Falso in bilancio

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Quello che non c’è.

La legge di bilancio del governo Draghi è presto spiegata per quello che non ha.
Certo, si mobilitano 30 miliardi, ma di questi solo poche risorse vanno alla Sanità, alla scuola, alle pensioni e al welfare, ai precari, alle donne, ai giovani, agli immigrati.

Questa manovra nasce innanzitutto per rassicurare Bruxelles confermando l’indicazione di questa fase di avviare azioni che permettano di rientrare nelle vecchie politiche di equilibrio di bilancio, senza troppi slanci in avanti in politiche di spesa troppo espansive.

Il cuore della legge si regge su una riforma fiscale di stampo liberista che riduce il gettito delle entrate a vantaggio dei ceti più ricchi della società, mortificando la possibilità di garantire la premessa per l’espansione e il rinnovamento del welfare e dell’intervento dello stato nell’economia.
Nella legge non c’è nulla di tutto questo. Non c’è ritorno alle politiche keynesiane, ma solo l‘iniezione di risorse volte al rilancio del mercato attraverso vecchi e nuovi incentivi (defiscalizzazione alle imprese e ai redditi medio alti) blandite da qualche elemento di sostegno per lenire le ricadute delle prossime grandi ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali (riforma degli ammortizzatori sociali).

Non c’è riforma del mercato del lavoro, non c’è una riforma delle pensioni che tuteli soprattutto i giovani, le donne e i precari. Non si investe abbastanza nella scuola in termini di assunzioni e riforma dell’offerta formativa, anche in vista dei futuri sconvolgimenti professionali e occupazionali portati dalla rivoluzione digitale e da quella green. Non si destinano grandi risorse verso la sanità, soprattutto in termini occupazionali. Manca ancora una legge sulle delocalizzazioni che permetta allo stato una maggiore azione
di contrasto alle nuove politiche aggressive sul fronte occupazionale e delle relazioni sindacali dei grandi gruppi multinazionali e dei grandi monopoli ancora presenti nel nostro paese (i casi recenti di Stellantis, GKN, Ilva, Telecom, ITA, Unicredit, Carrefour..)

Insieme al PNRR emergono chiare le linee strategiche scelte da questo governo: nessuna programmazione seria, limitazione del ruolo dello stato a semplice ruolo di coordinazione su servizi e produzioni strategiche, libertàd’azione e iniziativa del mercato, avvio di una nuova campagna di privatizzazioni nella scuola, nella sanità, negli enti pubblici locali, nei servizi.

Non è casuale che il grande rimbalzo economico nazionale di questo anno abbia visto un incremento parallelo delle assunzioni precarie (tempi determinati e somministrati) e degli infortuni. Si continua ad insistere sulle caretteristiche specifiche, nazionali, del nostro capitalismo fondato sulla piccola media impresa privata abituata più a ricavare il margine di guadagno dalla riduzione del costo del lavoro (salario e sicurezza) piuttosto che dall’innovazione e sviluppo della ricerca sul processo e il prodotto.

Questa vecchia politica (che ha fatto la fortuna del paese in vari periodi, nel boom degli anni 60, nella crisi di ristrutturazione degli anni 70, nella rilancio degli anni 80, nella riconversione degli anni 90) sempre più arretrata e inadatta rispetto alle sfide di questa prima parte del secolo, viene ciecamente stimolata e rilanciata da questo governo, frutto di una classe politica sempre più miope, provinciale e priva di idee.

Quello che c’è.

Il cuore della manovra ruota intorno all’operazione fiscale sull’irpef, dopo aver consegnato la riforma delle pensioni alle calende greche con Quota 102 e il ritorno alla Fornero nel 2023.

Vengono privilegiate per prime le imprese a discapito di un mondo del lavoro sempre più in sofferenza per le riduzioni di salario, la crescita dei tempi determinati, dei somministrati, delle partite iva anomale, dei lavoratori poveri, le difficoltà dei lavoratori giovani, delle donne e degli immigrati, i pensionati che non vedono mai giustamente rivalutata la pensione al costo della vita.
Le plebe dei humiliores (la fascia più umile) esce massacrata dall’ordine dei proceres (i potenti).

Vengono spostate risorse verso il capitale “produttivo” (2 miliardi con l’istituzione di un fondo di sviluppo, 4 miliardi gli investimenti privati di innovazione, 2 miliardi per la cancellazione dell’IRAP alle piccolissime imprese e lo sconto sulle altre imprese, proroga del credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, transizione ecologica e innovazione 4.0) e quello finanziario con un ulteriore agevolazione della leva del credito.

