Dall’ecoansia all’ecorabbia

La narrazione dominante patologizza il malessere che colpisce la metà dei giovani tra 16 e 25 anni. Non si tratta però di una nevrosi individuale ma di una reazione razionale di fronte alla gravità della crisi che va affrontata collettivamente e politicamente

Coniato dalla ricerca e prestato alla stampa, il termine ecoansia si trova ormai ovunque. In pochissimo tempo è stato assorbito dal linguaggio quotidiano e giornalistico non senza storpiature del suo significato originale, come similmente è accaduto per altri termini della psicologia clinica, basti pensare a «bipolare», «narcisista» o «depresso». 

Ma cos’è dunque l’ecoansia? Stando alla definizione pubblicata nel 2017 dall’American Psychological Association (Apa), l’ecoansia indica uno stato ansioso, di forte preoccupazione e paura cronica per una catastrofe ambientale. Anche se ancora poco esplorato, il suo campo di ricerca è in espansione e una literature review contava già più di 1.300 articoli scientifici sul tema. La review raccoglie le definizioni di ecoansia più diffuse e si inoltra in una descrizione dettagliata delle evidenze cliniche, dei gruppi maggiormente a rischio nonché dei sintomi emozionali, comportamentali, cognitivi e del tono dell’umore a essa correlati. Dal lato dei media invece, secondo uno studio francese, nel 2018 solamente un articolo fu pubblicato in francese contente questo termine, dal 2019 in poi invece si registra un’esplosione del suo impiego. 

Patologizzare un malessere collettivo

Nei media come nei dibattiti l’ecoansia viene spesso trattata come uno stato patologico individuale, un problema mentale del singolo, e in particolare come un problema esclusivamente dei «giovani». Questa lettura dell’ecoansia come la «nuova malattia del secolo» o «il disturbo mentale della generazione Z», oltre a riflettere una strumentalizzazione del concetto, è di per sé molto problematica. L’ecoansia infatti non è una patologia, anche se la sofferenza che ne deriva è reale e come ogni manifestazione di dolore psichico merita la massima attenzione e cura. Ma ciò non deve portare alla sua patologizzazione, né a ignorare il problema politico che ne è all’origine.  

In psicologia infatti non tutte le reazioni ansiose sono da considerare patologiche. L’ansia è una reazione fisiologica alla sensazione di un pericolo futuro e solo quando sovrasta e paralizza la persona al di là del pericolo reale o immaginato viene ritenuta patologica. Si parla di un continuum della manifestazione ansiosa che va dalle modalità più moderate e adattive a quelle più estreme e disadattive. Nel caso della crisi climatica però, quale risposta può essere considerata eccessiva di fronte al nostro pianeta in fiamme? C’è forse pericolo più grande a minacciare la nostra sopravvivenza? In che punto del continuum possiamo situare l’esperienza di migliaia di giovani estremamente lucidi e informati sulle conseguenze dell’inazione dei governi? 

Quando si legge su Lancet che la metà dei giovani tra i 16 e i 25 anni soffrono per la crisi climatica, non possiamo trattarla come una nevrosi personale ma occorre una riflessione sul significato collettivo di questo malessere, la cui soluzione non può limitarsi alla stanza terapeutica o a un farmaco. Su questo concordano numerosi psicologi e psichiatri, risoluti nel proteggere il nuovo concetto dalle strumentalizzazioni e dagli usi impropri che ne vengono fatti nel dibattito politico. Per Susan Clayton, ricercatrice in psicologia e membro dell’Ipcc (il gruppo intergorvernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici), l’ecoansia è a tutti gli effetti «una reazione ampiamente razionale vista la gravità della crisi» e «il focus sulla salute mentale non deve distogliere l’attenzione dalla risposta sociale necessaria per affrontare il cambiamento climatico».

