Coronavirus, dall’allarmismo al controllo

Coronavirus, cosa non ha funzionato nella sanità lombarda

Coronavirus, cosa non ha funzionato nella sanità lombarda

di Vittorio Agnoletto

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha segnalato che probabilmente all’ospedale di Codogno qualcosa non ha funzionato; i vertici della Regione Lombardia hanno immediatamente reagito con grande durezza. La polemica si è chiusa con inusitata rapidità: uno aveva da far dimenticare il mancato controllo su chi dalla Cina arrivava in Italia transitando da un paese terzo, gli altri non potevano permettere che fosse messa in discussione la tanto celebrata sanità lombarda.

Ma, andando oltre le schermaglie politiche, è fondamentale capire se qualcosa veramente non ha funzionato nel servizio sanitario lombardo, accreditato da più parti come il migliore ed il più efficiente della penisola. 

  1. A distanza di diverse settimane dalla notizia della comparsa del Coronavirus, quando già si conoscevano le vie di trasmissione, non può essere considerato normale il fatto che tra le persone contagiate dal famoso trentottenne di Codogno vi siano degli operatori sanitariche lavoravano nell’ospedale di Codogno. Né può essere considerato “normale” il contagio di pazienti già ricoverati per altri motivi in strutture ospedaliere. Le indicazioni dell’Oms sulle precauzioni universali e i protocolli da rispettare per gli operatori sanitari sono molto chiari.

E’ sterminata la letteratura sull’obbligo dell’uso dei DPI, i dispositivi di protezione individuale (non solo di adeguate mascherine) da parte del personale sanitario, sulle modalità di accoglienza, di ricovero dei cittadini con patologie sospette e sulla gestione della sicurezza sanitaria nelle strutture ospedaliere. Misure da adottarsi quindi non solo di fronte ad un paziente già fornito di diagnosi.

  1. Tardive sono state le indicazioni, rivolte a chi temeva di essere stato infettato, di non recarsi al Pronto Soccorso, né nello studio del proprio medico curante per evitare di trasformare quei luoghi di cura in luoghi di malattia. Si è aspettato il caso Codogno prima di diffondere a tamburo battente i numeri di telefono da contattare e le indicazioni di non recarsi al pronto soccorso. Ma ormai “i buoi erano scappati”.
  2. I medici di famiglia sono stati completamente abbandonati a sé stessi dalla Ats (il nome delle Asl in Lombardia) di Milano (e non solo) mentre in una condizione di enorme stress erano sommersi da ogni tipo di richiesta. Per vari giorni non sono state loro fornite nemmeno le mascherine; hanno dovuto cercarsele da soli, spesso senza riuscire a trovarle. Eppure la tutela della salute degli operatori sanitari rappresenta un patrimonio sociale fondamentale della collettività per garantire assistenza e cura a tutti. Ma Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, la scorsa estate quando era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, aveva dichiarato “ma chi va più dal medico di base? Quel mondo è finito”. Chi governa la Lombardia sembra muoversi su questa linea.
  3. I dispositivi di protezione individuale (DPI) sono arrivati con grande ritardo anche in molte strutture ospedaliere e spesso distribuiti con criteri incomprensibili; ad esempio, a quanto mi è stato segnalato, in alcuni casi il personale addetto al trasporto interno dei malati non è stato munito di mascherine: i lavoratori non sono dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, ma di una cooperativa alla quale è stato esternalizzato il servizio.
  4. L’aver indicato, a livello nazionale, il 112 come numero di riferimento è stato un grave errore: migliaia di telefonate per avere informazioni sul Coronavirus hanno intasato un numero dedicato alle emergenze, creando conseguenze drammatiche per cittadini con altre gravi urgenze sanitarie. Quando finalmente in Lombardia è stato attivato un numero telefonico dedicato, ben presto questo è risultato difficilmente raggiungibile per l’alto numero di telefonate e per il basso numero di operatori.
  5. Diversi medici ospedalieri sono sottoposti a turni massacranti in attesa di un cambio turno che non arrivava. Mentre nessuna autorità regionale ha ritenuto di obbligare le strutture sanitarie private a mettere a disposizione della collettività le proprie competenze e il proprio personale medico; eppure la sanità privata è destinataria di somme ingenti da parte della Regione. Ma la tutela della salute pubblica non le riguarda e nessuno sente il dovere di chiedergliene conto.
  6. In questi giorni sono stati cancellati da parte delle strutture sanitarie pubbliche una grande quantità di visite ed esami già prenotati anche con codice d’urgenza e relative ad altri settori della medicina non coinvolti nella vicenda Coronavirus, come risulta ad esempio ai microfoni di “37e2”, la trasmissione sulla salute di Radio Popolare. Chi economicamente poteva si è rivolto alla sanità privata che sta traendo ulteriori guadagni da questa situazione.