Il reddito di cittadinanza viene salvato ma, mancando quasi 1 miliardo di risorse per questa voce di spesa (è una scelta politica ovviamente), verrà sottoposto a maggiori controlli e penalizzazioni (decadenza dopo due rifiuti di offerte lavorative, decurtazione dopo il primo rifiuto, obbligo di presentazione presso i centri per l’impiego) rimanendo comunque sganciato da un sistema di politiche attive del lavoro e di formazione professionalizzante.

La legge prevede nuove assunzioni per il potenziamento degli uffici per l’impiego, senza chiarire nulla sul futuro dei navigator in scadenza a fine anno (2.500 secondo le ultime cronache) e senza alcuna riforma del ruolo e compito degli uffici che rischia di permanere marginale sul collocamento e ricollocamento di chi è alla ricerca di un impiego.

La revisione delle aliquote Irpef si somma all’ulteriore contrazione della progressività con il risultato di detassare maggiormente i ceti medio-alti a discapito di quelli più bassi. Per questa operazione di sconto sulle aliquote vengono destinati 7 miliardi.
Si ritorna ad erodere la progressività dell’Irpef con una nuova riduzione delle fasce di tassazione che passano da 5 a 4 con la contrazione di tutte le aliquote, operazione maggiormente fruttifera per le fasce alte. Infatti l‘alleggerimento della tassazione per i redditi più alti verrà ammortizzato su quelli più bassi attraverso l’assorbimento dell’ex-bonus Renzi e dell’ex-bonus Gualtieri nel meccanismo delle detrazioni soggetto a sua volta a semplificazioni. La parte sul riordino delle detrazioni non è stata ancora scritta e presentata alle parti sociali, debuttando solo in aula parlamentare con la presentazione del maxi emendamento del Governo (frutto degli accordi fra partiti di maggioranza e premier e dei parziali accordi fra premier e sindacati).

Vi è quindi la forte possibilità che fra detrazioni, bonus Renzi assorbito, detrazioni da familiari a carico scorporate e immesse nell’Assegno Unico, si vada ad una penalizzazione sui redditi al di sotto dei 35 mila euro con rischi di perdite e non di aumento del reddito netto.

Dopo l’ultimo confronto difficile con i sindacati Draghi ha introdotto per il solo 2022 una decontribuzione complessivamente onerosa ma scarsamente efficace sui i redditi sotto i 15/16 mila euro (ci si paga qualche caffè in più) dei lavoratori e dei pensionati.

L’altra proposta del primo ministro di congelare per un solo anno l’abbassamento delle aliquote sui redditi oltre i 50 mila per far fronte al caro bollette dei ceti popolari è stata duramente stoppata dalla destra di FI e Lega con il supporto dei renziani di Italia Viva. Giusto per capire quanto e dove pendono gli equilibri del governo del “premier”.

Anche la proposta accolta da Orlando di costituire un innovativo Fondo pubblico di garanzia per le pensioni dei precari è scomparso definitivamente dai tavoli di confronto sindacale col governo.

Consideriamo che, in rispetto del mandato costituzionale, le fasce dell’Irpef erano 32 nel 1974 con una aliquota massima del 72%. In seguito nel 1983 siamo passati a 9 fasce con il 65% di aliquota massima. Oggi, nel 2021, scendiamo a 4 fasce con una tassazione massima del 43% andando in piena controtendenza al lascito costituzionale sulla “forte progressività” del sistema fiscale. Progressività che non è presente nella tassazione locale, salvo in alcuni casi, per scelta delle amministrazioni locali, magari dopo aaccordi con le organizzazioni sindacali.

Questa operazione di maquillage a favore dei ceti medio alti è appoggiata da una residuale sinistra parlamentare che ha volutamente cancellato dai suoi programmi ogni riferimento a una patrimoniale degna di nota e addolcito ogni idea di sana lotta all’evasione fiscale in questo paese.

Un altro elemento dell’azione fiscale prevista penalizza fortemente le politiche espansive degli enti locali in tema di Sanità e Welfare, mancando un aumento del gettito centrale, qualsiasi ipotesi di aumento della spesa sanitaria regionale e del welfare locale verrà messo a carico della tassazione di regioni e comuni, gravando maggiormente sui redditi da lavoro dipendente e da pensioni.

Solo sugli ammortizzatori sociali ritroviamo un modesto afflato riformista, ampliandone la portata e la copertura come nella cassa integrazione (a discapito degli imprenditori del terziario che già protestano per l’innalzamento delle quote di contribuzione INSPS) e nella Naspi con un aumento del gettito nei primi sei mesi. Ma le risorse stanziate sono insufficienti a garantire la copertura per periodi lunghi degli ammortizzatori sociali utili a far fronte ai processi di ristrutturazione tecnocologica e green che si prospettano nei prossimi sette e più anni, in epoca di PNRR e transizione verde.

