Chemioterapia, una cura utile al malato o al business farmaceutico?

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Questa inchiesta contiene una serie di dubbi e “provocazioni” scientifiche che la redazione propone all’attenzione di medici e studiosi con l’intento di entrare dentro un tema che vede letture diverse. (Redazione Lavoro e Salute)

Non dico nulla della chemioterapia, perché si sa già tutto. Essa ha un’azione deleteria e devastante sull’intero organismo. La chemioterapia si regge su un assioma, anzi su un paradosso: Ciò che fa venire il cancro, lo guarisce, guardi a che assurdità si è arrivati. Nella chemioterapia, la ciclofosfammide non è altro che un’iprite chelata che viene introdotta nell’organismo, causa sui tessuti delle reazioni di Feulgen liberando quattro molecole di acido cloridrico. Quindi come si può pensare di curare il cancro con l’acido cloridrico?”
Prof. Gianfrancesco Valsé Pantellini, biochimico fiorentino ideatore del Metodo Pantellini, in un’intervista rilasciata a Cosco pubblicata in “Individuo, malattia e medicina
” (Editrice Andromeda, Bologna 1995).

Dai veleni di guerra alla chemioterapia

Diossina, talidomide, arsenico, iprite: parole che evocano nella memoria il ricordo di tragedie, disastri, guerre e armi chimiche, ma da cui la ricerca in campo medico è riuscita a trarre beneficio. Non è la prima volta che veleni e armi chimiche usati in contesti bellici diventano uno spunto per dare input a settori industriali (agro-chimica, ricerca biomedica allopatica). Pensiamo a come la guerra del Vietnam è stata utile contro la malaria. L’azione antimalarica dell’artemisina, l’ultima classe di composti usati contro questa malattia, fu individuata infatti negli anni Settanta da scienziati cinesi cui era stato affidato il compito di trovare un rimedio contro la malattia, che stava mietendo vittime tra i soldati vietnamiti in guerra.

Lo dimostra uno studio internazionale coordinato da Stefano Santaguida dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e dell’Università Statale di Milano. Pensiamo all’Agent Orange, gas venefico usato contro la popolazione vietnamita che è stato l’origine della nascita dei pesticidi nel settore agro-chimico-alimentare. E così, la società industriale, con la diossina, il talidomide, l’arsenico e l’iprite ha fornito alla medicina allopatica occidentale la base da cui ricavare le molecole e i farmaci di punta per la chemioterapia contro il cancro di oggi.

A spiegarlo è stato Alberto Mantovani, della Fondazione Humanitas per la ricerca di Rozzano e dell’Università Statale di Milano, a margine di un’iniziativa dell’Airc (Associazione Italiana Ricerca sul Cancro). “Dal disastro di Seveso con la fuoriuscita di diossina – precisa – i ricercatori sono riusciti a scoprire un recettore che, se toccato in modo giusto dalle componenti di frutta e verdura, è fondamentale per far maturare il nostro sistema immunitario e proteggerci quindi dal cancro”. Un altro di quelli che Mantovani definisce “miracoli della ricerca” è il talidomide, che negli anni ’60 fu responsabile della nascita di molti bambini focomelici, e oggi “usato, ovviamente in dosaggi minori – continua Mantovani – nella cura del melanoma”. Altro esempio di riconversione’ di veleni è l’arsenico, noto come veleno per topi e famoso perche’ usato dall’eroina di Gustave Flaubert, Emma Bovary, per suicidarsi. Anche l’arsenico ora viene usato come terapia contro il cancro. “Molto importante è stato anche lo studio su alcuni carcinogeni, come gli idrocarburi policiclici – prosegue – da cui è nata la chemioterapia e in particolare i farmaci per le leucemie”. Uno dei primi farmaci chemioterapici, ricorda Mantovani, “è stato ricavato da gas usati per la guerra chimica, come l’iprite”. Ma davvero la chemioterapia è stata utile alla lotta contro il cancro?

