e il 18% dei rispettivi bilanci regionali; migliaia di docenti che transiterebbero nei ruoli regionali con effetti sulla contrattazione nazionale e possibili differenziazioni salariali territoriali. Si ripropone, in sostanza, il vecchio modello dell’autonomia “per chi se la può permettere”, basato sulla spesa storica. Un modello in aperto contrasto con l’attuazione ordinata del federalismo fiscale del quale avrebbe bisogno il Paese. L’autonomia differenziata rischia di cristallizzare la distanza tra Nord e Sud del Paese. Sanità, come detto educazione, infrastrutture: ci troviamo già davanti a un divario di cittadinanza. Chi vive nelle regioni del Sud Italia è penalizzato da un offerta di questi servizi sempre più debole. Eppure i servizi dovrebbero essere costituzionalmente tutelati, uguali per tutti.

VITA A Sud

Come funziona la spesa storica?

È un criterio che danneggia i cittadini governati da amministratori inefficienti o che meno hanno speso per i servizi a causa di una sperequata distribuzione territoriale delle risorse. In pratica le regioni del Sud hanno meno servizi quindi: meno asili nido, meno posti in ospedale, meno scuole a tempo pieno. Avendo meno servizi hanno anche meno finanziamenti. E se le risorse continueranno ad essere ripartite in base alla spesa storica il divario tra Nord e Sud difficilmente sarà sanato. L’autonomia dovrebbe essere prima resa coerente con i principi di equità e perequazione. Solo dopo può essere “differenziata”. Un punto debole dell’autonomia differenziata è proprio quello di assumere quel criterio a base del finanziamento delle funzioni da decentrare, ritardando la definizione dei Lep, livelli essenziali delle prestazioni che sono l’architrave di un nuovo sistema di distribuzione delle risorse che realmente valorizzerebbe la responsabilità contemplando gli obiettivi di efficienza e giustizia sociale. L’autonomia differenziata andrebbe a cristallizzare i divari di cittadinanza tra territori, rinunciando all’obiettivo di un Paese più giusto. Qualunque percorso equilibrato di autonomia non può non passare dai Lep. Quindi prima definiamo i Lep, garantendo il loro finanziamento, e poi puntiamo a una ripartizione equa della spesa: questa è la strada verso il federalismo fiscale vero. E poi c’è un altro problema

Quale?

L’autonomia differenziata aumenterebbe il conflitto tra stato e regioni, senza risolvere il vero tema: la debolezza dei Comuni, gli enti più vicini ai cittadini che anzi potrebbero essere penalizzati, al Nord come al Sud, da un nuovo sovranismo regionale. Verrebbe poi accantonato il progetto iniziale di un federalismo cooperativo ancora in attesa di essere attuato.

In che modo?

Riprendendo un’attuazione ordinata del federalismo fiscale, come previsto dal Pnrr. Nell’interesse nazionale, degli amministratori locali e dei cittadini, del Nord e del Sud. Procedere su questa strada, senza scorciatoie o altri strappi, priverebbe la classe dirigente, in primis quella meridionale, dell’alibi del centralismo avaro, utile per rivendicare più risorse e nascondere le inefficienze, che creano più danni dove i bisogni sono maggiori; un alibi che resisterebbe in un sistema di autonomie asimmetriche, a trazione nordista, incardinato nel nostro federalismo incompiuto. E il federalismo, quello vero, metterebbe davvero i cittadini, soprattutto quelli meridionali, nelle condizioni di valutare la qualità delle classi dirigenti locali. La “nuova” Europa, che solo temporaneamente ha accantonato l’austerità, ha fatto sua l’idea che le disuguaglianze vanno ridotte non solo per motivi di equità ma perché la coesione aiuta la crescita. Con l’autonomia differenziata il Paese, invece, andrebbe in direzione opposta, cristallizzando i divari tra cittadini e territori, senza sanare quella frattura che ha reso il Paese più debole.

Anna Spena

27/1/2023 https://www.vita.it

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