Inoltre, come emerge dalle numerose inchieste condotte sul tema, l’ansia non è l’unico sentimento che i giovani dicono di sperimentare, ma vi è anche tristezza e rabbia. Perché dunque si parla sempre di ecoansia e mai di ecorabbia? Questo neologismo tende di fatto a invisibilizzare la varietà di risposte emotive mosse dalla crisi climatica nei più giovani. 

La naturalizzazione della crisi climatica

Un secondo rischio che si corre parlando di ecoansia, è guardare alla crisi climatica come la causa dell’ansia, senza andare più in là nell’analisi critica del problema. «Sta male perché ha l’ecoansia da crisi climatica», è un po’ come «sta male perché ha fatto un burnout», dove il lavoro viene presentato come un agente patogeno del tutto neutrale, bypassando così qualsiasi riflessione sulle cause politiche dello sfruttamento e della pressione sociale. Allo stesso modo accade con l’ansia climatica, che fa della crisi climatica un agente patogeno tra gli altri. E in questo processo di «naturalizzazione» del problema, si perde un pezzo del ragionamento. 

Prima di essere una questione di CO2 o di PM10, oggi attraversiamo una crisi strutturale del nostro modello economico, sociale, produttivo e riproduttivo, di accumulazione e ripartizione delle ricchezze e di governance globale. La crisi climatica, così come l’esplosione delle disuguaglianze sociali, è un effetto collaterale di mezzo secolo di politiche estrattiviste e neoliberali che abbiamo chiamato «progresso» e che avrebbero dovuto portare benessere e crescita. Chiaramente così non è stato, e il progresso di pochissimi si è raggiunto per mezzo dello sfruttamento di molti e la devastazione del pianeta. Può sembrare una formalità ma è importante, poiché spostando l’attenzione dalla crisi climatica al modello economico capitalista e coloniale, ci si apre verso percorsi alternativi altrimenti esclusi dal ragionamento. 

La salute mentale è politica 

In un’infiammata conferenza il filosofo ed economista francese Frédéric Lordon disse: «il termine ecoansia riflette bene la tendenza del discorso neoliberale a psicologizzare le cose, ovvero a depoliticizzarle». Lordon provoca, ma questa frase ha un fondo di verità. La tendenza a pensare la crisi climatica come un agente patogeno e ad assimilare l’ansia climatica a un disturbo patologico, nega qualsiasi capacità di attivazione collettiva. Da questa lettura, non può emergere alcuno stimolo politico in grado di ribaltare l’equazione e innescare processi trasformativi nella società. 

Fortunatamente, il personale, e dunque anche la nostra salute mentale, può ancora essere profondamente politico. Perché sia tale però, è necessario uscire dal discorso mainstream che come dice Lordon è fortemente depoliticizzante, e avventurarsi in un’esperienza condivisa del dolore psichico. Apparirà allora molto più chiara la violenza insita nel capitalismo fossile, le cui conseguenze devastanti le sperimentiamo nei nostri territori, ma prima ancora le sentiamo sulla nostra salute mentale. Se il sintomo (e dunque l’ansia) è il tentativo (disperatissimo) del nostro corpo di resistere individualmente a un dolore ancora più grande (il mondo che brucia), forse collettivamente i nostri corpi (insieme) possono produrre altre modalità di resistenza meno autodistruttive e più efficaci. Di fronte alla crisi climatica, smantellare e disertare il capitalismo diventa una questione di sopravvivenza e di salute mentale. 

Al di là di una discussione sull’utilità o meno del termine ecoansia, ciò che è importante è riuscire a trovare una giusta sintesi per rovesciare la narrazione che vede i giovani come passivi e paralizzati dalla paura di un pericolo naturale contro il quale non si può fare nulla. Dobbiamo politicizzare la nostra ecoansia, perché un problema politico necessità soluzioni politiche radicali. Se questo malessere generazionale fosse pensato collettivamente e in termini politici, basterebbe un attimo per passare dall’ecoansia all’ecorabbia.

Letizia Molinari, attivista di Fridays for Future ed Ecologia Politica. È laureata in psicologia e attualmente studia politiche ambientali e arabo a Sciences Po Parigi. 

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