La chemioterapia è utile?

Il cancro è responsabile di quasi 1 morte su 6 nel mondo, e il numero di nuove diagnosi è in continuo aumento e destinato a passare da 14 a 21 milioni l’anno da qui al 2030. Ad affermarlo sono le stime pubblicate nel 2022 dall’Oms in occasione del World Cancer Day. Secondo l’organizzazione ogni anno 8,8 milioni di persone muoiono per tumore – la maggior parte delle quali nei Paesi a basso e medio reddito – anche se in tutti i Paesi molti casi sono diagnosticati in uno stadio avanzato. Il costo economico mondiale di questa malattia è stato stimato a 1,16 mila miliardi di dollari. Tra i circa 8,8 milioni di persone che muoiono, la stragrande maggioranza si affidano a chemioterapia o radioterapia.

Quindi la domanda sorge spontanea: è efficace o non è efficace la chemio nella cura del cancro? È un trattamento medico validato scientificamente o è l’unica spiaggia su cui la medicina allopatica fa riferimento? Mentre le case farmaceutiche e la loro ricerca eterodiretta sono abbastanza concordi sul dire che è l’unica soluzione, la comunità scientifica è molto divisa e la letteratura medica parla chiaro.

Innanzitutto bisogna dire che non è uno scandalo che la medicina allopatica proceda anche attraverso trattamenti non validati scientificamente. I risultati di uno studio di Clinical Evidence (Evidenza Clinica), dal sito del prestigioso British Medical Journal, aveva sancito che la maggior parte dei trattamenti medici non era basata su valide prove scientifiche: “Su 3.000 trattamenti sottoposti a valutazione tramite esperimento randomizzato con gruppo di controllo è emerso che:
– il 50% dei trattamenti è di sconosciuta efficacia;
– il 24% sembra che siano benefici;
– l’11% sono benefici;
– il 7% è in una zona limite tra effetto benefico e danno;
– il 5% probabilmente non sono benefici;
– il 3% sembra che siano inefficaci o dannosi.”

Quindi, non è impossibile che la stessa dose di incertezza vi sia anche per la chemio.

Poco nota al grande pubblico è la vasta indagine condotta per 23 anni dal Prof. Hardin B. Jones, fisiologo presso l’Università della California, dal titolo “A report on cancer”. La ricerca è stata conclusa nel 1969 e presentata nel 1975 al Congresso di Oncologia presso l’Università di Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsificate, egli provava che i malati oncologici che non si sottopongono alle tre terapie allopatiche anti-cancro – ovvero la chemioterapia – sopravvivono più a lungo o almeno quanto chi riceve queste terapie. Come dimostra Jones le malate di cancro al seno che hanno rifiutato le terapie tradizionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da coloro che si sono invece sottoposte alle cure complete.

Una notizia che avrebbe dovuto fare scalpore su tutti i mass media, ma che forse avrebbe fermato i colossali finanziamenti alle case farmaceutiche per la ricerca anti-cancro. Per questo, Jones venne “punito” con la censura dei dati, persecuzione intellettuale e pubblico ludibrio. Solo un giornalista ebbe il coraggio di riferire la statistica, che così rimase sconosciuta in America e in Europa, anche se in seguito venne ripresa da qualche pubblicazione tedesca.

Nel 1975 venne pubblico un altro studio volto ad avvalorare questa tesi, dal titolo “Treatment of inoperable carcinoma of bronchus”. Questo caso riguarda uno studio condotto da quattro ricercatori inglesi (Laing AH, Berry RJ, Newman CR, Peto J.), pubblicato su The Lancet (13-12-1975), che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi. La vita media di quelli trattati con chemioterapia completa fu di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 220 giorni.

