AUTONOMIA DIFFERENZIATA. PRESIDENTI A SUD O CORTIGIANI DEL NORD?

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Negli ultimi 30 anni, si è assistito come mai in precedenza ad una crisi politica, culturale, morale ed economica che ha investito il Paese, ed il Mezzogiorno in particolare, e che ne sta rendendo sempre più incerto il suo cammino democratico.

L’attacco finale al Mezzogiorno viene dal progetto di Autonomia differenziata, un progetto classista, liberista, incostituzionale ed eversivo, che mette in pericolo l’unità stessa del Paese, così come da sempre vuole la Lega, che infatti ha ancora oggi al primo punto del suo statuto la “secessione della padania”.

Chi si accorda a queste richieste, così come fanno, governatori “secessionisti”, parlamentari, intellettuali, gruppi di potere e governi, si assume interamente e a futura memoria la responsabilità della possibile prossima e non auspicabile “balcanizzazione” del Paese.
La mancata definizione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), che la Ministra Carfagna vuole rinviare ancora di cinque anni, ha infatti permesso, nei soli anni dal 2000 al 2017, secondo il Rapporto Italia 2020 di Eurispes, una sottrazione di finanziamenti dal Mezzogiorno a favore del Nord di oltre 840 Miliardi di €.

La cosa più vergognosa di questa operazione è che questo travaso mistifica la realtà e fa definire spendaccioni Regioni o Comuni virtuosi e viceversa alimentando stereotipi e razzismo.
Attenzione però a intendere l’Autonomia regionale solo come un contrasto Sud/Nord, si farebbe un favore a chi lo governa ed auspica, visto che si tratta di un progetto neoliberista, con profonde radici europee, che mira alla privatizzazione progressiva e pervasiva di tutto ciò che oggi è inteso come welfare, sia a Nord che a Sud, a danno delle classi più deboli che già oggi si ritrovano impoverite dalla crisi economica dell’ultimo decennio e dalla pandemia da Covid-19 e che domani, una volta privatizzata la sanità, avranno difficoltà a curarsi. Un tempo si sarebbe parlato di necessità di riprendere urgentemente la “lotta di classe”.

Il progetto leghista e protoleghista mira a sganciare la colonia interna Mezzogiorno, dopo che negli ultimi decenni è stata sfruttata e privata di diritti teoricamente garantiti dalla Costituzione, dal treno delle Regioni ricche padane che, come da desiderata europei, non devono perdere l’aggancio con le altre Regioni ricche del Nord Europa in un ipotetico e virtuoso traino, prima di creare una Europa a due velocità (Teoria della Locomotiva). Sganciando così le Regioni del Sud Europa e trasformandole in mercato di manovalanza a basso costo e discarica terzomondista, casomai con una moneta dedicata.
Indicativo a questo proposito l’articolo apparso sul Corriere della Sera, il giornale della borghesia italiana, il 19 giugno scorso dal Titolo, “Prodi: meglio una Europa a due velocità che ferma”, per far capire come questo progetto abbia molti padri e giunga da lontano.

Utile anche ricordare che la cosiddetta “«secessione dei ricchi» si baserebbe, in realtà, su un equivoco consistente nel ritenere effettivamente esistente nelle pieghe del bilancio dello Stato un residuo fiscale a favore di alcune Regioni e, in particolare, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Il residuo fiscale, infatti, sarebbe nient’altro che la «differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori». Saremmo di fronte a un equivoco perché in uno Stato unitario non ci sono residui fiscali dal momento che il rapporto fiscale si svolge tra il cittadino e lo Stato e non con lo specifico territorio di residenza dei soggetti che pagano le imposte. Inoltre, anche ammettendo l’ipotesi dell’esistenza di un residuo fiscale, vi sarebbe un palese errore di calcolo in quanto non si terrebbe conto del fatto che una parte della differenza di quanto versato all’erario rispetto a quanto trasferito dallo Stato alle Regioni ritornerebbe sul territorio regionale in forma di pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico posseduti dai soggetti residenti in quelle regioni.
Insomma, prendendo in considerazione la distribuzione territoriale dei detentori dei titoli del debito pubblico statale e scomputando il pagamento dei relativi interessi, assisteremmo a un’enorme riduzione del presunto residuo fiscale delle Regioni interessate dal momento che una gran parte del debito pubblico è posseduto da soggetti residenti proprio in quelle Regioni.
In ultima analisi il rischio contenuto nell’attuazione del terzo comma dell’art. 116 non sarebbe soltanto quello politico di una possibile rottura dell’Unità nazionale, quanto quello, ben più concreto, di rendere non più sostenibile il debito pubblico statale a causa della riduzione dei flussi di cassa di livello statale come conseguenza del trasferimento di funzioni fondamentali, come la sanità e l’istruzione, alle Regioni. Questo punto potrebbe rappresentare l’ultima “campana a morto” per il Mezzogiorno.