Ancora una volta i costi sociali dei cambiamenti ricadono sulle fasce più povere del paese. di contribuzione INSPS) e nella Naspi con un aumento del gettito nei primi sei mesi. Ma lle risorse stanziate sono insufficienti a garantire la copertura per periodi lunghi degli ammortizzatori sociali utili a far fronte ai processi di ristrutturazione tecnocologica e green che si prospettano nei prossimi sette e più anni, in epoca di PNRR e transizione verde.
Ancora una volta i costi sociali dei cambiamenti ricadono sulle fasce più povere del paese.

Viene introdotta la quota 102 senza penalità (64 anni per il pensionamento con 38 di contributi), confermata l’opzione donna (60 anni con 35 anni di contributi) e l’Ape social (63 anni di età e 30 di contributi) allargandone la tipologia dei beneficiari (caregiver, disabili con il 74% di disabilità, disoccupati, lavoratori hgravosi). Tutta l’operazione è coperta con 1miliardo e mezzo.

Sul superamento della Fornero è rimasta in piedi solo la foglia di fico di una commissione tecnica da convocarsi da parte del ministro Orlando. Per Cisl tutto ciò è bastato per rimanere soddisfatti, aspettare e guardare.

Considerando che le proposte sindacali sono oggi concentrate solo a ridurre gli effetti nefasti della Fornero legati all’età di pensionamento irreversibile (se peggiorano le aspettative di vita come in questo periodo di Covid non si torna indietro), ai coefficienti di trasformazione dei montanti contributivi (penalizzanti in epoca di contrazione del Pil, come il periodo attuale), ai lavori usuranti, alla precocità dei lavoratori e sopratutto all’idea di garantire comunque un pensionamento intorno ai 62 anche con delle penalizzazioni retributive.

L’idea di ritornare a un sistema retributivo, anche parziale, sembra sfumato dalla piattaforma unitaria. In coerenza con l’accettazione della riforma Dini che prevedeva un passaggio definitivo al sistema contributivo anticipato poi dalla Legge Fornero per il 2018. Il fatto che sia il sistema Dini a regime che quello Fornero prevedono l’elargizione di future pensioni povere. Povertà che può essere lenita dall’intervento dei fondi pensionistici integrativi contrattuali che non sempre rendono e coprono, essendo legati all’andamento dei mercati finanziari.
La povertà dei pensionati non è solo un problema emergente dell’oggi che vede la mancanza di meccanismi di adeguamento al costo della vita reali e non finti come quello del sistema attuale. E’ un problema esplosivo per le nuove generazioni che entrano adesso in età da lavoro.

Confermati e allargati i bonus casa con tetto Isee di 25 mila, introdotti gli sconti affitto ma solo per i giovani sotto i 31 anni con meno di 15.500 euro di reddito annuale, confermato il superbonus 110 ma con maggiori controlli fiscali. Abolito il cashback con un risparmio di 1,5 miliardi, ma il M5S cercherà di reintrodurlo con degli emendamenti in fase di dibattimento parlamentare.

Sulla Sanità vi è un incremento di 2 miliardi del fondo, neutralizzato dalla riduzione dell’IRAP per gli imprenditori di pari valore. A questi si aggiungono 2 miliardi per l’acquisto dei vaccini anti-Covid e per il nuovo Piano antipandemia influenzale.

Sono stanziati 600 milioni di euro per la stabilizzazione di 33 mila precari su 60 mila nella Sanità. A questi si aggiungeranno le assunzioni di 25 mila infermieri. 90 milioni saranno destinati al personale dei DEA e 200 milioni saranno messi a disposizione per l’aggiornamento dei LEA.

La Scuola pubblica rimane la Cenerentola della grande manovra di dicembre, non avendo alcuna norma di carattere oneroso. Vengono legalizzate permettendo la deroga alla norma le classi pollaio alle quali si può provvedere con personale aggiuntivo già in organico presso altre sedi con la mobilità o con lo spostamento compensativo di risorse da un territorio all’altro, da una regione all’altra.

Nei fatti i 30 mila dipendenti ATA assunti per l’emergenza Covid in scadenza a fine anno rischiano di non essere più confermati. Entro il 2025 verranno assunti 70 mila docenti fra i quali in prima battuta gli insegnanti di educazione fisica. Con 75 milioni di euro si pongono in essere nuove assunzioni nell’Università, fra docenti, ricercatori e personale amministrativo.

Solo sugli asili nido in carico ai servizi scolastici locali vengono finanziati (per l’assunzione di personale) volendo iniziare a riempire l’enorme gap di asili che sussiste fra Nord e Sud del paese. Con 500 milioni elargiti in tre anni si pensa di stabilizzare e assumere con concorsi 150 mila nuovi dipendenti pubblici nella pubblica amministrazione.
E per la giustizia verranno assunti 82 nuovi magistrati ordinari.