Nel 1976, un altro studio afferma: “Questo rapporto fornisce i risultati di 5 anni di uno studio in doppio cieco di lungo termine della chemioterapia citotossica come adiuvante alla chirurgia nei pazienti trattati con busulfan o ciclofosfamide per il carcinoma del bronco rispetto ad un gruppo che ha ricevuto un placebo. Dei 243 pazienti inizialmente assegnati busulfan, 234 assegnati a ciclofosfamide e 249 con placebo rispettivamente il 28%, 27% e 34% erano vivi a 5 anni”.

Nel 1992, il ricercatore U. Abel pubblica lo studio “Chemotherapy of advanced epithelial cancer–a critical review”, una versione ridotta di una relazione che presenta un’analisi completa di studi clinici e pubblicazioni che esaminano il valore della chemioterapia citotossica nel trattamento del cancro epiteliale avanzato. 
Come risultato delle analisi e dei commenti ricevuti da centinaia di oncologi in risposta ad una richiesta di informazioni, lo studio afferma che: “Oltre a cancro polmonare, in particolare piccole cellule cancro ai polmoni, non vi è alcuna prova diretta che la chemioterapia prolunga la sopravvivenza in pazienti con carcinoma avanzato. 
Tranne per il cancro
ovarico, disponibile prova indiretta conferma piuttosto l’assenza di un effetto positivo. Nel trattamento del cancro del polmone e il cancro ovarico, il beneficio terapeutico è nella migliore delle ipotesi piuttosto piccola, e un trattamento meno aggressivo sembra essere almeno efficace quanto quella usuale. E ‘possibile che alcuni sottogruppi di pazienti traggono beneficio dal trattamento, ma finora i risultati disponibili non consentono una definizione sufficientemente precisa di questi gruppi. Molti oncologi danno per scontato che la risposta alla terapia prolunga la sopravvivenza, un giudizio che si basa su un errore e che non è supportato da studi clinici. Ad oggi, non è chiaro se i pazienti trattati, nel suo complesso, giovamento dalla chemioterapia alla loro qualità di vita. Per la maggior parte dei siti tumorali, urgentemente necessari tipi di studi randomizzati come de-escalation di dosi o confronti di immediata rispetto alla chemioterapia differita sono ancora carenti. Con poche eccezioni, non esiste una buona base scientifica per l’applicazione della chemioterapia in pazienti senza sintomi con avanzate neoplasia epiteliale.

In Italia, nel 1994 succede qualcosa d’interessante quando La Stampa pubblica l’articolo “Ombre sulla Lega Tumori. Fa affari, non prevenzione” (p. 13, La Stampa). Il sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, bocciò il bilancio di previsione 1993 della Lega Tumori, sostenendo che più del 90% delle spese non veniva destinato alla ricerca o alla cura dei tumori, ma all’investimento immobiliare e mobiliare.
L’accusa dell’onorevole Fiori, veniva supportata da cifre di per sé eloquenti: la sede centrale aveva destinato una minima parte dei mezzi finanziari di cui disponeva, al raggiungimento degli obiettivi istituzionali, equivalenti a 810 milioni di lire (nemmeno 1 miliardo!), mentre ben 9.360 milioni sarebbero stati spesi per investimenti patrimoniali. Fiori sottolineava che la Lega Tumori “tiene in piedi un’organizzazione che assorbe costi amministrativi ammontanti a circa 2 mila milioni, dedita per la maggior parte ad investire in operazioni finanziarie, consistenti in prevalenza in acquisto o rinnovo di titoli di Stato”.

