Big Tech licenzia, i lavoratori si organizzano

Uno dei fenomeni che hanno segnato il mondo dell’industria tecnologica mondiale nel 2022 è sicuramente l’ondata di licenziamenti dei dipendenti delle Big Tech. Con questo termine – almeno in questo articolo – intendiamo generalmente le grandi piattaforme digitali basate negli Stati Uniti: i cosiddetti GAFAM (Google, Amazon, Facebook o Meta, Apple e Microsoft), Twitter, ma anche altri attori del settore, come Uber o Spotify. Sotto questa espressione si raggruppano solitamente le aziende tecnologiche leader nei rispettivi settori, con alte valutazioni di mercato e una significativa influenza sullo sviluppo dell’industria.

Dopo un momento di crescita che pareva inarrestabile, culminato durante la pandemia del 2020 – 2021, aziende come Google, Facebook, Twitter, Microsoft hanno iniziato a lasciare a casa i loro lavoratori, a blocchi di centinaia o di migliaia, o a interrompere le assunzioni. Il trend è proseguito nei primi mesi di quest’anno: a gennaio 2023, Alphabet, la compagnia madre di Google, ha annunciato il taglio di 12.000 posti di lavoro. Sempre a gennaio, Microsoft ha annunciato che, nel corso dell’anno fiscale, ha intenzione di eliminare 10.000 posti. Anche Amazon non si è tirata indietro: ha iniziato a licenziare impiegati a novembre 2022, e a gennaio ha annunciato un nuovo round che colpirà 18.000 posizioni lavorative. Meta, dal canto suo, ha licenziato 11.000 dipendenti a novembre, e a marzo 2023 ha rincarato la dose: altre 10.000 persone perderanno il posto, secondo quanto dichiarato da Mark Zuckerberg, in quello che il fondatore ha definito “l’anno dell’efficienza”. La piattaforma Statista ha elaborato i dati raccolti su Layoffs.fyi, un sito che tiene traccia di tutti i licenziamenti nel tech, a partire da gennaio 2022. Il totale dei dipendenti licenziati, all’inizio di marzo 2023, era di oltre 280mila, la maggior parte di questi negli Stati Uniti.

Si tratta di numeri inediti per l’industria tecnologica, che per molto tempo è stata considerata un settore in costante espansione, complici i tassi di interesse bassi e la fiducia degli investitori.  Le cose sembrano stare cambiando.

Le ragioni dei licenziamenti

L’interpretazione del fenomeno rispetto al quadro economico generale è ancora dibattuto. Julia Pollak, chief economist presso ZipRecruiter – società statunitense che connette lavoratori e datori di lavoro online – ha commentato a Vox (in un articolo pubblicato a settembre scorso) che i licenziamenti di massa potrebbero essere un segnale che le condizioni del mercato tech stanno ritornando a un livello di normalità dopo l’esplosione durante la pandemia. “Le condizioni eccezionali che hanno causato la loro crescita ora sono evaporate, per così dire”, ha detto Pollak. Secondo questa interpretazione, le condizioni della pandemia avrebbero creato una bolla, che, con il ritorno alle condizioni usuali, si sarebbe infranta.

Un’altra spiegazione è quella che lega la crisi di Big Tech all’aumento dei tassi di interesse. Senza entrare in spiegazioni eccessivamente tecniche, si può riassumere così: la crescita degli ultimi 15 anni dell’industria tecnologica, specialmente statunitense, è stata costruita sul fatto che prendere in prestito denaro per finanziare l’espansione di progetti aziendali, anche molto ambiziosi, era praticamente gratis. Ora che non è più così, e i tassi di interesse continuano a crescere, le aziende stanno prendendo provvedimenti per tagliare i costi, su pressione degli investitori che vedono i prezzi delle azioni scendere.

Il terzo fenomeno che può spiegare i licenziamenti di massa è la crisi del mercato pubblicitario. Dato l’aumento dei prezzi e le prospettive di recessione, molte aziende hanno deciso di tagliare i costi dell’advertisement. Dal momento che Google, Facebook e molte piattaforme digitali hanno tra i core business quello di vendere opportunità e spazi pubblicitari, questa tendenza (che non sembra essersi esaurita con la fine del 2022) le ha colpite in modo significativo.

Infine, l’epidemia di tagli al personale potrebbe essere spiegata con un effetto copycat. “Quando tutti i tuoi concorrenti stanno licenziando il 10 percento del loro personale – e vengono ricompensati dal mercato per questo! – eliminare il 10 percento dei tuoi lavoratori può sembrare una cosa giusta o inevitabile”, ha scritto il giornalista Derek Thompson su The Atlantic.

Il legame tra i licenziamenti del tech e le dinamiche generali del mercato del lavoro non sono ancora cristalline. Il livello di disoccupazione negli Stati Uniti resta basso, intorno al 3,5 per cento, e i licenziamenti del 2022 hanno riguardato una fetta piccola della forza lavoro, intorno all’1 per cento. Insomma, il fenomeno, secondo molti, è ristretto all’industria tecnologica e non è significativo per l’andamento generale dell’economia, nemmeno se si guarda ai soli Stati Uniti.

