Dal campo di battaglia ai vaccini. E ritorno

Severo? «Abbastanza». Permaloso? «Mediamente». Affettuoso? «Con moglie, figli, famiglia e amici, sì». Basterebbe questo incipit a riassumere il libro Un italiano, scritto a quattro mani dal generale Francesco Paolo Figliuolo e dal giornalista Beppe Severgnini. Pubblicato da Rizzoli lo scorso 8 marzo, il volume esce a un anno di distanza dalla nomina dell’ufficiale a «commissario straordinario per l’emergenza Covid-19». Il ritratto di sé che il generale Figliuolo consegna ai posteri è quello di un militare qualunque. Anzi, di un italiano qualunque. Perché in fondo «l’Italia ha davvero tutto, deve solo imparare a metterlo insieme».

È il qualunquismo – e non il populismo, come pure gli contesta a un certo punto Severgnini – il tratto caratteristico di quest’operazione che si inserisce nel processo, da tempo avviato, della cosiddetta normalizzazione dell’esercito. Il libro è una somma di conversazioni stiracchiate, con un certo numero di ripetizioni e dallo stile volutamente semplice, quasi dimesso. Pensato con lo scopo di rivolgersi a una massa indistinta, a cui a quanto pare è necessario far comprendere la portentosa macchina logistica che ha portato alla più discussa campagna vaccinale di massa della storia –  di cui il libro riesce nell’impresa di parlare pochissimo. Di queste contraddizioni e omissioni hanno scritto bene Daniela Preziosi su Domani e Antonello Caporale su Il Fatto Quotidiano, dunque non mi dilungherò.  

Quel che mi pare più importante è il senso del libro, più che il contenuto in sè – tanto sciatto da doversi aggrappare a una banale considerazione di senso comune sulla sovraesposizione mediatica dei virologi per accendere una minima polemica. Quel che sorprende è l’assenza di un dibattito su un volume che persegue l’obiettivo di rendere vicino al comune sentire l’uomo in divisa. Dibattito ancora più attuale con la guerra in Ucraina, con i militari che hanno sostituito proprio i virologi nelle ospitate tv. Soprattutto alla luce della scelta da parte del governo, avvenuta col «decreto Ucraina» e già avallata dal Parlamento, di aumentare le spese militari: dopo anni di pressioni costanti da parte della Nato e degli Usa, l’Italia raggiunge così la quota del 2% del Pil da destinare al settore della Difesa. Una quota che, come ha calcolato l’Osservatorio Milex, significa una cifra monstre di 38 miliardi di euro l’anno (qualche anno fa con cifre del genere ci si faceva un’intera Finanziaria), vale a dire 104 milioni di euro al giorno. Mentre il Covid torna a farsi sentire il governo Draghi disegna un «ritorno alla normalità» che non prevede un rafforzamento della sanità territoriale né una maggiore cura per gli aspetti sociali ma soltanto «riaprire l’economia». E intanto una propaganda mai doma – il «virus del militarismo nel corpo sociale» secondo la definizione dei Wu Ming – passa nuovamente all’incasso alla prima occasione utile. In questo senso la figura di Figliuolo è emblematica: la gestione sanitaria del Covid è stata per lui un’occasione per un avanzamento di carriera in ambito militare. Ecco perché serve analizzare il bilancio di un’esperienza che Figliuolo e Severgnini raccontano come personale ma che in realtà è collettiva.

Un marziano in divisa?

Vale la pena riportare l’intero primo scambio. Alla stralunata domanda di Severgnini, Figliuolo offre una risposta che contiene già in nuce il resto del libro: 

Un marziano scende a Roma e le chiede: «Scusi, lei chi è?». Cosa risponde?

Sono un ragazzo meridionale di periferia che sognava di diventare un alpino. E ce l’ha fatta.

