Essere afrodiscendenti oggi in Europa

In Europa aumenta la discriminazione razziale contro le persone afrodiscendenti, e le donne subiscono un intreccio di oppressioni legate al genere e alla razza. Lo conferma il rapporto appena pubblicato dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea

L’Unione europea si è dotata di un solido apparato antidiscriminatorio vincolante per i suoi stati membri a partire dai primi anni Duemila; in questa cornice normativa, la tutela dalle discriminazioni fondate su razza, gruppo etnico e background migratorio è quella di portata più ampia, applicandosi a ogni ambito della vita sociale.

Oltre il quadro normativo, il principio di uguaglianza è cardine dei Trattati e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che all’articolo 21 offre un ampio elenco di motivi di discriminazione oggetto di tutela, seppur tassativo e non esaustivo.

La presenza di una normativa vincolante, nonché di strategie, piani di azione, progetti – tutti finalizzati a contrastare il razzismo strutturale e interpersonale – ha comportato un miglioramento delle condizioni di vita delle persone razzializzate nell’Unione europea?

E in particolare, cosa significa vivere da persona afrodiscendente in Europa oggi?

A questo interrogativo tenta di rispondere il nuovo rapporto pubblicato dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea (FRA), Being black in the EU. Experiences of people of African descent (Essere una persona nera nell’Unione europea. Esperienze di persone afrodiscendenti), che analizza alcuni dei risultati emersi dalla terza indagine realizzata dall’agenzia a partire dalle esperienze di razzismo e discriminazione vissute da persone immigrate e afrodiscendenti in Europa.

In particolare, l’indagine ha raccolto le esperienze di 6.700 persone afrodiscendenti che vivono in 13 paesi dell’Unione, compresa l’Italia.

Le persone partecipanti avevano almeno 16 anni e un’età media di 36 e risiedevano nel paese di rilevazione da almeno dodici mesi. Il 46% deteneva la cittadinanza del paese di residenza.

Inoltre, il 47% del campione era composto da persone che si identificano come donne: il rapporto fornisce, laddove possibile, un’analisi dei risultati disaggregati per età, genere, disabilità, religione, orientamento sessuale, identità di genere e condizioni socioeconomiche, tentando di adottare una lente intersezionale che permetta di comprendere il complesso intreccio di oppressioni che caratterizzano le vite dei gruppi sociali marginalizzati. 

Il primo dato che emerge dal rapporto è che circa la metà (47%) del campione ha vissuto esperienze di discriminazione razziale, in significativo aumento rispetto al 39% dell’indagine del 2016.

Nella gran parte dei casi, la matrice razziale della discriminazione si intreccia con altre caratteristiche personali: il colore della pelle, con un’incidenza più alta tra coloro che si identificano come persone nere, la giovane età, eventuali disabilità, la scelta di indossare abbigliamento tradizionale o religioso in pubblico, l’identità di genere ed espressioni di genere non conformi e orientamento sessuale non eterosessuale.

Una persona su quattro (24%) ha riportato inoltre di aver subito episodi di violenza di matrice razzista nei 12 mesi precedenti l’indagine (il 27% delle donne e il 22% degli uomini): l’11% delle donne ha raccontato che episodi di questo tipo avevano anche una componente sessuale.

La maggior parte degli episodi di discriminazione rimane, inoltre, invisibile: il 64% delle vittime di violenza razzista e crimini d’odio decide di non raccontare l’accaduto a una qualche organizzazione o istituzione, nella convinzione che non serva a niente (36%), perché la procedura è ritenuta troppo burocratizzata (19%), per paura che la propria testimonianza non sia presa sul serio (16%) e per mancanza di fiducia o paura nei confronti delle autorità (16%).

Quest’ultima motivazione è pienamente coerente con un altro dato rilevante emerso dall’indagine: più della metà delle persone partecipanti ha riportato di esser stata soggetta a controlli di polizia per profilazione razziale, ovvero di essere stata fermata dalla polizia per motivi connessi alla propria razza, gruppo etnico, colore della pelle.

Dal punto di vista dell’inclusione socio-economica, il tasso di occupazione delle persone intervistate di età compresa tra i 20 e i 64 anni è simile a quello della popolazione generale nella stessa fascia di età.

Tuttavia, un terzo delle persone partecipanti è impiegato in occupazioni scarsamente qualificate (rispetto all’8% della popolazione generale) e con contratti a tempo determinato (30%), con un tasso di sovraqualificazione elevato, indipendentemente dal fatto di avere o meno la cittadinanza nel paese di residenza.

Episodi di razzismo vengono riportati nella ricerca di un’occupazione e sul posto di lavoro – l’Italia in questo senso costituisce il paese con l’incidenza più alta di episodi di razzismo nel mondo del lavoro – nonché nel tentativo di acquistare o affittare una casa: una persona su quattro ha riportato di essersi vista rifiutare un affitto da parte di chi aveva la proprietà della casa per via della propria origine etnico-razziale. 