Non ci sarebbe inoltre una mancanza di opportunità di lavoro e di posizioni ancora aperte: il mondo tech resta un settore dinamico, anche al di là delle grandi piattaforme o dell’ecosistema della Silicon Valley: diverse industrie, dalla sanità, all’istruzione richiedono competenze digitali avanzate, come quelle di architetti cloud, sviluppatori e data analyst, o esperti di cyber sicurezza.

Big Tech licenzia, ma la domanda di lavoratori tech resta

Questo non toglie che i licenziamenti di massa, specialmente quelli di grandi aziende come Meta o Alphabet, abbiano avuto un impatto significativo. E che abbiano in parte influenzato anche un’altra tendenza interna al settore: quella dell’organizzazione e della sindacalizzazione dei lavoratori.

I lavoratori di Big Tech si organizzano

Il 2022 ha visto il raggiungimento di diversi traguardi sindacali. Ad aprile, a Staten Island, nella città metropolitana di New York, è nato il primo grande sindacato interno ad Amazon, su iniziativa dei lavoratori di un magazzino. Diversi Apple Store hanno inoltre iniziato a formare sindacati per i loro lavoratori del settore retail. Le loro richieste si articolano principalmente intorno ai temi dei turni lavorativi, della sicurezza, e ovviamente della paga. Un altro sotto-settore che ha conosciuto un’ondata di sindacalizzazione negli ultimi due anni è quello dei videogame: sottoposti a pressioni estreme in fase di consegna dei prodotti creativi (il cosiddetto crunch), gli sviluppatori hanno deciso di prendere in mano la situazione. A maggio, Activision Blizzard ha visto nascere il primo grande sindacato statunitense dell’industria dei videogame.

La sindacalizzazione dei lavoratori in Europa

Il fenomeno non riguarda solo gli Stati Uniti. A gennaio del 2023, in Francia, i lavoratori dell’azienda di sviluppo di videogiochi Ubisoft (che ha prodotto giochi popolarissimi con Just Dance o Assassin’s Creed) hanno scioperato per protestare contro i ritmi di lavoro. In Svizzera, gli impiegati di Google a Zurigo hanno abbandonato i locali aziendali (quello che in inglese è noto come walkout) per protestare contro i tagli del personale decisi dalla casa madre, Alphabet. Già negli anni precedenti i lavoratori di piattaforma, dagli autisti di Uber e i rider per la consegna di cibo a domicilio fino ai contractors impiegati nei call center del Sud Globale, si erano organizzati dando vita a diverse proteste. Le contestazioni e le lotte hanno riguardato molti Paesi del mondo, dal Sudafrica, alle Filippine, alla Croazia. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni punti di rivendicazioni dei lavoratori tech sono stati riassunti in un articolo pubblicato su Guerre di Rete a dicembre.

“L’organizzazione dei sindacati del settore tecnologico è principalmente guidata dalla disillusione e dalla delusione dei lavoratori del settore, che ritengono che i loro datori di lavoro privilegino la pressione degli investitori rispetto al benessere dei dipendenti”, ha commentato a Guerre di Rete Christy Hoffman, segretaria generale di UNI Global Union, un sindacato globale attivo in numerosi settori, compresi quello dell’ICT e del gaming.  “In risposta, i lavoratori del settore tecnologico si iscrivono e formano sindacati come mezzo per proteggersi da azioni arbitrarie e ingiuste da parte dei loro datori di lavoro, oltre che per rivendicare compensi e benefit equi. Questa tendenza è evidente nell’aumento delle adesioni ai sindacati dell’industria tecnologica in Paesi come Svezia, Germania, Regno Unito e Irlanda, dove i lavoratori si organizzano e fanno campagne per i loro diritti. Ad esempio, Unionen sta conducendo campagne per sindacalizzare i lavoratori di Spotify in Svezia, mentre ver.di sta incrementando la sua presenza nel settore con campagne per organizzare consigli dei lavoratori in Spotify, SAP e TikTok in Germania. Allo stesso modo, anche nel Regno Unito e in Irlanda i lavoratori del settore tecnologico stanno aderendo ai sindacati in gran numero”. 

Il legame tra sindacalizzazione e licenziamenti di massa

Qual è dunque il legame tra queste due macro-tendenze osservabili all’interno dell’industria tecnologica? I licenziamenti di massa spingono i lavoratori a organizzarsi oppure li frenano? Continua Hoffman: “In risposta alla recente ondata di licenziamenti nell’industria tecnologica, molti lavoratori si rivolgono sempre più ai sindacati come mezzo per promuovere un trattamento equo. Le proteste sono state organizzate da circa 250 dipendenti di Alphabet a Zurigo e a New York. Nel frattempo, in Francia, gli sviluppatori di Ubisoft Paris hanno tenuto il primo sciopero in assoluto dell’azienda dopo che la direzione ha annunciato la cancellazione di tre giochi, fatto per cui l’amministratore delegato della società ha incolpato i lavoratori”. 

