Dietro l’apparenza, l’ideologia dell’impresa

L’elettore italiano di centrosinistra sembra vivere costantemente sulle spalle di un malcelato sentimento di superiorità morale o culturale nei confronti di quello che viene ciclicamente individuato come «il principale esponente dello schieramento a noi avverso» di veltroniana memoria. Naturalmente il ruolo dell’avversario può essere incarnato di volta in volta da un nuovo e diverso personaggio del quadro politico. 

Dalla seconda metà degli anni Novanta, fino almeno al 2011, tale personaggio è stato rappresentato da Silvio Berlusconi, combattuto appunto più sul piano della «questione morale» che su quello delle riforme sociali ed economiche. L’accusa a Berlusconi, in questo quadro, non era tanto di voler affossare i diritti dei lavoratori e privatizzare sempre di più i servizi pubblici, quanto di essere un pericolo per la democrazia a causa del proprio conflitto di interessi, delle leggi ad personam, del tentativo permanente di «difendersi dai processi e non nei processi». Un piano dunque tutto sbilanciato sulla personalizzazione della politica e di conseguenza assolutamente inadeguato a cogliere la portata di processi di natura più ampia e collettiva. Processi in virtù dei quali l’impresa, incarnata proprio da Berlusconi, si faceva Stato e lo Stato diveniva azienda, all’insegna della razionalizzazione, del dimagrimento e dello snellimento della spesa pubblica, con una funzione meramente ancillare e di supporto al mercato e al settore privato.

Il nuovo avversario oggi è ovviamente Matteo Salvini, con le sue sparate sugli immigrati, il ricorso costante a immagini e simboli religiosi, l’esaltazione del rosario e della fede nel «buon Dio» e nel «cuore immacolato della Vergine Maria». È facile di fronte a un simile personaggio per un elettore di centrosinistra sentirsi superiore sul piano culturale, proteso verso la difesa dei valori della modernità occidentale e del lume della ragione. Tutto ciò non può che essere assimilato, in ultima analisi, anche alla difesa dei valori del progresso e della scienza. Progresso e scienza che naturalmente si suppongono lineari, anzi neutrali, tecnicamente e oggettivamente codificati, frutto dell’ingegno di singoli individui o comunque di una ristretta élite anziché di una discussione ampia e critica in seno alla comunità scientifica.

In questa visione, Salvini non può che rappresentare il simbolo dell’anti-scienza, come peraltro dimostrano le sue dichiarazioni del 4 aprile sulla necessità di riaprire le chiese perché «la scienza non basta» per sconfiggere il Coronavirus. Lo scontro politico diventa dunque quello fra scienza e ignoranza, fra Roberto Burioni e i no-vax per intenderci. Da qui è un attimo passare a irridere sistematicamente non solo Salvini ma anche i suoi elettori, in genere bollati appunto come ignoranti. Stessa cosa che avveniva peraltro durante l’era Berlusconi. Il problema è che questo tipo di dialettica politica non fa altro che neutralizzare e mettere sotto il tappeto il conflitto sociale e qualunque analisi sulle contraddizioni di una società divisa in classi.

La centralità dell’impresa e la tendenza al corporativismo

Cosa c’è però dietro e oltre lo scontro fra centrosinistra e Berlusconi ieri, centrosinistra e Salvini oggi? A ben vedere, eliminata la cortina fumogena dello sbeffeggiamento personalistico e culturale, ci sono alcuni elementi che accomunano questi due schieramenti nella visione del mondo. Uno su tutti è particolarmente forte. E riguarda la dimensione dell’economia e del lavoro.

Centrosinistra e Salvini sono entrambi caratterizzati da una forte propensione alla difesa dell’impresa o, meglio, di quella che potremmo chiamare l’ideologia dell’impresa. In cosa si sostanzia quest’ideologia? Nella visione per cui è solo l’impresa, quella privata naturalmente, a garantire le condizioni per il progresso dell’economia e il benessere della società. Si ricordano a tal proposito le roboanti parole di Matteo Renzi all’apice della propria carriera politica, quando elogiava pubblicamente gli imprenditori, apostrofandoli come «eroi», in quanto gli unici in grado di creare davvero lavoro. L’imprenditore va dunque ringraziato, dal momento che è lui a rendere possibile e applicabile quello che dovrebbe essere un diritto costituzionalmente garantito. Però, quando a seguito di crisi economiche o delocalizzazioni i posti di lavoro vengono distrutti, nessuno si permette di dire che i datori di lavoro possono facilmente trasformarsi anche e soprattutto in distruttori di lavoro.

Qual è il portato politico dell’ideologia della bontà dell’impresa? Quale il suo corollario sul piano culturale e in un certo senso anche programmatico? La linea di ragionamento tanto del centrosinistra quanto dei vari Matteo Salvini e Giorgia Meloni suona più o meno così: il datore di lavoro, in quanto tale, è un amico dei lavoratori a lui subordinati. Di conseguenza, datore di lavoro e suoi dipendenti sono sulla stessa barca: il bene dell’uno è il bene degli altri. Insomma, «ciò che va bene alla Fiat, va bene all’Italia», come diceva Agnelli.

