Emergenza sanitaria in Italia: lunghe attese e pronto soccorso affollati
In Italia bisogna aspettare fino a 2 anni per una mammografia di screening, 3 mesi per un intervento per tumore all’utero e almeno 2 mesi per visite specialistiche urgenti: Cittadinanzattiva denuncia l’emergenza sanitaria nel nostro Paese
Bisogna aspettare 2 anni per fare una mammografia di screening, 3 mesi per un intervento per un tumore all’utero che andrebbe effettuato entro 30 giorni, almeno 60 giorni per una visita specialistica ginecologica urgente e sempre 2 mesi per una visita di controllo cardiologica da effettuare entro 10 giorni.
A denunciarlo è Cittadinanzattiva nel suo Rapporto Civico sulla salute 2023, presentato qualche settimana fa presso il ministero della Salute.
Se quindi l’emergenza pandemica si è ormai conclusa, come dichiarato dall’Organizzazione mondiale della sanità l’8 maggio scorso, resta un’altra emergenza sanità. Tra lunghe attese per visite di controllo e pronto soccorso allo stremo, a farne le spese sono i cittadini, che ricorrono sempre più alla spesa privata. Ma non tutti possono permetterselo e per molti la lunga lista d’attesa si trasforma spesso in rinuncia a curarsi.
Prime visite specialistiche: tempi di attesa lunghissimi e mancato rispetto dei codici di priorità
I tempi di attesa citati sono solo alcuni esempi di quanto i cittadini vivono ogni giorno, lamentando anche disfunzioni nei servizi di accettazione e prenotazione: non vengono rispettati i codici di priorità, difficoltà a contattare il Cup e impossibilità di prenotare a causa di liste d’attesa bloccate.
A Cittadinanzattiva i cittadini hanno raccontato di dover attendere almeno 60 giorni per le prime visite specialistiche di endocrinologia, oncologia e pneumologia, nonostante l’indicazione di una classe B- Breve, ossia di una visita da svolgersi entro 10 giorni.
Senza codice di priorità, si arriva ad aspettare 360 giorni per una visita endocrinologica e 300 giorni per una cardiologica.
Visite specialistiche di controllo: senza priorità si attende fino a 1 anno e 3 mesi.
Lo stesso accade con le visite specialistiche di controllo, necessarie per verificare l’andamento di una patologia e il suo eventuale ripresentarsi. Per una visita specialistica ginecologica con priorità U, ossia urgente e da fare entro 3 giorni, bisogna aspettare almeno 2 mesi dalla richiesta.
Quando invece la priorità è B, ossia da fissare entro 10 giorni, e le visite di controllo sono cardiologiche, endocrinologiche o fisiatriche, i pazienti devono aspettare almeno 2 mesi. L’attesa si prolunga anche quando, con priorità sempre B, la visita è ortopedica: per incontrare lo specialista bisogna aspettare almeno 3 mesi.
Se il medico di base, invee, nell’impegnativa non ha indicato alcuna priorità, i pazienti possono attendere fino a un anno o più: succede per le visite neurologiche per le quali l’attesa è di 360 giorni, che arriva a 455, ossia 1 anno e 3 mesi, nel caso di visite endocrinologiche.
Prestazioni diagnostiche: si può aspettare fino a 2 anni per una mammografia
La situazione non migliora per le prestazioni diagnostiche: i cittadini hanno segnalato di dover aspettare 150 giorni per una mammografia con classe di categoria B breve (da svolgersi entro 10 giorni) e 730 giorni sempre per una mammografia ma con classe di categoria P (programmabile), 365 giorni per una gastroscopia con biopsia in caso di classe non determinata.
Un intervento per un tumore all’utero da effettuare entro 30 giorni può richiedere un’attesa di 3 mesi, ossia 3 volte in più rispetto a quando andrebbe fatto. Per un intervento di protesi d’anca, da effettuarsi entro 60 giorni (classe di priorità B), sono state segnalate attese di 4 mesi: il doppio rispetto al tempo massimo previsto.
Le Regioni non hanno ancora recuperato le prestazioni in ritardo per il Covid
Su tutto questo, indubbiamente, influiscono la pandemia e i suoi strascichi. Stando sempre al rapporto di Cittadinanzattiva, la quasi totalità delle Regioni non ha recuperato le prestazioni in ritardo a causa del Covid e non tutte hanno utilizzato il fondo di 500 milioni di euro stanziati nel 2022 per il recupero delle liste d’attesa. Non ne è stato utilizzato circa il 33%, per un totale di 165 milioni di euro.
I dati raccontano che il Molise ha investito solo l’1,7% di quanto aveva a disposizione, circa 2,5 milioni. Male anche la Sardegna (26%), la Sicilia (28%), la Calabria e la Provincia di Bolzano (29%).
Le lunghe lista d’attesa portano le persone a rinunciare a curarsi
Le liste d’attesa e i ritardi influiscono sul fatto che una visita venga effettuata o meno, benché necessaria. Dalle indagini Istat riportate da Cittadianzattiva si rileva nel 2022 una riduzione della quota di persone che ha effettuato visite specialistiche: dal 42,3% nel 2019 al 38,8% nel 2022 (gli accertamenti diagnostici sono passati dal 35,7% al 32%, con una riduzione del 5% nel Mezzogiorno).
