Bergamo 2021: dopo la tempesta la pioggia continua

Ci sono due aspetti che vanno considerati per capire la situazione della provincia di Bergamo ad un anno di distanza dall’inizio della pandemia che ha registrato il più alto tasso di mortalità a livello mondiale proprio in questo territorio.

Il primo riguarda la consapevolezza dei numeri del disastro: il bilancio demografico del 2020 letto attraverso i dati rilevati da ISTAT, e recentemente riportati da Bergamonews è drammatico: al 31 dicembre 2020 la popolazione residente in provincia era di 1.099.621 abitanti, in calo di 8.505 unità rispetto al dato di inizio anno di 1.108.126 e con un saldo naturale (differenza tra nati e morti) di -8.698. Nel complesso si sono registrati 16.368 decessi e 7.670 nati.

Ovviamente il dato più eclatante è quello di marzo 2020, con 6.091 morti e un saldo naturale di -5.470, ma la lettura di questi dati conferma che, in ogni caso, nessun mese del 2020 chiude con un saldo naturale positivo. Se in Italia il virus ha abbassato la speranza di vita di 1,6 anni e in Lombardia di 2,4, nel 2020 nella provincia di Bergamo la speranza di vita si è abbassata almeno di 4 anni.

È proprio la continuità di questo dato negativo che introduce il secondo aspetto da considerare. La pandemia ha colpito la Bergamasca con una violenza unica, ma la situazione è tale che di questo evento, oggi, non si può ancora parlare al passato. La Bergamasca rimane in termini di contagio e mortalità ancora alta, in una regione che al 31 marzo 2021 conta oltre il 28% delle vittime nazionali. Al momento le strutture ospedaliere Covid free in una provincia di oltre un milione di abitanti sono solo tre e i reparti continuano ad essere al limite della saturazione. Di Covid-19 a Bergamo si continua comunque a morire anche oggi ma, per amore di verità, la Regione Lombardia spicca come al solito per scarsa trasparenza: è stato pressoché impossibile trovare i dati dei decessi relativi alle singole province lombarde anche di fronte a dati settimanali di centinaia di nuovi contagi e mentre procede la lentissima campagna vaccinale.

Soltanto il 6 aprile, grazie all’articolo di Luca Bonzanni, “L’Eco di Bergamo” pubblica i numeri dei decessi nella Bergamasca da febbraio al 5 aprile 2021. Sono 179 di cui, però 118 solo nel mese di marzo, quasi imparagonabili rispetto al dato del marzo dello scorso anno ma comunque in crescita, e sono il 24% in più del picco della seconda ondata di novembre 2020. I 19 morti dei primi 5 giorni di aprile non fanno ben sperare poiché seguono il trend del mese precedente.

Dopo la tempesta, quindi non c’è alcun sole ma semplicemente una pioggia continua e una cappa plumbea che avvolge tutta la provincia.

Sul perché sia accaduto questo proprio a Bergamo ne abbiamo già scritto[1], così come se ne sono occupate importanti pubblicazioni: il libro di Francesca Nava “Il Focolaio – Da Bergamo al contagio nazionale” è un riferimento e chiave di lettura probabilmente imprescindibile per capire quanto accaduto: dal libro traspare chiaramente quanto l’orrore di Bergamo non sia semplicemente collegato all’enormità della strage subìta ma anche nel prendere coscienza che la superficialità, le scelte valoriali di convenienza economica e politica, i calcoli meschini di coloro che occupavano le posizioni di potere e di responsabilità, hanno deciso che la vita umana non era il valore più alto da tutelare, che a questa andavano anteposti altri interessi, anche se questo sarebbe costato, così come avvenuto, migliaia di vite umane. Responsabilità che coinvolgono tutti i livelli istituzionali da quelli comunali a quelli Regionali ma anche a livello nazionale come la stessa Francesca Nava ha recentemente sottolineato in un suo articolo sul quotidiano Domani.

L’immagine che si ha, nel suo complesso, è quella di un intero sistema politico ed economico che deve continuare la sua strada lungo la filosofia del “whatever it takes” per usare una locuzione famosa del nostro attuale Presidente del Consiglio e quel “ad ogni costo” prevede la contabilizzazione di oltre 100.000 morti a livello nazionale.

In questo senso la continuità del processo produttivo “whatever it takes” è costata anche a Bergamo numerosi morti per Covid contagiati sul posto di lavoro. È estremamente difficile capire quante vittime per Covid-19 si possono contare tra i contagiati sul lavoro: la volontà di continuare i processi produttivi ed evitare la costituzione di zone rosse – motivi che sono stati alla base della strage in Val Seriana – fanno sì che i dati siano enormemente sottostimati.

Nonostante tutto qualche timida ammissione dei contagi c’è ed è accertata. A fine gennaio 2021, il report effettuato dall’INAIL contava 44 morti per contagio da Covid-19 sul posto di lavoro nella Bergamasca. Sono numeri che appaiono decisamente bassi ma che risultano ancora una volta significativi se comparati al dato nazionale: anche in questo caso specifico la provincia detiene un record a livello nazionale superiore a quello di Milano (41) e di Napoli (32), rispettivamente al secondo e terzo posto.