Nel 2004, partendo dal dibattito su come il finanziamento dei medicinali citotossici stimolasse delle domande sull’effettivo contributo della chemioterapia curativa o coadiuvante alla sopravvivenza di pazienti oncologici adulti, uno studio australiano ha eseguito una ricerca della letteratura medica per degli studi randomizzati sul beneficio – a distanza di 5 anni – attribuibile alla chemioterapia citotossica nei tumori degli adulti. Il numero totale di pazienti con nuova diagnosi per 22 tipi di tumori negli adulti venne ottenuto per l’Australia dai dati del registro tumori e per gli USA dai dati della sorveglianza epidemiologica e risultati finali, per il 1998. Per ogni tipo di tumore il numero assoluto dei traenti beneficio era il prodotto di (a) il numero totale delle persone con quel tipo di tumore; (b) la proporzione o sottogruppo (sottogruppi) di quel tipo ditumore che mostrava un beneficio; (c) l’incremento in percentuale nella sopravvivenza a distanza di 5 anni dovuto alla sola chemioterapia citotossica. Il contributo totale era la somma dei numeri assoluti che mostravano un beneficio nella sopravvivenza a distanza di 5 anni, espressa come percentuale del numero totale per ognuno dei 22 tipi di tumore. Lo studio ha concluso che il contributo totale della chemioterapia citotossica curativa o coadiuvante alla sopravvivenza a distanza di 5 anni negli adulti è stato stimato essere il 2,3% in Australia e il 2,1% negli USA, sottolineando come fosse evidente che la chemioterapia citotossica faccia un minimo contributo alla sopravvivenza nei casi di tumori. Secondo l’oncologo Graeme Morgan e la sua equipè “Per giustificare il finanziamento e la disponibilità della chemioterapia citotossica in futuro, urge una valutazione rigorosa della relazione costo-beneficio e dell’impatto sulla qualità della vita”.

Il 2 marzo 2013, il British Journal of Cancer (2013-03-02) pubblica uno studio ha sancito che, nel cancro gastrico, la chemioterapia non aumenta la sopravvivenza, stabilendo nelle sue conclusioni: “Intensificazione di Mf chemioterapia adiuvante prolungando la durata della fluoropirimidina orale e l’aggiunta di cisplatino era sicura ma non efficace per migliorare la sopravvivenza nei pazienti con tumore gastrico curativo asportati”.

Cancerogenicità della chemioterapia

Oltre a questi dati che rivelano il fallimento della chemio nella cura del cancro, vi è anche una parentesi molto interessante su come la stessa chemioterapia sia di per sé – riconosciuta scientificamente -cancerogena. A dirlo non sono medici omeopatici critici della medicina allopatica, ma bensì lo stesso Istituto Superiore di Sanità che nel documento “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici: rischi per la riproduzione e strategie per la prevenzione” curato da Grazia Petrelli e Silvana Palmi nel 2002, parlando dei “principali chemioterapici antiblastici utilizzati in Italia” afferma che “Tutti gli agenti alchilanti sono potenzialmente mutageni e cancerogeni…”. Per quanto riguarda gli antraciclinici, tra i chemioterapici usati, si legge: “stomatite, alopecia e disturbi gastrointestinali sono comuni ma reversibili. La cardiomiopatia, un effetto collaterale caratteristico di questa classe di chemioterapici, può essere acuta (raramente grave) o cronica (mortalità del 50% dei casi). Tutti gli antraciclinici sono potenzialmente mutageni e cancerogeni”.

Per quanto il chemioterapico procarbazina, si dichiara che “E’ cancerogena, mutagena e teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con terapia radiante (…)”. In tutto il documento, riservato ai lavoratori della sanità e di come i chemioterapici possano essere un rischio per loro, il termine “cancerogeno” figura in ben 88 ricorrenze. In un altro

documento dell’ISS, “Linee-guida per la sicurezza e la salute dei lavoratori esposti a chemioterapici antiblastici in ambiente sanitario”, si dichiara: “…Uno dei rischi rilevati nel settore sanitario è quello derivante dall’esposizione ai chemioterapici antiblastici. Tale rischio è riferibile sia agli operatori sanitari, che ai pazienti (…) Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli Agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 ‘Protezione da agenti cancerogeni’. Infatti, trattandosi di farmaci, non sono sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/CEE e quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 ‘Può provocare il cancro’ o la menzione R49 ‘Può provocare il cancro per inalazione’…”.