Non distragga la citazione ultra-pop di Eros Ramazzotti, lo scopo del generale non è suscitare simpatia ma empatia, far comprendere «cos’è successo e cosa abbiamo rischiato» affinché si sappia che «questo alpino ce l’ha messa tutta. Con i suoi difetti, con i suoi limiti, con la sua impazienza, con molte arrabbiature. Ma ce l’ha messa tutta». Un padre, insomma, al quale l’adolescente popolo italico non pare aver reso la giusta gratitudine. Perché mentre noi eravamo indaffarati a fronteggiare ondate su ondate – in un tripudio di restrizioni di libertà, comunicazioni schizofreniche, assenza di piani pandemici, mancata assistenza psicologica e cure territoriali, ospedali al collasso – lui lavorava ogni giorno, districandosi tra il doppio incarico di commissario e di comandante militare. 

«Qui non c’è di mezzo solo il generale Figliuolo, l’Esercito o la Difesa: qui c’è di mezzo l’Italia», ribadisce perentorio. Ma perché è stato scelto un militare? Perché «ho imparato a comandare e, cosa forse più importante, a controllare». D’altra parte «servire è il compito di un militare» e non si poteva più andare avanti, tra una democrazia in affanno e un welfare state divorato da anni di politiche neoliberiste. Era necessario l’uomo forte, «stavolta dovevamo combattere un nemico insidioso, il peggiore dalla Seconda guerra mondiale». 

Ora che la guerra sconvolge l’Europa, la metafora bellica appare ancora più sguaiata. Eppure per due anni è stata la narrazione dominante, tanto che la scelta di nominare un generale per fronteggiare una crisi sanitaria va proprio in questa direzione, e Figliuolo è a suo agio nel cavalcarla. Lo fa talmente tante volte che si finisce per perdere il conto.

Sull’importanza delle vaccinazioni, ad esempio (così come riporta Severgnini) il generale non può esulare dalla citazione latina si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra). Ed è tutto un continuo: la presa dell’incarico è «il battesimo del fuoco» e se ha resistito alle pressioni ed è arrivato alla fine della «lunga marcia» è grazie alla moglie, una vera e propria «generalessa». Ma a un certo punto Figliuolo pretende persino che gli sia concesso di «non aver abusato» con le allegorie belliche. Ancor più pressante, poi, è la presunta specificità del mondo militare. La gestione Arcuri? «Non aveva la capacità, tipica dei militari, di percorrere l’ultimo miglio». Il rapporto con le Regioni? «È servita la capacità di ascoltare, credo venga dall’esperienza di un comandante militare». Convincere gli scettici a vaccinarsi? Succede perché «noi militari stiamo in mezzo alla gente». 

Un alpino al Potere (ma non in tv)

Tuttavia la parola che ritorna più spesso nel libro è «alpino». Nell’accezione comune gli alpini sono il corpo militare forse più innocuo, più alla mano. Li immaginiamo carichi come muli per la montagna, resistenti a ogni nevicata, pronti poi a sbevazzare quando la missione è terminata. «Sono un alpino non sono uno stupido» è un motto dello stesso Figliuolo, vai a capire perché.

Figliuolo in tv ci è andato poco, e sia Severgnini che lo stesso generale ne paiono sinceramente rammaricati. Poi il giornalista lo consola con una metafora sgradevole: «in televisione il rischio di agguati è maggiore che in Kosovo». Ogni tanto è lo stesso Severgnini che lo incalza nella caccia ai renitenti «negazionisti del Covid», in un furore che farebbe quasi sorridere se non facesse rabbrividire. Come quando chiede a Figliuolo se «lei sarebbe favorevole a far pagare ai no vax le eventuali cure ospedaliere» e il generale frena «non si può porre questioni (sic) sulle cure gratuite».