In un mondo globalizzato non era difficile prevedere che il Coronavirus sarebbe arrivato anche in Italia e in Lombardia, la regione più inserita nelle rotte internazionali. C’è stata una “finestra di opportunità”, questo il termine utilizzato dall’Oms, tra la scoperta del virus in Cina e la sua comparsa in Occidente: un’opportunità formidabile per organizzare al meglio la risposta evitando di farci trovare impreparati.

La responsabilità di quanto accaduto non può essere semplicemente scaricata sui singoli medici ed operatori sanitari. Le responsabilità vanno soprattutto ricercate nei vertici della Regione e nei direttori generali della varie Asl e dei vari ospedali, verificando se hanno programmato ed attivato quanto previsto dalla normativa nazionale ed internazionale e quanto è stato investito in questo ambito.

Queste carenze non sono casuali e limitate alla vicenda Coronavirus. Oggi in Lombardia esiste la possibilità di curarsi con le migliori terapie disponibili al mondo, di essere operati da equipe con professionalità di altissimo livello (anche se spesso il portafoglio fa la differenza), ma i servizi di prevenzione sono ridotti al minimo, i pronto soccorsi sono quasi tutti in condizioni fortemente critiche, i medici di base scarseggiano, gli ambulatori territoriali vengono ridotti di numero mese dopo mese.

Un sistema sanitario concentrato solo sulla cura e sul profitto, che ha trasformato la salute in una merce, che ignora la prevenzione perché non produce guadagni per le lobby private del settore e che non coinvolge la popolazione nella tutela della propria salute individuale e collettiva mostra il suo tallone d’Achille di fronte ad una nuova patologia infettiva di facile trasmissibilità.

Ora concentriamoci per limitare gli effetti del Coronavirus; ma nel prossimo futuro sarà inevitabile rimettere in discussione le priorità e l’organizzazione del nostro Servizio sanitario.

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Coronavirus, allo stato attuale…