Questo è il corporativismo. E cioè l’idea che la produzione vada difesa e assicurata sempre e comunque, possibilmente proteggendola da fastidiose e disturbanti interferenze come malattie, scioperi, rivendicazioni del diritto alla salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Tutti uniti, imprenditori e lavoratori, sotto il vessillo del tricolore per difendere la produzione nazionale, che sarebbe la migliore garanzia per il benessere di tutti. Dal corporativismo all’autoritarismo, però, il passo è breve: quando nel 2011 l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne introdusse un nuovo regime di relazioni sindacali nelle fabbriche Fiat (poi Fca), con lo scopo dichiarato di garantire la fluidità e la continuità della produzione e di proteggerle dalla minaccia di azioni conflittuali degli operai nei reparti, Andrea Camilleri e altri scrissero che si trattava «dell’equivalente funzionale, seppure in forma post-moderna e soft (soft?), dello squadrismo contro le sedi sindacali, con cui il fascismo distrusse il diritto dei lavoratori a organizzarsi liberamente».

Il capitale ai tempi del Coronavirus. Opportunismo e adattabilità

I germi di questa ideologia sono tutti contenuti in quello che stiamo vivendo in questi giorni: la produzione può e deve riprendere il prima possibile, ma un eventuale sciopero con blocco stradale non si può fare, in quanto assembramento che mette a rischio la salute. A ben vedere, si tratta di uno scenario che – seppur «giustificato» dalla necessità di contrastare l’epidemia – non fa altro che confermare il terreno che era già stato preparato mesi fa dai decreti sicurezza dell’allora ministro Salvini. Decreti che non sono stati minimamente scalfiti dal governo oggi in carica.

In questi ultimi giorni, stiamo assistendo inoltre a un allargamento della retorica della nazionalizzazione delle masse, spesso sospinta proprio da chi comanda la produzione. Oggi si invita ad appendere sui balconi la bandiera italiana, non quella dell’Unione europea che quello stesso mondo invitava a mostrare meno di un anno fa in occasione della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Si tratta di un deciso e significativo cambio di passo: un anno fa, lo scontro era tutto incentrato sulla polarizzazione fra liberismo europeista e sovranismo nazionalista. Oggi, invece, dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte a un’ampio schieramento di sindaci e amministratori locali del Pd, arriva una moltiplicazione di appelli, indirizzati soprattutto alla Germania, affinché il ricco Nord del continente non faccia svanire il «sogno europeo».

D’altronde, i segnali che qualcosa rischiasse di rompersi c’erano tutti già prima che la pandemia dilagasse e il governo procedesse alla chiusura di parte delle aziende. Intervistato dall’Huffington Post il 5 marzo scorso, il Presidente uscente di Confindustria, Vincenzo Boccia, dichiarava: «Occorre un piano straordinario, un piano shock che compensi il crollo della domanda privata. Su questo va aperto un grande confronto con l’Europa, altro che decimali». Un piano di stimolo dell’economia, dunque, tendenzialmente orientato alla costruzione di infrastrutture, da finanziare con una montagna di risorse pubbliche. Dopo anni passati a parlare di privatizzazione del welfare e pareggio di bilancio, improvvisamente i liberisti sono dunque diventati keynesiani, avvertendo l’Europa – come ha fatto Mario Draghi dalle colonne del Financial Times – che il debito pubblico sarà una caratteristica permanente delle economie del continente. E se ciò non sarà possibile nel quadro delle regole attuali, allora «facciamo da soli», ha affermato Giuseppe Conte. In altri termini, finita la sbornia neoliberista, è ora che l’accumulazione riprenda anche a costo di generare un livello inaudito di indebitamento di massa, sublimando così l’idea di un capitalismo fatto «con i soldi degli altri», come diceva Luciano Gallino.

In un contesto in cui l’architettura istituzionale dell’Unione europea appare palesemente inadeguata a fronteggiare i costi sociali ed economici della crisi in corso, sembra prepararsi dunque un ritorno al tema della solidarietà nazionale dentro i confini. In nome della produzione, ovviamente. E dunque del profitto. Per quanto riguarda le condizioni di lavoro e i salari, invece, poi si vedrà. Nell’attesa costante di quel famoso secondo tempo che viene promesso ogni volta che si delinea una politica dei sacrifici, e che in genere non arriva mai. E così, mentre il capitale mostra ancora una volta la propria attitudine gattopardesca e la capacità di adattarsi al corso delle cose in modo da risolvere le sue stesse contraddizioni anche tramite il rimodellamento delle istituzioni a proprio uso e consumo, urge ancora di più che il fronte del lavoro elabori un punto di vista autonomo, per evitare il ritorno a una normalità in cui erano già contenuti i semi dei problemi che stiamo vivendo.

Stefano Valerio

Lavora a Torino presso un ente privato di ricerca e si occupa in particolare di capitalismo delle piattaforme digitali.

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