Col passare delle pagine le fantasie militaresche di Severgnini si fanno sempre più sfrenate. Immagina «Mario Draghi generale dell’esercito» e chiede a Figliuolo di partecipare al giochino «in che arma lo mettiamo?». C’è solo un momento in cui Severgnini si ricorda che uno dei compiti del giornalista non è quello di aizzare la canea attorno al potere ma, quantomeno, ridimensionarla. Impegnato nell’autoelogio che è tipico degli orgogliosi che recitano il ruolo dei modesti, Figliuolo sostiene che nella complessa attività di coordinamento tra i vari enti lo avrebbe aiutato «il fatto di non essere un competitor, alla fine io resto un semplice militare, un outsider». Tanto che la sua (teorica) controparte – che anche qui non manca di ricordare di essere «un allievo di Indro Montanelli» – fa l’elenco dei suoi incarichi e domanda «non è un po’ tanto dentro il sistema, per definirsi un outsider?». Talmente outsider, il generale, che dal 31 marzo tornerà a dirigere il Covi, il Comando operativo di vertice interforze, vale a dire l’organismo alle dirette dipendenze del capo di stato maggiore della difesa. Questa volta il generale andrà davvero in guerra. Più precisamente, dopo aver distribuito vaccini tornerà a distribuire armi e materiale bellico in Ucraina. 

Ovunque l’esercito

Di Figliuolo ci ricorderemo come dell’uomo perennemente in divisa. Eppure nei mesi in cui Severgnini lo ha frequentato, bontà sua, non la indossava mai. Viene da pensare che l’ostentazione di uniformi e lustrini sia allora una vera e propria opera di propaganda, che ovviamente Figliuolo tende a sminuire («quello sono io, perché dovevo diventare qualcun altro?»).

La militarizzazione del Covid, però, è all’interno dello stesso resoconto di Figliuolo. Fiero di sé e del suo ruolo, il generale ci ha preso gusto e nei mesi della stesura del libro continua a scambiare con Severgnini articoli e documenti. Al giornalista ce n’è uno che pare particolarmente degno di nota. Si intitola Lesson from the military for Covid-time leadership, è una pubblicazione redatta da McKinsey e Company, la nota società di consulenza finanziaria assoldata dal governo Draghi per l’applicazione del Pnrr. Vi sono contenuti consigli spiccioli che i due autori del libro sembrano particolarmente apprezzare, con Severgnini che, dopo averli riportati, aggiunge sibillino: «sembra quasi che Mario Draghi abbia letto questo elenco, prima di affidarsi al generale Figliuolo». Pazienza se i legami tra il linguaggio manageriale e quello bellico sono già stati ampiamente analizzati, quel che conta è che la delega della gestione sanitaria al mondo militare era già avvenuta prima sia di Draghi che di Figliuolo.

Come ricorda lo stesso generale, già il 3 febbraio 2020 le «forze armate hanno organizzato il trasporto, l’assistenza sanitaria e l’accoglienza dei cittadini italiani di rientro da Wuhan». Pochi giorni dopo, durante l’identificazione del paziente zero a Codogno, «anche la Difesa era lì, presso la Prefettura di Lodi, per fornire un aiuto tempestivo e concreto sul posto». E ancora: «l’intervento dei medici militari a Lodi e nel bergamasco, anche a supporto dei medici di medicina generale»; l’aeroporto militare di Pratica di mare che diventa «il centro nazionale di arrivo e smistamento dei vaccini»; la partenza della campagna vaccinale allo Spallanzani di Roma il 27 dicembre 2020 con la presenza degli «uomini del Comando logistico dell’Esercito, medici e farmacisti da me inviati per affiancare il personale nelle prime fasi e familiarizzare con la preparazione e la gestione del nuovo tipo di vaccino a mRNA». La nomina di Figliuolo a commissario per l’emergenza Covid, che arriva l’1 marzo 2021, potrà sorprendere giusto lui («non me l’aspettavo e non l’ho cercata») ma si inserisce appunto in un quadro di delega e di riappropriazione dell’immaginario che con l’arrivo del generale si rafforza ulteriormente.