Rispetto al 2019 aumenta la quota di chi dichiara di aver pagato interamente a sue spese sia visite specialistiche (dal 37% al 41,8% nel 2022), sia accertamenti diagnostici (dal 23% al 27,6% nel 2022).
Il ricorso a prestazioni sanitarie, avvalendosi di copertura assicurativa sanitaria, risulta più diffuso nel Lazio (il 10,8% delle persone dichiara di averne fatto ricorso nel 2022 in caso di visite specialistiche), in Lombardia (9,7%), nella Provincia autonoma di Bolzano (9,1%) e in Piemonte (8,1%); si attesta intorno al 5% in Liguria, Emilia Romagna e Toscana, mentre nelle regioni del Mezzogiorno copre in media solo l’1,3% per le visite specialistiche.
Affollati, senza posti letto e medici: la grave situazione dei pronto soccorso e delle strutture di emergenza
Non va meglio nei pronto soccorso: le segnalazioni arrivate all’organizzazione evidenziano un’eccessiva attesa per effettuare o completare il triage (18,9%), affollamento (15,4%), carente informazione al paziente o al familiare (9,8%), mancanza di posti letto in reparto per il ricovero (9,2%), mancanza del personale medico (8,7%), pazienti in sedia a rotelle o in barella lungo i corridoi per ore/giorni (7,5%).
Negli ultimi 10 anni inoltre si fanno i conti con la riduzione costante e cospicua delle strutture di emergenza: ci sono 61 dipartimenti di emergenza in meno, 103 pronto soccorso mancanti, 10 pronto soccorso pediatrici e 35 centri di rianimazione che non esistono più.
Quanto alle strutture mobili, si è notata una riduzione di 480 ambulanze di tipo B, ossia quelle attrezzate essenzialmente per il trasporto di infermi o infortunati, con eventuale dotazione di semplici attrezzature di assistenza. Si è notato solo un incremento di 4 ambulanze di tipo A, ossia adibite al trasporto sanitario non emergenziale (ma nel 2019 il decremento rispetto al 2010 era di 34 unità), a fronte di un decremento di 19 ambulanze pediatriche e di 85 unità mobili di rianimazione.
Anche rispetto alla tempestività dell’arrivo dei mezzi di soccorso, la situazione è peggiorata significativamente e in modo preoccupante; è il caso della Calabria, in cui il mezzo di soccorso arriva mediamente in 27 minuti, Basilicata (29 minuti) e Sardegna (30 minuti), quando la media nazionale è di circa 20 minuti.
A farne le spese è la prevenzione: sei regioni bocciate sui livelli essenziali di assistenza
In tutto questo, non bisogna dimenticare la prevenzione: sono 6 le regioni (erano 3 nel 2019) che non raggiungono la sufficienza rispetto ai criteri Lea (Livelli essenziali di assistenza): questo vale per la Sicilia, Pa di Bolzano e Calabria, che mostrano i dati più bassi, e dal 2020, anche Liguria, Abruzzo, Basilicata.
Nel 2020, inoltre, sono diminuiti gli inviti per gli screening organizzati: -29% per quello mammografico, -24% per quello colorettale e per il cervicale. La riduzione negli inviti si registra soprattutto al Nord, mentre in generale è al Sud che le percentuali di adesione agli stessi restano le più basse: per lo screening mammografico fanalino di coda sono Calabria (9% di adesione) e Campania (21%); per il colorettale Calabria (2%) e Puglia (5%); per lo screening per il tumore alla cervice Campania (13%) e Calabria (31%).
«Per superare l’urgenza sanità chiediamo che siano riaffermate cinque condizioni», ha dichiarato Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.
Si tratta di «cinque chiavi di accesso alla casa comune del Servizio sanitario nazionale: l’aggiornamento periodico e il monitoraggio costante dei Livelli essenziali di assistenza che devono essere garantiti ed esigibili su tutto il territorio nazionale; l’eliminazione delle liste di attesa, attraverso un investimento sulle risorse umane e tecniche, una migliore programmazione e trasparenza dei vari canali, un impegno concreto delle Regioni per i Piani locali di governo delle liste di attesa; il riconoscimento e l’attuazione del diritto alla sanità digitale per ridurre la burocrazia, comunicare meglio con i professionisti e accedere a prestazioni a distanza».
A questi si devono aggiungere, secondo Mandorino, «la garanzia di percorsi di cura e di assistenza dei malati cronici e rari e, in particolare, delle persone non autosufficienti, finanziando la nuova legge per gli anziani non autosufficienti e riprendendo l’iter normativo per il riconoscimento dei caregiver; l’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale prevista dal Pnrr, con il coinvolgimento delle comunità locali e dei professionisti del territorio».
Cristina Maccarrone
31/5/2’23 https://www.osservatoriodiritti.it/
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