Seguito a quanto scritto sul numero di Lavoro e Salute di febbraio elaborato alcuni giorni prima del crack epidemico in Italia. Dopo i primi sei casi riscontrati nel’ormai celebre paesotto della bassa milanese / pavese mi trovai con alcuni amici impegnati nelle operazioni di intervento e mi scappò una frase “ se tra domani e dopodomani saranno registrati 50 casi saremo nel ciclone”. Ovviamente non per preveggenza ma per mero calcolo epidemiologico. Ed è stato così.
Gli eventi occorsi in Italia hanno dimostrato la estrema fragilità del nostro Paese in particolare sotto l’aspetto della reazione melodrammatica che si è svolta a tutti i livelli, compresa gran parte della popolazione di aree sfumatamente o non interessate, vedi gli assalti ai supermercati. Siamo ansiosi di vedere cosa accadrà negli altri paesi europei dove il numero di nuovi casi si sta affacciando sulla scena in queste ore.
La ridondanza della informazione sul problema ha completamente oscurato importanti temi che solo pochi giorni prima dei casi accertati nel nostro paese erano al centro del dibattito: migranti, femminicidi, memoria storica, economia…. La politica ha dimostrato timore, clamore, indecisione a parte alcuni provvedimenti essenziali e ovvii ( quarantena) o protagonismo. Finalmente si è lasciata la parola ai tecnici della protezione civile unici, a mio avviso, a dover fornire notizie ufficiali. Invece è accaduto che ciascuno ha cercato “protezione “ più in alto nel timore di sbagliare. I politici nostrani hanno cercato l’ Europa, la sanità pubblica l’OMS, la protezione civile la presidenza del consiglio, e questo crescendo di voci (crescendo anche in autorità) ha disorientato i cittadini e prima di essi i nostri media. Questi ultimi sono caratterizzati da una scarsa capacità di inchiesta e di obiettività e sono, invece, come ci accorgiamo quotidianamente , una mera riverberazione delle indicazioni di un certo potere o delle chiacchiere superficiali che un comune cittadino farebbe, non dotato, suo malgrado, degli strumenti di analisi opportuni. Purtroppo anche molti esperti del settore sanitario in questione hanno fornito informazioni incomplete poiché privi delle complete conoscenze sul virus, anch’essi loro malgrado, ma noi sappiamo quanto una comunicazione incompleta da parte di un medico possa portare nel panico chi ascolta, anche se la imprecisione è giustificabile scientificamente. Le persone vogliono sapere; a) sono a rischio? È grave la malattia? Posso fare qualche cosa per evitarla? I miei cari sono a rischio? A queste domande fin dall’inizio le risposte sono state quelle che tutti abbiamo ascoltato.
Qualcosa però abbiamo imparato . Sapevamo già che in questo mondo è ormai impossibile mantenere un riserbo sulle notizie e quindi , di converso, qualora le notizie di fatti e circostanze ci giungano scarse o centellinate abbiamo il pensiero che si tratti o di un preciso disegno di contrasto della verità o di una indifferenza verso determinati eventi. Le informazioni sulla guerra di Siria, per esempio, hanno ripreso piede solo perché vi è la “minaccia” di una nuova ondata di profughi verso l’Europa occidentale, altrimenti delle bombe che quotidianamente mietono vittime tra i civili non se ne saprebbe nulla.
Abbiamo (forse) capito che la medicina non è quella certezza che credevamo, e che le vaccinazioni sono fondamentali per evitare il diffondersi di epidemie, così come abbiamo chiaro che siamo e saremo ancora preda di malattie infettive, abbiamo ritrovato quella fragilità individuale e di massa che potrebbe aiutarci ad essere più propensi verso la scienza.
Abbiamo capito che l’agente patogeno circolava da tempo rispetto alla esplosione della epidemia, e , nonostante gli appelli dell’organizzazione mondiale della sanità di vigilare nei periodi interepidemici, vivevamo sonni tranquilli. Solo ora , mentre scrivo, viene detto che il virus in Italia circolava da tempo.
Basta calcolare a ritroso partendo dal famoso R0 = 2,6 e riportarlo indietro ad un punto zero con il numero dei casi, creando un algoritmo che preveda tempo di incubazione, concentrazione della popolazione, ecc…ecc.. Non chiedetemi come costruire il calcolo integrale perché la matematica non è il mio forte, ma vi assicuro che chi sa costruire l’algoritmo conosce bene la cinetica epidemiologica. Allo stesso modo in Cina il ceppo virale probabilmente “vagava nel vento” da molti mesi, prima di Natale.
