Dispersi

Non si mette insieme cosa è successo in Italia negli ultimi quarant’anni dal decreto San Valentino al boato di ieri mattina. Non si considera cosa è diventata Firenze, cosa sono diventate certe vite che per vivere hanno bisogno di lavorare

Aquarant’anni dal decreto San Valentino che abolì la Scala mobile, lo strumento di difesa del salario per contrastare la diminuzione del potere d’acquisto dovuto all’aumento del costo della vita, una trave in cemento in un grande cantiere per la costruzione di un centro commerciale a Firenze travolge almeno otto operai, ci sono morti, feriti e dispersi. Le parole che riecheggiano dopo il boato che ha scosso la città poco prima delle 9.00 di un venerdì tiepido di febbraio, sono di sgomento, cordoglio, dolore, lutto, indignazione. Come può succedere? Perché?

Cerchiamo le notizie e vediamo quelle travi spezzate, quel grigio, i camion dei pompieri, i soccorritori. Se crolla una roba mastodontica così e ci stai sotto e muori che ci puoi fare? Il pensiero si ferma sulla trave, sui corpi schiacciati e alla vita che non ritorna. Non possiamo davvero fare niente, non è reversibile. Atterriti ci sentiamo impotenti di fronte alla distruzione, alla morte, alla strage. Quelle macerie sono un evento. Un evento che si replica, mai uguale e sempre simile e però dopo il clamore non lascia traccia, non sembra avere collegamenti con fatti, realtà, susseguirsi di altri eventi, precise scelte politiche. Sembra non esserci un prima e un dopo, quello lacerante e che dura a lungo, come succede sempre alle famiglie degli operai, riguarda solo chi quelle morti se le porta negli affetti più stretti.

«Mai più», si dice sempre e poi ritorna e si ridice, «mai più» e ritorna, più diciamo «mai più» e più ritorna. Una cantilena come sussurrano i pazzi. Tre morti al giorno sempre, ed è normale. Non è un problema sociale, non è una questione politica, non è elaborazione collettiva. Un boato, i morti da ricomporre, da tenere. Teneteveli sono i vostri morti. I nostri morti. Non riusciamo a non pensare ai nostri morti.

Per un giorno intero si susseguono le notizie e ancora si parla di dispersi. «Dispersi. Mi risuona in testa da stamani, dispersi dove? Dovrebbe essere un normalissimo cantiere non la Siberia, dispersi», mi scrive un carissimo amico operaio metalmeccanico.

Non si mette insieme cosa è successo in Italia almeno negli ultimi quarant’anni dal decreto San Valentino al boato e ai dispersi di ieri mattina. Non si considera cosa è diventata Firenze, cosa è diventato il lavoro, cosa sono diventati i rapporti di forza, cosa sono diventate certe vite che per vivere hanno bisogno di lavorare. Abbiamo tracce dei motivi ovunque e non li vogliamo vedere fino in fondo, li viviamo tutti i giorni e non riusciamo a impedirli, per la verità non ci sforziamo neanche. Vorremmo poter impartire lezioni di controlli, di cultura sulla sicurezza, di inasprimento di pene e sentirsi almeno un po’ meno complici di tutto, ma questo gioco regge sempre meno e si incrina e ci fa stare peggio. Perché se non vediamo più la trave e le macerie, vediamo però la vita che conduciamo noi e chi conosciamo e cominciamo a chiederci persino: per cosa? Per finire così? E allora per scacciare le domande mosche che ci attanagliano, ci chiediamo che male c’è…

Che male c’è a continuare a costruire, a cementificare, a usare ogni spillo di spazio nella città? Che male c’è a ridurre lo spazio pubblico e la tutela collettiva? Che male c’è a pensare individualmente e a tentare di salvarsi da soli? Che male c’è a studiare per me e migliorare per me senza migliorare per tutti? Che male c’è a privatizzare, a subappaltare, a lavorare sodo? Che male c’è a dare quel lavoro a chi non lo sa fare? Che male c’è se si lascia fare male il lavoro a qualcun altro? Che male c’è a non fare bene fino in fondo il proprio lavoro? Che male c’è ad accettare tutto, un po’ alla volta, un po’ alla meno peggio, mentre ci ricattano coi debiti, coi figli da mandare a scuola, col lavoro che non c’è? Che male c’è ad arricchirsi sfruttand… ehm, dando lavoro ai poveri cristi? Che male c’è nella fretta che arrivando prima ci fa sentire più vincitori e performanti? Che male c’è se si tira via un po’ la formazione e si mette una pillola di video che annoia tutti? Che male c’è in un contratto che non è il tuo, è sempre un contratto, è sempre meglio di niente? Che male c’è nel niente che stiamo via, via allargando?

Se pensiamo a quante volte ci siamo detti «che male faccio» e ci siamo assolti, forse capiamo più perché «dispersi» sembra una condizione che riguarda anche noi e non solo i lavoratori sotto le macerie. 

Simona Baldanzi è nata a Firenze e vive nel Mugello. Ha scritto Se tornano le rane (Alegre, 2022), Figlia di una vestaglia blu (Alegre, 2019), Il Mugello è una trapunta di terra (Laterza, 2014), Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo, 2016), Corpo Appennino (Ediciclo, 2021) e Pietra Pane e il mondo che c’è (Rrose Sélavy, 2021).

17/2/2024 https://jacobinitalia.it/

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