Autunno 80. La classe operaia entra in coma

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Intervista a Cristiano Ferrarese
a cura di Alberto Demabrogio

Cristiano Ferrarese, nato a Busalla, in provincia di Genova, una cinquantina di anni fa, ha vissuto a Mantova e a Bristol, dove risiede tuttora. Laureato a Padova a pieni voti in Filosofia con una tesi su Max Stirner, è stato cameriere, operaio, libraio, insegnante, impiegato, sindacalista CGIL e portiere di notte in un hotel a 5 stelle. Attualmente lavora come addetto alla sicurezza in un centro commerciale. Ha curato mostre d’arte, tradotto Austen, London, Mary Shelley, Twain… e pubblicato romanzi.

La casa editrice astigiano-torinese Scritturapura – che pubblica principalmente letteratura straniera dalle terre dentro e fuori i confini d’Europa e, da qualche tempo, anche autori italiani – ha da poco dato alle stampe Quarantamila. I 35 giorni della città di Torino, romanzo di Cristiano Ferrarese (120 pagine – 15 euro) sulle settimane di scioperi e picchetti delle tute blu nell’autunno del 1980 allo stabilimento torinese di FIAT Mirafiori in relazione all’annuncio di massicci licenziamenti, fino alla “marcia dei quarantamila” colletti bianchi. Tra dati storici e fiction, il racconto dal punto di vista di una famiglia operaia e, in parallelo, del caporeparto Luigi (Arisio), che guidò la marcia il 14 ottobre, è inanellato dalle canzoni di quegli anni, da Nada a Claudio Lolli, Eugenio Finardi, Alan Sorrenti, i Ricchi e Poveri…

Lo sguardo mi cade sul poster del Toro che celebra l’ultimo scudetto conquistato, nel ’76. Recito la formazione a voce alta: Graziani, Zaccarelli, Pulici… ‘Una delle ultime volte in cui abbiamo battuto la FIAT, speriamo di riuscirci ancora’, sentenzia mio padre. Ed è chiarissimo che non si sta riferendo al derby con la Juve”.

Il signor Luigi non sembra accorgersi delle occhiate, della moltitudine di persone attorno, è qui per ascoltare e provare a capire. Teme che questa situazione si prolungherà a lungo, teme di non poter ritornare al lavoro, teme per il futuro della FIAT e, quindi, per il suo.

Torino, autunno 1980. La radio trasmette Impressioni di settembre della PFM, perfetta per quei giorni. La temperatura è ancora dolce e Josif è appena tornato dal mare. Studia Filosofia e, per mantenersi, fa l’operaio a Mirafiori. Anche suo padre lavora alle presse, da tutta la vita. Il ritorno in fabbrica non è stato dei migliori. Nelle officine girano voci su probabili licenziamenti di massa, si parla di 13.000 lavoratori, l’aria si sta facendo pesante, il sindacato aspetta che la FIAT accetti la richiesta di cassa integrazione finché…

Nel pomeriggio, mentre i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil tornano a Roma per firmare l’accordo definitivo, alla porta cinque di Mirafiori qualcuno affigge un cartello con il volto di Marx e un commento:
avevamo la ragione e la forza, ci è rimasta la ragione… forza compa
gni

Dalle macerie della sconfitta un sindacalista della Cgil raccoglie lo striscione, caduto a terra, del Consiglio di fabbrica di Mirafiori. La bandiera di un esercito che non c’è più.

Alberto Deambrogio: I brevi capitoli del suo romanzo nascono da una ispirazione poetico-musicale e sembrano finire in una dissolvenza: la musica e il cinema come forme d’arte sorelle della letteratura. Vuole dirci come ha lavorato a questa sua creazione, come l’ha pensata all’inizio anche nella sua forma?

Cristiano Ferrarese: grazie per le belle domande. Ho scritto il libro più di dieci anni fa perché la mia intenzione era trovare un editore in occasione del trentesimo dei fatti ma poi era stato rifiutato da tutti (tra silenzi e no) e quindi è rimasto nel pc finché Giorgio Bona, amico e autore di Scritturapura, mi ha proposto di mandarlo all’editore. Così ho fatto nel marzo 2021 e ad agosto è arrivata la risposta positiva. Conoscevo i fatti successi nel 1980 ma la scintilla che mi ha portato a scrivere di quanto successo fu GB 84 di David Peace, letto in lingua originale (tradotto da Saggiatore in Italia), dove si raccontano i giorni dello sciopero dei minatori inglesi nel 1984. E pensai subito che l’equivalente di quanto successo in Inghilterra fossero i 35 giorni della Fiat. C’erano delle similitudini (la sconfitta terribile della classe operaia e una desertificazione sociale ed economica negli anni a seguire che porterà a una continua cancellazione di diritti, in cambio di lavoro precario e stipendi sempre più ridicoli) e delle differenze (in Inghilterra fu una lotta di popolo, in Italia di classe). Ho pensato di alternare il piano storico a quello della finzione per permettere al lettore di entrare meglio in una storia forse molto lontana nel tempo ma mai, secondo me, così attuale. E ho usato musica e cinema per rendere pop il romanzo, dargli ritmo (senza cui, la lettura, generalmente, è spesso un’attività tafazziana) e far vivere a chi legge quello che stava succedendo in quei giorni.

A.D.: La marcia dei 40.000 è stato un evento, per usare i termini degli storici, periodizzante. Nello stesso tempo si tratta di un fatto perso nelle nebbie di un passato sepolto, sconosciuto alle giovani generazioni. Che valore dà al recupero di una memoria che da molte parti si vuole cancellare, quella certo di una sconfitta, ma anche di una stagione che ha visto il protagonismo diretto del mondo del lavoro come soggetto di una possibile trasformazione generale della società?