Cercando di attenersi ad una valutazione la più obiettiva possibile tenendo fuori il personale parere di ogni specialista, questa esperienza ancora in corso dovrà essere assunto come un impegno inderogabile nel prossimo futuro poiché le epidemie saranno una delle tante sfide che ci attendono in medicina così come la diffusione di germi multi resistenti fino alla emersione di nuovi patogeni fin qui sconosciti.
Duole doversi soffermare anche sullo scarso affollamento dei nostri Pronto Soccorso a causa della paura del “contagio” intraospedaliero . Questo fatto induce a ritenere che, come da molti operatori viene affermato, nei Pronto Soccorso gravitano persone che non hanno necessità di cure di urgenza. Dovremo presto ragionare quindi anche su questo dato, per prendere provvedimenti drastici verso l’inadeguato utilizzo dei DEA, verso le manifestazioni di intemperanza nei confronti del personale sanitario e verso il rovinoso accanimento contro il nostro servizio sanitario pubblico, così come è mandatorio ragionare sul fatto che, nonostante la legge lo preveda, i nostri DEA e gran parte dei nostri presidi ospedalieri non hanno percorsi dedicati, personale esperto e luoghi di cura sufficienti per i malati di patologie infettive diffusibili. Quindi è indispensabile provvedere a diffondere, rinforzare e adeguare nei presidi e sul territorio le Unità Operative di malattie infettive. Un altro insegnamento è relativo al terreno friabile sul quale frana la sotra struttura di prevenzione anche questa sotto dotata e priva di sufficiente personale per attuare tutte le misure di prevenzione indispensabili Pensiamo per esempio all’isolamento fiduciario. Questa modalità di prevenzione non è un mero tenere a casa le persone sulla fiducia, bensì un preciso meccanismo di intervento che prevede luoghi adeguati di quarantena e di isolamento , quasi mai domiciliari stante le caratteristiche abitative richieste, e necessita di personale di prossimità formato alle specifiche modalità di sorveglianza, assistenza e cura dovute ai soggetti esposti, che in questa epidemia riguardano in particolare gli anziani con i loro molteplici problemi sia fisiologici che psicologici oltre che personali.
Una epidemia è giocoforza politica, poiché colpisce il singolo ma anche la società e la risposta coordinata sul territorio è una azione determinata dalla politica sanitaria. Questa non può essere inventata sul momento perché, come una guerra (purtroppo) merita pianificazione, preparazione, strutture e personale. Il cittadino ha compreso che non esisteva un piano di intervento in caso di epidemia, il personale “preparato” era ed è limitato, e le strutture in genere insufficienti o inidonee. Dovremo porci il problema di adeguare, grazie a questa crisi, le nostre capacità di intervento, senza bisogno di sovradimensionare ma piuttosto di ripensare, anche strutturalmente , alle nostre formazioni sanitarie in gran parte obsolete anche nei manufatti.
Siamo tutti convinti che la inventiva e la pervicacia italiana consentirà un rapido annullamento dei danni provocati dalla epidemia.
Questa convinzione non deve però far perdere di vista i principi dell’intervento di prevenzione che debbono restare fondamentali, anche in un mondo globalizzato, o ancor di più in un mondo globalizzato: il primo è la messa in quarantena delle aree infette e l’impedimento negli spostamenti. E’ già stato detto che è stato opportuno abolire parte degli spostamenti in particolare per via aerea, e come ha fatto il nostro Paese questo intervento è stato adottato da numerose compagnie aeree mondiali, a scanso di equivoci, quindi, non siamo stati i soli. Anche se incompleto, lo stop agli spostamenti in un momento che si pensava critico, è servito ad abbattere notevolmente il numero dei nuovi possibili vettori e dei focolai introdotti. Solo gli epidemiologi ci potranno dire per quanto tempo questo intervento sarà utile, e lo potranno affermare con certezza solo quando si conoscerà a fondo la dinamica naturale del virus, fermo restando che resti valida la modalità di trasmissione attualmente nota e che non vi siano o non vi siano stati, per esempio, focolai veterinari. Un secondo intervento è la vaccinazione e questo, eliminando una volta per tutte le obiezioni antiscientifiche di persone disinformate, deve essere un cardine della ricerca in medicina e nel nostro Paese. Questo settore deve essere potenziato, anche perché può sostenere una nuova politica industriale e renderci competitivi non solo nell’uso dei farmaci e delle tecnologie sanitarie, ma anche nello loro
invenzione e produzione.