In uno Stato unitario bisogna assicurare gli stessi servizi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, così come da dettato costituzionale. Sono i cittadini più ricchi che, pagando più tasse, dovrebbero finanziare i servizi per i cittadini più poveri su tutto il territorio nazionale. Le eventuali differenze andrebbero semplicemente corrette attraverso una riforma delle organizzazioni pubbliche o

private che offrono tali servizi mettendole in condizioni di offrire gli stessi servizi su tutto il territorio nazionale. Una possibile via d’uscita per potrebbe essere quella di stabilire per legge i cosiddetti Lep  e di fissarli nella media di quelli attualmente garantiti in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Ciò significa che l’eventuale residuo fiscale potrebbe effettivamente spettare alle Regioni interessate soltanto laddove i servizi siano effettivamente deficitari” [1].

Invece di cervellotiche decisioni sempre a vantaggio dei territori più ricchi, spesso dettate da stereotipi e discriminazioni territoriali, sarebbero utili per il Sud politiche di sviluppo e di investimento, per creare posti di lavoro e combattere la disoccupazione e la desertificazione demografica, considerando che, in modo particolare negli ultimi venticinque anni, guarda caso dalle prime affermazioni elettorali della Lega Nord, la forbice degli investimenti pubblici è andata a divaricarsi sempre più fra Nord e Sud del Paese, con una spesa costantemente maggiore, di almeno cinque volte, al nord anno su anno, ben oltre il riparto percentuale della popolazione residente sui territori, mentre al Sud mai sono andati finanziamenti statali corrispondenti almeno al 34% della popolazioni residente. Non si capisce perché al Sud si dovrebbero pertanto pagare le tasse nella stessa percentuale dei cittadini del Nord data la disparità di investimenti statali ed il continuo trasferimento monoculare di risorse che al Sud si ripercuote in meno servizi, collegamenti, ospedali, asili, scuole, ecc.

Bisognerebbe ricordare, sempre a tutti e in ogni occasione, che la Costituzione della Repubblica Italiana dice al suo primo articolo che “L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro… ” e nell’articolo 32 dice: “… La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…” non si può ignorare – che riconoscendo nel lavoro il fondamento della Repubblica la Costituzione pone un limite alla proprietà, sottoposta al vincolo della «funzione sociale» e della «utilità generale». Senza di che non avrebbe senso l’affermazione secondo cui «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo tale diritto» (Art. 4).

La conseguenza è che se si sta dalla parte del capitale, i diritti di libertà e di uguaglianza si indeboliscono e vengono attaccati o distrutti. È precisamente questa la fase che stiamo vivendo con l’attacco ai diritti garantiti fatto passare per tramite dell’Autonomia differenziata. Dove è finito il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa», insieme al diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite? (Art.36). E il diritto alla parità di retribuzione per pari lavoro tra uomini e donne? (Art. 37). E quello alla pensione e all’assistenza sociale? (Art. 38). In discussione è anche il diritto per «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi» «di raggiungere i gradi più alti degli studi» (Art. 34), lo sviluppo della cultura e della ricerca, nonché la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico (Art. 9).

Secondo la nostra Costituzione, l’Italia è una Repubblica unita ed indivisibile i cui cittadini possono e devono accedere a tutti i diritti e sono obbligati ad adempiere a tutti i doveri. Ecco è a questa parità a cui bisogna aspirare; parità non formale, ma di sostanza, suffragata da politiche in grado di rendere concreti quelli che sono principi sacrosanti e inconfutabili.