Non è infatti un caso che il noto cancerogeno Tamoxifene, vengano usato nei pazienti con carcinoma mammario in quanto si afferma esistano prove conclusive che riduca il rischio di carcinoma mammario controlaterale. Eppure figura nell’elenco dei cancerogeni conosciuti e probabili vicino alla mostarda di zolfo e al tabacco.

Nel 2012, uno studio condotto da un’equipè di oncologi, ha scoperto che chemioterapia può stimolare il cancro nelle cellule circostanti: “L’espressione di WNT16B nel microambiente tumorale della prostata attenuato gli effetti della chemioterapia citotossica in vivo, promuovere la sopravvivenza delle cellule tumorali e la progressione della malattia. Questi risultati delineano un meccanismo attraverso il quale le terapie genotossici fornite in modo ciclico possono aumentare la successiva resistenza al trattamento con cellule effetti non autonomi che hanno contribuito dal microambiente tumorale.”

Nel 2014, uno studio Usa pubblicato su ‘Pnas’, finanziato dai National Institutes of Health, coordinato da Michele Markstein dell’University of Massachusetts Amherst e Norbert Perrimon della Harvard Medical School, ha gettato nell’ombra alcuni farmaci autorizzati dall’americana Fda. Vari farmaci chemioterapici potrebbero avere un insospettato effetto collaterale: da un lato contrastano la crescita del cancro, dall’altro iperattivano le staminali che abitano nell’organo bersaglio, con il rischio di scatenare ricadute. Utilizzando un inedito modello sperimentale, l’intestino del moscerino della frutta, gli scienziati hanno scoperto che “diversi agenti chemioterapici in grado di stoppare tumori a crescita rapida hanno un effetto opposto sulle cellule staminali dello stesso animale, portandole a dividersi troppo velocemente” con il pericolo di una nuova neoplasia. Secondo lo studio infatti: “Questi risultati rivelano un effetto collaterale imprevisto sulle cellule staminali che possono contribuire alla recidiva del tumore”.

Ulteriori effetti avversi della chemioterapia

Oltre all’inefficacia nella cura del cancro, la chemio può provocare molti effetti collaterali. Secondo uno studio, le donne che sopravvivono al cancro al seno dopo aver subito la chemioterapia possono anche fare i conti con problemi di attenzione, memoria e capacità di pianificazione.
Danni cerebrali li può provocare anche ai bambini e ci sono prove di sottili deficit neurocognitivi a lungo termine nei sopravvissuti dell’infanzia dopo il trattamento con la sola chemioterapia. È ben noto in letteratura che il declino in intelletto generale e il rendimento scolastico è vissuta da una maggioranza di quelli sottoposti a trattamento per il medulloblastoma pediatrica.

Non meno gravi sono i problemi cardiaci. Nel 2012, uno studio comparso sulla rivista Nature Medicine ha fatto luce su un meccanismo molecolare per cui un farmaco chemioterapico può causare problemi cardiaci. Il farmaco studiato dai ricercatori è la doxorubicina, da 50 anni utilizzata per curare molti tipi di cancro. «La tossicità cardiovascolare è una potenziale complicazione di diverse terapie anticancro ed è un argomento che richiama crescente attenzione – spiega Daniela Cardinale, direttore dell’Unità di Cardioncologia all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Sono così sempre più numerose le ricerche che provano come alcuni chemioterapici (ad esempio le antracicline) e alcuni farmaci a bersaglio molecolare (generalmente considerati meno tossici) siano potenzialmente responsabili di disfunzioni cardiache e conseguenze indesiderate a livello cardiovascolare, talvolta irreversibili.

Tra le più gravi controindicazioni vi è anche l’accelerazione dell’invecchiamento molecolare. Utilizzando un test sviluppato presso UNC Lineberger Comprehensive Cancer Center per determinare l’invecchiamento molecolare, oncologi UNC hanno direttamente misurato l’impatto di farmaci chemioterapici sull’ invecchiamento biologico.