Le donne che hanno partecipato all’indagine non sembrano essere esposte più degli uomini al rischio di discriminazioni e non hanno riportato un numero maggiore di episodi di discriminazione e violenza. Risulta essere simile, inoltre, il livello di consapevolezza rispetto ai diritti e alle possibilità di denuncia e risarcimento; secondo i risultati emersi dall’indagine, inoltre, le donne sembrano essere più propense a denunciare le discriminazioni subite (12%, rispetto al 6% degli uomini).

Tuttavia, le donne afrodiscendenti sono soggette almeno alla doppia oppressione del genere e del gruppo etnico-razziale in società strutturalmente patriarcali e razziste: il tasso di occupazione è significativamente più alto tra gli uomini afrodiscendenti (76% rispetto al 79% della popolazione generale) che tra le donne (65% rispetto al 68% della popolazione generale).

In alcuni paesi, questo divario raggiunge addirittura i 20 punti percentuali (p.p.): è il caso della Svezia (39 p.p.), dell’Austria, dell’Italia e della Spagna (tutte a 25 p.p.). L’Italia è anche il paese in cui più donne afrodiscendenti lavorano in occupazioni scarsamente qualificate (67% rispetto al 38% degli uomini).

Inoltre, in gran parte dei paesi interessati dall’indagine, le donne afrodiscendenti sono impiegate con contratti a termine in percentuali superiori a quelle degli uomini, come accade anche nella popolazione generale: in Italia, questo problema interessa il 37% delle donne afrodiscendenti intervistate e il 28% degli uomini.

Lo scenario che emerge dall’indagine e gli scarsi passi avanti rispetto ai risultati che erano emersi da quella del 2016 ci permettono di concludere che il quadro normativo e di politiche esistente a livello dell’Unione e dei singoli stati membri non è stato sufficiente a garantire una piena inclusione sociale ed economica delle persone afrodiscendenti in Europa.

A questo risultato non hanno sicuramente contribuito l’emergenza pandemica, prima, e i conflitti alle porte dell’Europa, poi, nel più ampio contesto di un’Europa che si trincera dietro le proprie frontiere rispetto a un fenomeno migratorio trattato ancora come emergenziale e rispetto al quale i meccanismi di solidarietà tra i paesi dell’Unione mettono in mostra tutte le falle strutturali e risalenti.

Nel presentare questo rapporto, l’agenzia traccia una via da seguire fatta di riforme e impegno politico e civile di tutti gli attori coinvolti. In primo luogo, la normativa antidiscriminatoria deve essere corredata da strumenti di dissuasione efficaci in termini di meccanismi di reclamo, denuncia e compensazione.

Inoltre, le normative nazionali devono essere in grado di evidenziare la matrice razziale che c’è dietro agli episodi di violenza, considerandola un’aggravante.

Secondo l’agenzia, è impossibile elaborare e implementare politiche pubbliche efficaci contro le discriminazioni etnico-razziali se mancano raccolte di dati coerenti, sistemiche e aggiornate sugli episodi di razzismo, sulle barriere ancora esistenti a una piena inclusione sociale e sui progressi raggiunti, che guidino i decisori pubblici nei processi di definizione delle politiche.

Altrettanto cruciale è la creazione, in ogni paese, di organi di parità indipendenti, con potere vincolante e un budget sufficiente di cui disporre: questo invito – che da tempo è stato lanciato dalle istituzioni europee – è rivolto anche all’Italia, che da anni continua a lasciarlo inevaso.

Infine, ogni stato membro deve dotarsi di meccanismi di monitoraggio e contrasto alla profilazione etnica e alle pratiche discriminatorie esistenti nelle istituzioni pubbliche e tra le forze di polizia: quest’ultimo aspetto – rispetto al quale l’Italia deve ancora compiere i primi passi necessari, incluso ritenerlo pubblicamente una questione da affrontare – è assolutamente cruciale per nutrire la fiducia delle persone afrodiscendenti nei confronti delle istituzioni e contrastare la mancata denuncia degli episodi di razzismo. 

Molta la strada ancora da fare per l’Unione europea nel suo insieme e per i suoi stati membri. Per tornare all’interrogativo iniziale, quello che si può dire è che non si vive bene come persone afrodiscendenti in Europa oggi, e tantomeno si vive bene se questa caratteristica si intreccia ad altre – genere, orientamento sessuale, disabilità – che vengono costantemente marginalizzate.

Il discorso pubblico e le agende politiche sono improntate costantemente alla gestione delle emergenze, perdendo di vista lo sguardo di insieme della tenuta del tessuto sociale in Europa. Ricerche come questa ci permettono di fermarci e osservarci, osservare le società che creiamo e abitiamo. E il quadro a oggi non è affatto roseo. 

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Marta Capesciotti

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