C.F.: La memoria è fondamentale per capire da dove vieni, dove sei e soprattutto dove vai.

L’Italia, da sempre, ama nascondere, sotto il tappeto, le storie spinose che non hanno un lieto fine e su cui è difficile ricamarci sopra (tanto che, a differenza di America e Inghilterra dove vivo ormai da anni, non esiste una cultura della sconfitta e quindi di un possibile riscatto non religioso, forse a causa del nostro retaggio penitenziale cattolico). In più, molti italiani, per fortuna non tutti, hanno una memoria molto labile e cortissima ma non sono nemmeno aiutati da libri pubblicati o film prodotti che si limitano a essere, spesso, un racconto dell’ombelico di chi scrive o dirige.

Per il fatto in questione, credo che abbiano contribuito la Fiat (di cui è facile parlare male senza però avere il coraggio di scontrarsi direttamente) e il sindacato che non ama ricordare uno dei momenti più bui della sua storia (culminato nelle tessere strappate e nella farsa del voto all’accordo obbligato, rifiutato 35 giorni prima e poi reso esecutivo pur con la maggior parte delle mani abbassate). Sindacato che non si è più ripreso da quei giorni, oscillando tra una credibilità sempre minore (basta contare i reali iscritti alle categorie dei neo-proletari come riders e dipendenti di cooperative spurie e non) e un’incapacità (per motivi diversi da autoreferenzialità a non ricambio generazionale se non con cloni di chi coopta) di uscire da riti e linguaggi già vecchi forse nel 1980.

Questa è, comunque, la storia bellissima e tragica di chi ci ha provato e quindi non è un vinto ma uno sconfitto.

A.D.: Il “signor Luigi”, figura dietro cui è immediatamente riconoscibile la figura di Luigi Arisio, mi ha ricordato per alcuni versi la figura blissettiana e sfuggente di Q, un antagonista della classe operaia che cerca nelle sacre scritture il segno del destino. Può descriverci come è arrivato a plasmare così un protagonista di quella vicenda?

C.F.: Avevo bisogno raccontare la storia a 360 gradi e quindi non potevo dimenticare il punto di vista della “Fiat”. Migliore figura non poteva che essere quella di un personaggio ispirato a chi aveva reso possibile la marcia. Non so se Arisio fosse cattolico, leggesse le sacre scritture o fosse juventino. Ho pensato, però, di “caricare” il personaggio perché, secondo me, era ed è tuttora l’archetipo dell’uomo, o donna, che simboleggia il grigiore della maggioranza silenziosa, che fugge da sempre dai radar dei mass-media ma vota e decide le sorti del paese… Una figura quasi tragica nel suo essere sostanzialmente un conservatore che ha una missione… non scontentare mai il datore di lavoro (padre e padrone nell’ottica del capitalismo familiare italico) che gli ha permesso di vivere una vita felice e realizzata. E comunque, una figura quasi compassionevole nei confronti degli operai che, comunque, con il loro lavoro, gli hanno permesso di essere quello che era.

A.D.: Josif e Cristina, altri due personaggi di finzione che si incastonano nella “grande storia”, escono dai 35 giorni con l’impegno a non perdersi nella vita che li aspetta. In qualche modo definiscono una linea di condotta orientata soprattutto dalla resistenza personale. Rocco Papandrea, che di quei giorni fu protagonista reale, ebbe a dire: “i lavoratori avrebbero potuto resistere ancora, furono invece bruciati da come il sindacato gestì la fine della vertenza”. Cosa può rimanere al presente di quella possibilità bruciata, di quella sofferenza profonda, delle potenzialità inespresse di un’esperienza collettiva?

C.F.: Quello che successe nei 35 giorni del 1980 è uno spartiacque tra due Italia: quella delle lotte per i propri diritti, i propri sogni, le proprie aspettative e dei salari dignitosi e quella odierna del precariato assoluto, dei lavori pagati pochissimo, degli stages perenni, delle morti sul lavoro e di una totale emergenza reale e indotta tra covid e guerra in Ucraina.

Credo sia necessario ritornare a quei giorni per capire ed evitare gli errori fatti ma soprattutto perché senza un’azione comune non si va da nessuna parte e non si ottiene nessun risultato, piccolo o grande che sia. Ma bisogna farlo subito perché il tempo è sempre meno e lo scivolamento verso un totale asservimento è molto vicino.

A.D.: La sua biografia, con i molti mestieri e le molte attività lavorative svolte, pare essere l’idealtipo della nuova figura lavoratrice di oggi. Lei sembra dunque avere tutte le carte in regola, seguendo le indicazioni di Alberto Prunetti, per essere uno scrittore “working class”. Che ne pensa di questo filone di autori? Si sente in qualche modo interno a quella visione di pensiero e scrittura?

C.F.: Conosco questo filone di autori, ne ho letti alcuni (Dezio e Falco ma solo una parte tradotta in inglese di Prunetti, il più interessante come stile) e probabilmente potrei farne parte (il nuovo romanzo racconta di una operaia cinquantenne che, causa covid, viene messa in cassa integrazione e si “ricicla” come rider…molto particolare) anche se ho scritto anche di pazzia nella trilogia dei matti e di me stesso nel memoir pubblicato nel 2018.

C’è bisogno, sicuramente, di una letteratura (e di un cinema e di un teatro) che esca dalle masturbazioni consolatorie e adolescenziali fatte di storielline retoriche e minime che non dicono nulla e si rinchiudono nel (rim)pianto perenne che diventa assolvimento. C’è bisogno di “sporcizia” e di domande non retoriche senza moralismi e ideologismi di maniera… c’è bisogno di vita reale… e forse i libri si venderanno e le persone torneranno al cinema e a teatro…

Alberto Deambrogio

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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