La «squadra» allestita dal nuovo commissario è composta da «quasi tutti militari, la maggior parte dell’Esercito con innesti della Marina, dell’Aeronautica, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza». Vengono costruiti oltre 2.900 hub «ricorrendo anche alla manodopera, alla competenza e alle strutture campali della Difesa (in cui sono stati effettuati 2,6 milioni di somministrazioni e 3,5 milioni di tamponi)» e in appena un anno alla struttura commissariale così designata vengono affidati «più di 8 miliardi di euro l’anno», vale a dire «più del bilancio della Difesa, per ciò che riguarda le spese di natura corrente e d’investimento». La gestione militare del Covid si è rivelata, guarda un po’, un affare per il mondo militare. 

L’autonarrazione militare

C’è un ultimo aspetto che vale la pena sottolineare in questo libro che di italiano, per mantenere fede agli stereotipi, ha anche una certa dose sfrontata di paraculaggine. A Severgnini, Figliuolo consegna un racconto della propria adolescenza totalmente avulso dalla politica. A scuola «c’erano differenze sociali ma nessuno ci ha mai dato peso», il futuro ufficiale partecipava magari a qualche assemblea «ma era per stare seduto vicino a qualche ragazza che mi interessava», anzi «gli scioperi erano un modo per saltare la scuola». Dopo il liceo, il diciottenne di Potenza si iscrive all’Accademia militare di Modena. Lo fa, sostiene, «perché sogna di avere una vita avventurosa, perché vuole uscire dalla provincia, perché intende mettersi alla prova, perché quella scuola sembrava, da lontano, un cottage inglese». Un romanticismo che ci mette poco a scontrarsi con la realtà.

Figliuolo assaggia la gerarchia e impara a obbedire anche agli ordini insulsi («spesso uno era costretto a disfare a rifare il letto dieci volte perché doveva essere perfetto, con la piega»). Alla «severità inutile e illogica» teorizzata da Severgnini il generale riconosce la presenza di «istruttori carichi dentro» che «nelle persone più fragili rischiano di fare dei danni». Manco a dirlo, subito dopo c’è l’ancora di salvezza, «scatta sempre il meccanismo di solidarietà nel gruppo, il sacrificio affratella». I ricordi di Figliuolo sono tutti così, riconoscono ciò che non si può più negare ma subito dopo stemperano qualsiasi ammissione. «Un po’ di nonnismo c’era ma era un nonnismo canonizzato» afferma, e per quanto riguarda l’isolamento che vivono le reclute all’interno di quelle istituzioni totali che sono le caserme è «duro, talvolta incomprensibile ma formativo». Va da sé che la leva obbligatoria «metteva insieme persone di tutte le classi sociali, di ogni livello di istruzione, cultura, provenienza geografica»: è il solito ritornello di chi tifa per il ritorno della naia, come se le caserme fossero posti asettici e non connotati a una virtù, l’obbedienza, che non è più tale dai tempi di don Milani. Consci però che la leva è comunque composta da soldati spesso renitenti, Severgnini e Figliuolo immaginano un più blando «servizio civile obbligatorio». Il generale non riesce a trattenere un paternalismo ottocentesco: «tutti capirebbero che nella vita ci sono momenti in cui bisogna obbedire a una regola» – meglio se costretti dallo Stato a essere sfruttati a 444 euro al mese per fornire vere e proprie prestazioni lavorative.

Cosa resta di un libro come Un italiano? A noi la consapevolezza che le autonarrazioni militari, quando tendono esclusivamente ad autoassolvere la propria categoria di riferimento, vanno smontate e rovesciate. A Severgnini resta il regalo del «coautore», come lo definisce lui, «una baionetta con una fodera in cuoio». Dopo i giornalisti con l’elmetto, i giornalisti con la baionetta.

Andrea Turco, giornalista siciliano, scrive di ambiente e temi sociali.

23/3/2022 https://jacobinitalia.it

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