Le tasse su sugar e plastic sono rimandate al 2023 per placare Italia Viva scontentando M5S e le associazioni ambientaliste.

Accanto a questi grovigli di contraddizioni aperte ve ne sono altre legate alla gestione degli oltre 200 miliardi europei del PNRR e dei Fondi Europei. L’impronta data dal primus inter pares Draghi è quella di lasciare in mano ai privati la gestione delle risorse, riducendo la parte pubblica a un ruolo di indirizzo e di semplice certificazione delle spese fatte. Siamo di fronte a nuove iniezione di risorse alle imprese senza controlli particolarmente sulle ricadute e i risultati, men che meno senza sistemi sanzionatori (a quelli ci penserà l’Europa, ma solo nel caso in cui i soldi non vengano spesi nei tempi previsti, senza vedere il resto).

La prospettiva immediata di un’opposizione che non c’è.

Su giornali e media il volto elitario nonché alieno dalla gente che “produce e lavora” del governo Draghi deducibile da questa prima importante legge economica di prospettiva volutamente non traspare.
Viene prediletto semmai un più popolare “decisionismo” e la dinamicità sul fronte epidemico con gli alti tassi di vaccinazione e, particolarmente, per aver conciliato il contenimento del Covid con l’apertura delle diverse attività economiche e sociali, garantendo l’entità della ripresa economica attuale a un tasso da boom degli anni sessanta.

Finché Draghi sembrerà vincente nella battaglia del Covid rimarrà in sella, e finché non verrà liquidata la paura della pandemia del XXI secolo pochi si muoveranno per detronizzarlo. Anche al fine di mantenerlo come garante a lunga scadenza presso la UE potrebbe venir traslocato sul seggio più alto della Repubblica, quello del Presidente, inaugurando un presidenzialismo “de facto” dopo il premierato attuale.

In virtù di questa narrazione mediatica e ufficiale della figura “autorevole” di Draghi le piazze si sono riempite spontaneamente a metà contro il green pass, riuscendo a rappresentare parzialmente un malessere sociale diffuso legato a questi anni di crisi e alla famose ripresa della quale solo una minoranza trae beneficio. Una reale opposizione sociale a questo governo e alle sue politiche non è ancora emersa, cova nelle viscere del paese. Manca o è insufficiente la giusta informazione e la circolazione di un confronto alla base.

Da parte del le organizzazioni sindacali confederali vi è la responsabilità di aver voluto dare grande credito a questo governo confidando nelle mezze aperture avute sui pochi tavoli di confronto avuti, tralasciando la dovuta e continua informazione della base, la consultazione democratica interna, la vivificazione di un costume di partecipazione sicuramente antico ma fondamentale per qualsiasi organizzazione di massa, specialmente a ridosso di importanti momenti di confronto di massa, quando maturano rotture nell’arco di poche settimane e giorni.
La rottura fra Cisl e Cgil-Uil rende bene questa carenza e non favorisce la mobilitazione di uno sciopero generale. Paradossalmente è la paura dell’avversario che trapela dai media e dalle dichiarazioni sconnesse e scombinante della maggioranza di governo contrarie allo sciopero che ne rafforzano la riuscita.

Parliamo di una maggioranza che si appresta con i suoi oltre 5 mila emendamenti a peggiorare – in senso clientelare e corporativo- il senso e il valore di questa manovra che guarda prevalentemente alla parte più ricca e garantita del paese, dimenticando e affossando l’altra, quella che paradossalmente dovrebbe garantirne il futuro e che oggi patisce tutti gli effetti economici e sociali della crisi pandemica.

L’appuntamento con le grandi riforme del paese (fisco, pensioni, sanità, scuola, salari, orario di lavoro, precarietà, ambiente, amministrazione pubblica, giustizia) è sostanzialmente rimandato a data da destinarsi, visto il carattere eterogeneo maggioranza e il ruolo ormai smascherato di Draghi di classico demiurgo democristiano delle mezze misure e delle promesse.

Forse uno sciopero generale, dettato all’ultimo momento di un finale di partita finita male, non potrà bastare. Forse ce ne vorranno altri.
Ma oggi abbiamo di fronte un rinnovato blocco di potere che si alimenta e autorigenera anche nelle semplici battaglie istituzionali, garantendo la tranquillità dei poteri economici che governano il paese, riuiscendo a decidere in quasi perfetta solitudine a causa dell’annichilimento di qualsiasi opposizione generato dalla paura pandemica.

Questo blocco di potere va fermato, costruendone un altro dal basso, a partire dai luoghi di lavoro e dalle reti associazionistiche di solidarietà che agiscono nel cuore della società civile, per iniziare a condividere altre proposte e dettare altre scelte con un’altra agenda da quella ufficiale, per costruire un altro futuro di questo paese, per una società più giusta, più eguale, più sana e più felice.

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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