Purtroppo la Costituzione dalla sua entrata in vigore non è mai stata interamente applicata e con l’Autonomia differenziata si vuole addirittura istituzionalizzare diritta di cittadinanza diversi per i cittadini italiani, di serie A (al Nord) e di serie B (al Sud), ecco perché è un progetto incostituzionale ed eversivo dell’unità del Paese.

“L’introduzione nell’ordinamento di ulteriore autonomia e competenze alle Regioni su materie di determinante interesse nazionale -comprese nell’art. 117 Cost. riformato con L cost. 3/2001- comporterebbe infatti un elevato rischio di profonde disuguaglianze nei diritti e negli interessi dei cittadini tutti ed un vulnus all’unità nazionale, oltretutto difficilissime da rimuovere comportando, grazie al relativo accordo siglato con il governo, l’esclusione della potestà legislativa centrale e delle sue facoltà di garantire sia l’unità nazionale che l’uguaglianza nei diritti e nei doveri di tutti i cittadini italiani come stabiliscono i primi 12 articoli della Costituzione.

Si darebbe inizio e legittimazione ad un pericoloso processo disgregativo della Nazione probabilmente (almeno ci auguriamo) non voluto dalle tre Regioni per prime richiedenti, ma del tutto inevitabile qualora il perseguimento dell’interesse territoriale non tenesse più conto della complessità dell’insieme su questioni vitali per la comunità statuale.

Tutela della salute, scuola (istruzione e formazione), infrastrutture e trasporti, tutela dell’ambiente, protezione civile, beni e attività culturali, organizzazione della giustizia di pace, partecipazione alla formazione ed all’attuazione del diritto dell’UE, coordinamento della finanza pubblica: tutte queste nodali materie non possono e non devono essere sottratte alla potestà legislativa dello Stato (in concorrenza con le Regioni), unico soggetto istituzionale in grado di garantire uniformità di diritti in tutto il paese ed assicurare

per rimuovere le disuguaglianze che caratterizzano i diversi territori regionali.
Ciò impone un deciso ripensamento di quanto rivendicato dalla regione Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.
Tale richiesta di ripensamento non mette e non vuole mettere in discussione la competenza legislativa attribuita alle Regioni, ma pone l’accento sulla necessità che pur rimanendo ancorata all’esigenze del territorio non debba escludere la potestà legislativa centrale.

Sottraendo nella sostanza allo Stato la possibilità di legiferare in modo concorrente, verrebbe vanificata e diverrebbe inattuabile la disposizione dell’art.3, comma 2 Costituzione che indica come compito primario della REPUBBLICA . e non di altri soggetti, quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”

E’ illusorio pensare che una maggiore autonomia legislativa sulle materie nodali elencate sopra possa garantire solidarietà: il procedimento legislativo previsto nell’art.116, comma 3 riformato nel 2001, introducendo infatti la possibilità per le Regioni di richiedere “ulteriori forme e condizioni di autonomia” prevede che vengano attribuite “con legge approvata dalle Camere con maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata”. Proprio l’eccezionale maggioranza richiesta per l’approvazione dell’intesa, peraltro in vista della riduzione del numero dei parlamentari, vanifica la possibilità che una legge-quadro nazionale possa garantire il diritto minimo all’uguaglianza tra cittadini, introducendo e “garantendo” invece sicura disuguaglianza tra Regioni con ulteriore sfasatura tra Sud e Nord con pesanti ricadute sull’organizzazione e l’erogazione di servizi alle persone.
Dall’evidenza drammatica dell’attuale contesto in cui imperversa una grave pandemia emerge quanto le regioni procedano in ordine sparso ed il loro agire appare spesso motivato da sole esigenze di egoistica contrapposizione con il Governo della Repubblica. Il risultato conseguente è quello di confusione e contraddittorietà delle disposizioni, scarsa comprensione da parte dei cittadini, disordine e spesso sperpero nell’utilizzazione delle risorse pur scarse.

Altresì emerge prepotentemente già nel contesto citato un’ulteriore forzatura dell’ordinamento istituzionale con la Conferenza Stato-Regioni che sta assumendo il ruolo improprio di  camera di contrattazione in grado di condizionare ed impedire scelte di Governo arrivando, addirittura, alla richiesta di introdurre in Costituzione la Conferenza delle Regioni, sbilanciando così e svuotando di potere ulteriormente il Parlamento, unico luogo preposto al confronto politico ed alla ricerca di una sintesi nell’interesse generale.