Infine va rimarcato il danno alla nostra economia in particolare agli autonomi e alle aziende. Senza una seria manovra a deficit che sfori anche pesantemente i vincoli di bilancio imposti dall’UE questa emergenza piegherà il Paese . E oltre al danno avremo anche la beffa di dover pagare ulteriore dazio quando usciranno i dati macroeconomici del primo trimestre. Intanto già all’orizzonte si prepara la disputa sulle nuove masse di migranti che premeranno alle frontiere.

Roberto Bertucci
Infettivologo
Torino 29/2/2020

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Coronavirus, lo stato d’eccezione

La polvere è ancora assai alta. Non potrebbe essere altrimenti dato l’insano e forte vento, che sta soffiando sul nostro Paese e sui nostri territori all’epoca del coronavirus. Non è un vento mefitico perché “untore”. Semmai perché soffia alle latitudini catastrofiche di una emergenza costruita all’unisono dal combinato disposto media/esponenti politici. La “catastrofe” in ogni caso indica sia un supposto disastro, sia, come sempre, è rivelatrice di altro.

Tra le molte cose che l’emergenza coronavirus ha rivelato va annoverata la disponibilità diffusa della società italiana ad essere “trattata” sistematicamente secondo logiche disciplinari, di sorveglianza.
I provvedimenti presi da molti amministratori, assurdi, vaghi, di dubbia utilità dal punto di vista sanitario e accompagnati dalla quotidiana apocalittica mediatizzazione, hanno sicuramente avuto un senso (inquietante) sotto il profilo del controllo delle persone e della società nel complesso.
Oggi per domani. Per quando servirà una prossima volta, non si sa per quale scopo. Ma anche “ieri per oggi”, nel senso che lo stato d’eccezione richiamato recentemente da Giorgio Agamben può trovare terreno fertile esattamente perché sulla paura diffusa, sul panico paranoico, si lavora da tempo (i terroristi, i migranti, il mix dei due, ecc.). E’ come se nel profondo avessimo noi stessi una sorta di bisogno di panico e di qualcuno che lo sappia placare con “misure draconiane”, “dall’alto”, “in grado di far stare la gente al suo posto”, “di decidere per tutti e sanzionare la deviazione”…Sorvegliare e punire dunque, nello sfacelo del tessuto democratico, delle esperienze critico-partecipative, dei corpi intermedi, dei partiti ecc. L’esperimento di contenimento a “fini sanitari” può rimanere e sedimentare come possibilità nella strutturazione del rapporto tra pubblici poteri e corpo sociale.

In seconda battuta, possiamo dire che la seconda rivelazione possibile offertaci dalla vicenda del coronavirus consiste nell’evidenziare le carenze dei sistemi sanitari. Nel nostro pare ormai chiaro che vi sia una estrema necessità di potenziare il versante della prevenzione (inclusi ovviamente i rischi di infezioni ospedaliere e i corsi di igiene basilare nelle scuole, tanto per cogliere fior da fiore…). Così come necessita un’attenzione finalmente riconosciuta alla medicina territoriale, diffondendo centri di accesso e“filtro” con il coinvolgimento dei medici di base e di guardia medica per ridurre gli accessi ai pronto soccorso. Il personale, che in questi giorni sta vivendo situazioni di vero e potente stress con orari e turni massacranti, va assolutamente incrementato a tutti i livelli.
In questi giorni è invalso poi il singolare atteggiamento per cui, allo scopo di rassicurare la maggioranza cosiddetta sana della popolazione, si è proceduto di fatto a gettare nel terrore quella più anziana e fragile, con pluripatologie e/o immunodepressa, la cui mortalità sembra pendere sulla propria testa come un destino pressoché ineluttabile in caso di contagio. Eppure deve essere possibile anche per queste persone la definizione di protocolli per diagnosi precoce e accesso alle terapie intensive, in modo da collocarle in un sistema che le riconosca e le prenda in carico pienamente.

Molti pensano che queste valutazioni, al netto della confusione e del ruolo nefasto dei media, tendano a pendere verso ipotesi complottiste. Io penso che i dati scientifici, epidemiologici, le esperienze storiche pregresse vadano rispettate. Non nego, ad esempio, che occorra fare quel che serve per non fare salire il tasso di contagio (R0) al di sopra di 1. Il fatto è che le indicazioni che sono venute in questo senso hanno avuto tutta una serie di problemi e ritardi oltre a disvelare gravi falle nel sistema di una sanità regionalizzata, colpita da tagli, con una prevenzione cenerentola ecc.
Ci sarebbe voluta dunque una regia univoca, nazionale e razionale capace di dire parole precise senza creare panico, ma, appunto, questa cosa non c’ è stata, e non a caso. Il trionfo della paranoia, delle comunicazioni dissonanti e contraddittorie hanno invece contribuito in maniera determinante a creare la condizione precisa per l’ affermazione di misure tipicamente da società della sorveglianza disciplinare. Tutto questo non ha nulla a che fare con in atteggiamento complottista. Se non si tiene conto degli ultimi trenta anni, di quel che si è sedimentato in termini di paura, di passività, di una certa introiezione del ruolo dell’ autorità non si capisce nulla. Foucault parlava non a caso di ‘ strategia senza stratega’ . Non è detto che il singolo amministratore agisca secondo una modalità scelta consapevolmente.
Lo può fare semplicemente per apparie ‘ fattivo ed efficiente’. Ciò non toglie che egli agisca in in solco ormai profondamente tracciato: egli agisce per molti versi in automatico. Quel che inquieta è la sedimentazione di questa scelta sulle scelte  pregresse. E una sorta di sottofondo generale che sarà passivamente introiettato anche per il futuro, qualsiasi sia la soluzione finale di questa vicenda.

Alberto Deambrogio
PRC Piemonte
27/02/2020

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