La cosa sorprendente, però, è il contrasto tra il numero dei contagiati denunciati e i decessi: il totale delle denunce di infortunio da Covid, nel territorio orobico, ammontano solo a 2.885, posizionando la provincia solo al nono posto nazionale e, per quanto riguarda la seconda ondata, da ottobre a fine gennaio, solo al terzultimo posto tra le province lombarde. I numeri talvolta parlano e suggeriscono interpretazioni nascoste: sembra ci sia una forte riluttanza nella Bergamasca a denunciare i contagi da Covid-19 sul lavoro, sembra che prevalga, in maggior misura rispetto ad altre province, non solo la tutela della produzione e della produttività, ma anche quella cultura lavorista che generalmente viene riconosciuta alla Bergamasca, una cultura che pone il lavoro ai primi posti della scala valoriale dell’individuo e della reputazione sociale.

Ma è proprio l’emergenza della pandemia che svela il lato oscuro di questa cultura che, nello sviluppo dell’ultimo mezzo secolo di questa provincia, una volta tra le più povere del nord Italia, si è trasformata in ideologia, nell’idea di un valore del lavoro in sé e per sé, a prescindere dal cosa e come produrre e lavorare. Se da un lato la classe padronale della Bergamasca ha fatto di tutto per non fermare le attività economiche, dall’altro è difficile negare che abbia trovato comunque terreno fertile in una cultura diffusa a livello popolare.

L’esperienza della pandemia, quindi, mostra un territorio nel quale il processo culturale che porta ad una concezione di una società basata sulla cura sarà lungo e laborioso: nonostante la relazione tra produzione e Covid-19 appaia innegabile, nonostante la tipologia dello sviluppo economico ponga la provincia tra le più inquinate d’Europa, nonostante la speranza di vita già minata da fattori ambientali abbia ricevuto un durissimo colpo dalla pandemia, siamo ancora lontani dal ripensamento, dal provare a concepire una società e una produzione che non sia devastante e che siano subordinate ai valori della cura dell’uomo e dell’ambiente.

Certamente anche in provincia c’è comunque chi si oppone a questo stato di cose e di fronte al disastro punta il dito verso i soggetti che hanno avuto e hanno tutt’ora precise responsabilità in quanto accaduto: non è solo una questione di giustizia ma, per tutto quanto appena sottolineato, anche culturale. Se alle istituzioni vanno attribuite gravi responsabilità nelle decisioni e, forse, soprattutto nelle non-decisioni prese, appare chiaro come queste stesse istituzioni fossero succubi del potere, di decisioni e di volontà delle forze economiche e produttive.

In questo senso sono sorti e hanno operato vari comitati sul territorio: dal Comitato “Noi denunceremo” al Comitato popolare verità e giustizia per le vittime di Covid-19, ad altre iniziative collettive. La strada però appare in salita, soprattutto per quanto riguarda l’azione della Magistratura: le inchieste attualmente in corso sembrano essersi incanalate verso una sorta di “tutti responsabili, nessun responsabile”. Allo stato attuale, salvo future smentite, non sembra profilarsi all’orizzonte la possibilità di portare soggetti economici e politici a rispondere di precise responsabilità in tribunale. Se le inchieste si concluderanno con un nulla di fatto, il processo di cambiamento culturale necessario soprattutto in questa provincia ne riceverà un duro colpo.

Non esiste, però, solo la strada giudiziaria. Ne esiste anche un’altra forse più efficace che lavora nella direzione del cambiamento. È una strada che percorre quella dell’alternativa nella dimensione più specificatamente sanitaria, portata avanti da soggetti che da un lato denunciano il disastro della sanità lombarda e della sua privatizzazione e dall’altro portano avanti richieste, rivendicazioni e proposte concrete. Anche a Bergamo viene seguita l’azione e sono sostenute le proposte del Coordinamento lombardo per il diritto alla salute, all’inizio del 2018, ben prima della pandemia, è nato il Tavolo della Salute di Bergamo. Il Tavolo opera come gruppo di lavoro tematico allo scopo di favorire la collaborazione di soggetti accomunati dall’interesse per il tema della salute, della difesa e del potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale. A partire dal sostegno alla campagna  –  avviata da Medicina Democratica – contro il progetto del gestore privato delle cronicità della Regione Lombardia, il Tavolo della Salute ha sviluppato in questi anni varie iniziative schierandosi esplicitamente contro la demolizione della medicina territoriale operata negli anni dal modello privatistico della sanità lombarda.

Se da un lato, quindi, non si può dire che nulla si muova sul fronte orobico, dall’altro queste azioni hanno ancora un’efficacia relativa: coordinamenti, movimenti e comitati, ad oggi, raccolgono l’adesione di un numero insufficiente di cittadini per poter sperare di delineare una concreta strada di cambiamento. Inoltre appare assente, ad eccezione di qualche caso sporadico, un coordinamento tra i vari soggetti e le loro azioni. Sono carenze importanti, soprattutto in una terra che non sembra affatto aver elaborato il lutto, che vive la pandemia come una ferita ancora aperta. In questa situazione è facile che alla lunga venga scelta la strada della rimozione nella già presente e palpabile depressione collettiva di fronte ad un contesto nel quale sembra introiettato in profondità il principio per il quale non esistono alternative. È esattamente dalla consapevolezza di questo contesto che soggetti e movimenti del territorio dovranno partire per costruire una nuova prospettiva, rivendicazioni e nuove soluzioni, una prospettiva che però richiederà davvero molta pazienza e costanza.

[1] Perché proprio Bergamo? Una riflessione oltre la notizia – Marzo 2020 , Bergamo, riflessioni dal centro della tempesta perfetta – Maggio 2020

Photo Credits: Album “Vincenzo, paziente di Bergamo dimesso dal Covid Center UCBM” by Università Campus Bio-Medico di Roma is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Marco Noris  

Attac Bergamo

16/4/2021 https://www.attac-italia.org

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 46 di maggio-giugno 2021:  “La salute non è una merce”

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