E’ necessario, un atto politico forte di discontinuità che prenda atto che Covid-19 ha dimostrato come sia dannoso l’impianto politico e tecnico delle richieste di autonomia differenziata e sottolinei l’esigenza di una moratoria politica sul 3° comma art. 116”[2].

Giova notare che i Presidenti di regione meridionali non
sembrerebbero favorevoli, per ovvi e giusti motivi, all’Autonomia differenziata come nel caso di Michele Emiliano, che pure ha recentemente assunto il titolo di Vicepresidente della Conferenza delle Regioni, e di Vincenzo De Luca. In passato infatti i due Presidenti hanno preso pubblicamente una posizione decisa contro questa eventualità. Emiliano un paio di anni fa in una intervista ha addirittura evocato il timore della “nascita di una guerra civile in Parlamento” nel caso dell’applicazione definitiva del provvedimento “c’è una inevitabile differenza tra le regioni del Nord e quelle del Sud, questo è un provvedimento devastante, un atto politicamente irresponsabile al quale le regioni del Sud si opporranno con tutte le forze”. Anche De Luca in passato ha preso posizione “Il processo di autonomia delle Regioni del Nord sembrava andare avanti in un clima di sottovalutazione generale e indifferenza dell’opinione pubblica. Eppure si sta discutendo dell’unità d’Italia”.

Nel marzo scorso, all’incontro sul Mezzogiorno promosso dalla Ministra del Sud Mara Carfagna, una specie di “Stati Generali del Sud”, che ha visto coinvolti sindaci, giornalisti, intellettuali e Presidenti di Regione del Mezzogiorno, fra i molti interventi interessanti, si sono distinti in modo particolare proprio quelli di Michele Emiliano, Vincenzo De Luca, ma anche quello di Nello Musumeci, che han dato prova di ben conoscere la questione meridionale nelle sue problematiche più recondite ed attuali e non hanno risparmiato i toni accesi nei loro interventi.

Le poche ombre dell’incontro si sono concentrate in una parte dell’intervento del PdC Mario Draghi, che ha aperto i lavori, dove ha sì riconosciuto il forte calo degli investimenti al Sud negli ultimi anni, che evidentemente non è più possibile nascondere, ma ha anche posto con forza l’accento sulla scarsa performance nella capacità di spesa dei fondi europei delle Regioni del Sud, cosa poi rilanciata con grande enfasi nei giorni successivi dai principali media italiani.

Questo aspetto fa infatti parte del racconto nazionale sempre discriminatorio verso il Mezzogiorno. Draghi ha dimenticato di dire che non è vero, o al limite è vero solo in parte, che della mancata spesa dei fondi europei destinati al Sud per le infrastrutture sono responsabili solo le Regioni del Sud, ma ci sono grosse responsabilità da parte del Governo nazionale. E’ l’imbroglio del mancato co-finanziamento. Così, ad esempio, ai tempi del Governo Renzi sono stati scippati 10 miliardi di euro al Mezzogiorno, scaricando contemporaneamente la responsabilità dello scippo sul Sud e sulle sue, spesso presunte, inefficienze.
Purtroppo per gli aedi di “prima il Nord” il Sud non ha l’anello al naso”, come detto nel suo deciso intervento dal Presidente della Puglia Michele Emiliano.

Dagli altri Presidenti non sono giunti interventi memorabili, probabilmente perché essendo espressioni del centrodestra nella loro alleanza è presente anche la Lega (Nord) per cui più di tanto non hanno ritenuto di sbilanciarsi e forse nemmeno lo vogliono, visto le recentissime dichiarazioni del leghista presidente f.f. Regione Calabria Spirlì su Mussolini, che ha suo dire ha fatto anche tante cose buone…