I ricercatori hanno misurato il livello di p16, una proteina che causa l’invecchiamento cellulare, nel sangue di 33 donne di età superiore ai 50 anni che avevano subito la chemioterapia per il cancro al seno. Dalle pazienti sono stati prelevati campioni di sangue per valutare l’invecchiamento molecolare, prima della chemioterapia, subito dopo la chemioterapia e un anno dopo che la terapia era finita. 

L’analisi ha mostrato che la chemioterapia aveva provocato un aumento dell’età molecolare in modo equivalente a 15 anni di invecchiamento normale. Lo stesso era vero in un gruppo separato di 176 sopravvissute al cancro al seno che avevano ricevuto la chemioterapia tre anni e mezzo prima. Lo studio, guidato da Hanna Sanoff, MD, MPH, assistente professore presso la Scuola di Medicina di UNC e membro del UNC Lineberger, è stato pubblicato nel marzo 2014 sul Journal of National Cancer Institute, concludendo che: “La chemioterapia adiuvante per il tumore al seno è gerontogenica, induce la senescenza cellulare in vivo, accelerando così l’invecchiamento molecolare dei tessuti emopoietici”.

Fallimento della chemioterapia e chemio-resistenza

“E’ difficile far capire qualcosa a un uomo il cui stipendio dipende dal fatto che non la capisca” – disse lo scrittore socialista americano Upton Sinclair a proposito dei medici allopatici che prescrivevano la chemio. Ad oggi sempre più si sta capendo, attraverso soprattutto le esperienze dei pazienti oncologici, che la chemioterapia è fallita in quanto non aiuta il malato ad attraversare la malattia, distrugge il sistema immunitario utile nella cura e soprattutto non dà effettive prospettive di vita. Ad oggi sempre più studi stanno constatando che la il tumore combatte la chemio in quanto diventato “chemio-resistente”.
Ad dimostrarlo è stato in ultima analisi uno studio internazionale coordinato da Stefano Santaguida dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e dell’Universita’ Statale di Milano. I risultati della ricerca, sostenuta anche da Fondazione AIRC, sono pubblicati sulla rivista Developmental Cell. “Il nostro lavoro dà un contributo fondamentale alla comprensione delle cause della chemioresistenza, un rischio che incombe anche sui farmaci anticancro più efficaci”, spiega Santaguida. “Abbiamo dimostrato che la cellula tumorale è capace di sfruttare la sua instabilità genetica per sopravvivere anche in condizioni di stress, quale l’attacco mortale di un farmaco chemioterapico.
Tutto parte dall’aneuploidia, un cambiamento del numero di cromosomi, che risulta in un patrimonio cromosomico (cariotipo) diverso dalle cellule normali e caratterizzato da instabilità genetica. Questa instabilità è alla base del ‘caos cellulare’ caratteristico del cancro, che manda in tilt il normale funzionamento della cellula. Come se le cellule stessero continuamente ‘rimescolando le carte’. Questo continuo rimescolamento può essere sfruttato da una cellula tumorale per sopravvivere: mettendo continuamente sottosopra il proprio corredo genetico, quando viene attaccata da una molecola di chemioterapico può selezionare meglio il suo ‘poker d’assi’, cioè il cariotipo capace di resistere al farmaco. Questo spiega perchè in alcuni pazienti la chemioterapia potrebbe non raggiungere i risultati desiderati”.
L’aneuploidia è presente nel 90% dei tumori solidi e il 75% di quelli ematologici. “Il nostro obiettivo – afferma Santaguida – è inserire l’analisi del cariotipo nello studio del profilo del tumore”, un passo avanti “verso una medicina di precisione. Se individuiamo quale cariotipo provoca chemio-resistenza, possiamo capire da subito quale combinazione di farmaci utilizzare per evitarla e fornire trattamenti in grado di eradicare le cellule tumorali”.

7 luglio 2023

Lorenzo Poli

Collaboratore redazione di Lavoro e Salute

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