Ecco perché non bisogna fidarsi delle ricostruzioni agiografiche e dei peana a Sergio Marchionne.

Meloni contro il Manifesto

Uno dei capitoli più sottaciuti nella vicenda Marchionne, dai commentatori e da chi avrebbe il dovere di dire qualcosa in questo momento, è che fine faranno gli stabilimenti italiani. Un bel tema per la maggioranza politica e di governo. Un silenzio complice, se non proprio rivoltante, però, se dovesse prolungarsi oltre un certo termine. L’agiografia della stampa italiana è nota. Ma oggi assistere a “primi piani” fotocopia, con l’appena percepibile esclusione del manifesto, non è stato un bello spettacolo. Nessuno che sia stato in grado di mettere in evidenza il sostanziale fallimento di “Fabbrica Italia”, almeno sul lato economico. Di quel piano economico-politico e sociale rimane una ferocia anti-operaia quasi senza precedenti. Una guerra tutta ideologica che oggi, però, presenta, se vogliamo, il conto.

In questi quattordici anni a Marchionne, e alla Fiat-Fca, è stato consenstito il tutto e il contrario di tutto. La politica non solo non è stata in grado di agire una visione purchessia ma quando è stata complice, come il Pd, lo ha fatto senza nemmeno provare a giocare un ruolo di rilievo. Dove è finita la “puntuale verifica” degli impegni presi dall’uomo con il maglioncino sul futuro di Pomigliano d’Arco o di Mirafiori. Agghiacciate la ricostruzione di uno degli artefici principali di questo disastro, Sergio Chiamparino: “Ricordo che abbiamo anche riso – dice in un’intervistsa su Repubblica di questa mattina – perché gli ho chiesto di Mirafiori, del futuro, degli impegni sulla città. Lo faccio sempre ogni volta che lo incontro. E lui mi ha fatto notare che ad ogni occasione non facevo altro che martellarlo su quel punto”. Riso? Martellarlo? Il futuro e la condizione dei lavoratori sono oggetto di battute tra due personaggi che di tanto in tanto, fuori da qualsiasi sede ufficiale, quindi, si incontrano e ricordano il passato. Giudicate voi? Rideremmo volentieri anche noi se in mezzo non ci fossero le sorti di qualche decine di migliaia di lavoratori. Storie di licenziamenti, di suicidi anche, di attacco mortale al sindacato. Storie di putrescenti città industriali che ora sono in preda ad una evidente schizofrenia sul profilo del loro futuro dopo essere state completamente svuoltate di senso dal capitale finanziario e da personaggi senza scrupoli come Marchione appunto.

Marchionne è stato il manager, se così lo possiamo definire, che ha scientificamente fatto a pezzi il volto industriale dell’Italia. Un potenziale che oggi poteva avere una chance se opportunamente guidato e sussidiato. E invece si è scelta la politica del massacro. Chi aveva il cerino più corto si è bruciato. Agli operai è stato servito quello cortissimo.

Per uno strano gioco della nemesi storica, contrariamente ai peana di cui sentirete parlare in questi giorni, Marchionne non ha portato al successo un bel niente. E’ riuscito a comprarsi un pezzo di futuro per se e per la tribù degli Agnelli solo perché ha azzeccato un paio di mosse, tipo i due miliardi di Gm e il convertendo alle banche. Ma il grosso gli è arrivato dallo sontro frontale con il passato di Fiat in Italia, l’annientamento di quello che era stata Fiat dalla sua origine. E’ con questo che ha costruito la nuova credibilità di Fiat-Fca.

Oggi la sfida è completamente cambiata. La leadership meccanocentrica non esiste più. Il galleggiamento di Fca, peché di questo si tratta, è servito appena a dare lustro a un paio di marchi (Ferrari e Jeep). Se andiamo a vedere i volulmi produttivi sono appena la metà di quelli che lui stesso aveva preventivato rappresentare il minimo indispensabile per essere realmente competitivi e giocare un ruolo di primo piano nelle fusioni. Da una parte si appropria di Chrysler grazie al protettorato politico (soldi pubblici), di Obama e al know-how che si porta da Torino, dall’altra però fallisce il matrimonio con General motors. E lo fallisce, si badi, in una fase cruciale del mercato e della produzione, soprattutto, in cui bisogna avere capitali da investire per entrare dalla porta giusta della sfida elettronica. E questi capitali Fiat non ce l’ha, li ha bruciati nel risanamento. Allo stato potrà essere solo qualche preda di lusso di un player più importante. Chiaro?

E’ su questo che la politica dovrà riflettere. E lo dovrà fare in fretta. Certo, l’agiografia non aiuta. L’agiografia porta, nel migliore dei casi al fatalismo. E per una compagine politica che voleva cambiare tutto è ben misera cosa. Il polo italiano e quello che rappresenta sarà ancora costretto a seguire Fca bruciando know how e posti di lavoro oppure, dal momento che lo spezzatino è una dele ipotesi in campo, può ritiagliarsi un suo spazio?

Fabio Sebastiani

22/7/2018 www.controlacrisi.org

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