Purtroppo questi “Stati generali del Sud” pare restino solo un generatore di alcune buone ide, ma senza alcuna realizzazione, visto che come spesso capita in Italia non si vedono ad oggi sbocchi concreti. Basti pensare che da marzo ad oggi la Ministra del Sud Carfagna ha iniziato con alcune dichiarazioni a fare da sponda utile a leghisti e protoleghisti di governo per istituzionalizzare la sottrazione a favore del Nord di Fondi europei che spetterebbero al Sud da indicazioni della Ue, istituzionalizzando la quota di riparto dei fondi del Pnrr del 40% al Sud anziché il 65% indicato dall’Europa. Fino ad arrivare a dichiarare un mese fa che avremo «In cinque anni servizi uguali tra Nord e Mezzogiorno», cioè tutto rinviato a quando non ci sarà più questo governo, dopo le elezioni del 2023. Il Sud sta aspettando da 20 anni la definizione dei Lep e intanto continua a fare cassa il Nord, però per il ministro del Sud non c’è fretta, si possono aspettare altri cinque anni. In poche parole si rende complice di queste sottrazioni.

Inutile dire che essendo comunque tutti i Presidenti di Regione, al Sud come al Nord, espressione di partiti nazionali che spingono tutti indistintamente sull’avvio dell’Autonomia differenziata, più di tanto non si sbilanciano e comunque essendo in dirittura d’arrivo il provvedimento, volenti o nolenti si preparano a gestirlo. Basti pensare che addirittura l’Autonomia differenziata è richiesta a gran voce da Bonaccini Presidente dell’Emilia Romagna, che da sempre fa sponda con il lombardo Fontana ed il veneto Zaia come battistrada dell’iniziativa. E’ Bonaccini il miglior alleato della Lega in questa richiesta, visto che il Pd emiliano anche pochi giorni fa ha fatto fronte comune con la Lega in Consiglio Regionale votando compattamente su questo tema, andando così nei fatti a creare una nuova maggioranza, alla faccia del “voto utile” tanto decantato in campagna elettorale. Tutto ciò malgrado la storia della Regione Emilia Romagna sia piena di pagine di solidarietà e generosità che nulla hanno a che vedere con le parole d’ordine leghiste, come testimoniato da un combattivo Comitato regionale contro l’Autonomia differenziata, formato da cittadini liberi, che da un pochi mesi ha lanciato una raccolta firme per presentare in Regione una Petizione per il ritiro della richiesta di Autonomia differenziata [2].

La ciliegina sulla torta è che Draghi, come anticipato dal Corriere della Sera del 19 Giugno scorso, sarebbe pronto addirittura a commissariare le Regioni “che non si attiveranno per spendere le risorse finanziarie disponibili nei progetti contenuti nel Pnrr per ridisegnare le politiche attive sul lavoro, allestire i centri per l’impiego dove non ci sono, assumere le figure chiave e necessarie per la formazione di chi è escluso dal mercato del lavoro e percepisce un reddito di cittadinanza”…
Con tutta evidenza il riferimento è solo alle regioni del Mezzogiorno, visto che però che non tutte le Regioni hanno avuto lo stesso sostegno statale nei decenni passati e, ad esempio, il Mezzogiorno ha meno, molti meno, impiegati pubblici del Nord.
In poche parole, anche su questo aspetto, il gioco è truccato…

Draghi vuole avocare a sè ogni tipo di potere prima del via all’Autonomia differenziata e ai contraccolpi che questa potrebbe produrre.
Salvini aveva richiesto agli italiani i “pieni poteri” durante la crisi del primo governo Conte, Draghi li sta concretizzando per sè e per i circoli di potere che lo hanno imposto, fra commissariamento del Parlamento e task force di nominati, senza chiedere il permesso a nessuno, con la complicità di quasi tutti i partiti presenti in Parlamento e della Commissione europea.

Se la disgraziata ipotesi di commissariamento di una o più regione del Sud, si dovesse concretizzare, anche se al momento la cosa può apparire una follia, i Presidenti del Sud come reagirebbero? E l’unità nazionale reggerebbe o sarebbe l’inizio della balcanizzazione del Paese?! In questa disgraziata ipotesi tutti i responsabili avrebbero già da oggi un nome ed un cognome.

Riferimenti:

[1] Regionalismo differenziato | Analisi dei rischi del regionalismo differenziato, di Sergio Marotta

[2] Petizione Comitato No Autonomia Differenziata Emilia Romagna https://docs.google.com/forms/d/e 1FAIpQLScZIOP8NWaRGM2PRJCRWjHEVdrNCeh8_8y0aByJFFE4qLSn_Q/viewform

Contributo di Natale Cuccurese

Presidente nazionale del Partito del Sud

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