I licenziamenti di massa possono essere interpretati, secondo alcuni, anche come una strategia di union busting, ovvero una serie di tattiche per impedire la formazione di sindacati o la loro efficacia. Non sarebbe la prima volta che Big Tech viene accusata dai lavoratori di queste tecniche.

“Il settore tecnologico sembra scommettere sul fatto che questi licenziamenti di massa (…) non solo ridurranno i costi del lavoro, ma ricordano ancora una volta ai lavoratori tecnologici, sempre più responsabilizzati, la loro insicurezza e il potere che le aziende ancora detengono. È una scommessa che storicamente ha dato i suoi frutti e ha contribuito a trasformare i giganti tecnologici in alcune delle aziende più redditizie della storia”, ha scritto il giornalista Brian Merchant sul Los Angeles Times.

I leader sindacali, tuttavia, non perdono la loro fiducia. Hoffman prosegue ricordando il ruolo dell’azione sindacale e collettiva e come questa abbia contribuito a opporsi ai licenziamenti di massa, o almeno, come in un caso che ha riguardato Twitter e i sindacati spagnoli, a negoziare migliori condizioni di buonuscita per i lavoratori. “In Spagna, UGT e CCOO (due dei maggiori sindacati del paese, ndr) si sono affrettate a chiedere che Twitter rispetti il diritto del lavoro spagnolo dopo che Elon Musk ha annunciato il piano di licenziamento di oltre l’80% del personale della piattaforma in Spagna. Alcune settimane dopo i lavoratori stavano negoziando una buonuscita superiore a quella offerta inizialmente dall’azienda”. L’accordo è diventato effettivo l’8 febbraio.

In bilico più giovani, donne o minoranze

La crisi dell’impiego in Big Tech ha ampliato disuguaglianze già esistenti. Secondo un’analisi di Revelio Lab, riportata da Reuters, donne e lavoratori di origine latina, negli Stati Uniti, sono tra i più colpiti dai licenziamenti, nonostante siano sottorappresentati in termini numerici nella forza lavoro. Sono calati gli annunci di lavoro anche nel settore della diversity and inclusion.

La situazione attuale rischia di minare gli sforzi di chi, per quanto con molta difficoltà, ha cercato di rendere l’industria più inclusiva. I licenziamenti colpiscono i lavoratori con meno anzianità, quindi hanno un’alta probabilità di interessare coloro che sono entrati in azienda grazie alle recenti iniziative di promozione della diversity. In generale, le donne e le persone appartenenti a minoranze etniche o razziali hanno meno possibilità di frequentare l’ufficio rispetto ai colleghi e – in una fase di riduzione dello smart working – sono di conseguenza più vulnerabili a valutazioni della loro performance parziali o inaccurate.

Oltre la Silicon Valley

I licenziamenti di massa non hanno toccato solo colletti bianchi – lavoratori relativamente privilegiati all’interno dell’industria – e hanno avuto un impatto che va ben oltre la Silicon Valley. Hanno perso il lavoro tanti dipendenti di aziende che lavoravano in appalto per le grandi piattaforme, quei lavoratori del Sud Globale assunti dai partner di Big Tech con l’intento, più o meno esplicito, di sfruttare un gap salariale tra Nord e Sud del mondo. La rivista TIME riporta ad esempio, citando fonti esclusive, che la compagnia di servizi di outsourcing CloudFactory (specializzata nell’addestramento di algoritmi di intelligenza artificiale) ha tagliato centinaia di posti di lavoro tra il Nepal e il Kenya. Secondo le ricostruzioni di TIME, i licenziamenti sarebbero legati alla fine di un contratto con Microsoft. A Novembre Twitter ha licenziato migliaia di contractors impiegati da aziende terze, sia negli Stati Uniti che all’estero.

Allo stesso modo, anche i lavoratori in appalto vogliono avere voce in capitolo nel movimento sindacale: alcuni dipendenti del servizio di music content di YouTube, assunti da un’azienda terza, Cognizant, hanno scioperato per reclamare salari più alti, sostenuti dal sindacato Alphabet Workers Union (Alphabet è l’azienda madre di YouTube e Google). I lavoratori in sciopero hanno accusato la compagnia di pratiche anti-sindacali: in particolare di utilizzare la fine dello smart working come pretesto per tagliare posti di lavoro, ostacolando inoltre gli sforzi organizzativi dei dipendenti. “In un atto di ritorsione contro i nostri sforzi organizzativi, il nostro datore di lavoro sta obbligando la fine del lavoro a distanza prima del voto [per il sindacato], il che interferirebbe drammaticamente con le condizioni di voto eque imposte dalla legge federale”, ha detto uno dei lavoratori, Sam Regan, durante la manifestazione. La leva della fine dello smart working è stata usata di recente anche dalla nuova proprietà di Twitter per obbligare i lavoratori ad andarsene.

I licenziamenti, con ogni probabilità, continueranno nei prossimi mesi, per tutto il 2023. L’impatto sulla natura dell’industria è difficile da valutare al momento, ma una cosa pare certa: i lavoratori, i veri protagonisti di questo scenario, non intendono restare in disparte.

Irene Doda

2/4/2023 https://www.guerredirete.it

Immagine in evidenza: Foto di Christian Erfurt su Unsplash

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