Fare profitti con la pandemia

na interessante interpretazione di Quinn Slobodian ha di recente messo in questione la proposta di Karl Polanyi, secondo cui l’ideologia neoliberale si condenserebbe nel dogma del mercato come entità capace di autoregolarsi. Quinn Slobodian, con un’accurata ricerca storica che si dipana lungo le oltre 400 pagine del suo Globalists – The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, dimostra che il ruolo delle reti istituzionali è fondamentale per proteggere la proprietà privata dalle interferenze della democrazia. Ecco perché l’obiettivo degli alfieri di questa scuola di pensiero non è la morte dello stato o delle autorità di regolamentazione, ma la loro funzionalità al perpetuarsi dello schema del mercato. Una simile visione sarebbe sottesa alla nascita di super-istituzioni come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio o l’Unione europea. Questi pilastri del neoliberalismo costituiscono il telaio di una fitta trama di relazioni, costellata da diversi altri gangli istituzionali nati per consolidare e tramandare il drenaggio di potere e risorse dall’interesse pubblico a quello privato e individuale. 

Il complesso e costante lavoro di tessitura è in atto anche in questo momento di profonda crisi, nel tentativo di volgerla ancora una volta in favore di un’agguerrita minoranza. Ogni crisi, del resto, rappresenta sempre un’opportunità per qualcuno e l’epidemia di Covid-19 è oggi il campo di battaglia su cui si fronteggiano forze che tirano in direzioni opposte. Da un lato i movimenti della società civile premono per un cambiamento radicale in senso emancipativo dell’organizzazione sociale ed economica, dall’altro chi ha retto i pilastri dello status quo pretende un ritorno alla «normalità» il più possibile indolore. Oltre che su una maggiore capacità di influenza dovuta al potere economico e finanziario, questa seconda falange può contare su alcuni sistemi di soft law creati ad hoc, che permettono ai suoi scherani di esercitare un potere impositivo sulle autorità pubbliche praticamente impossibile da contrastare. Ѐ il caso del meccanismo di arbitrato internazionale Isds (Investor-State Dispute Settlement), un sistema giudiziario per le imprese ideato negli anni Settanta e votato alla difesa della centralità del mercato nel sistema di relazioni contemporaneo. Se la crisi può essere tramutata in opportunità di accumulazione è grazie a strumenti come l’Isds, che permettono alle grandi aziende di aggirare le corti ordinarie e imboccare una corsia preferenziale per giocarsi la partita giudiziaria su un terreno di gioco inclinato e con l’arbitro a favore.

Tra accademici è in corso un dibattito intenso. Studi legali specializzati e think tank di settore discettano della possibilità di sfruttare le vaste potenzialità dell’arbitrato per rovesciare sugli Stati tutti i costi della pandemia. Questi esperti stanno cercando di guardare oltre la minaccia sanitaria, per capire quali strategie legali suggerire alle società che vogliono lucrare contestando politiche pubbliche adottate sull’onda dell’emergenza. E molti suggeriscono che il Coronavirus avrà, fra gli altri, l’effetto di far crescere le cause arbitrali intentate da investitori esteri ai governi. 

Giustizia privata

Fra i tanti meccanismi che compongono la complessa struttura della globalizzazione, l’arbitrato Isds rappresenta un potente deterrente per le politiche pubbliche che restringono il perimetro dell’iniziativa privata a vantaggio dell’interesse collettivo. Consiste in un sistema giudiziario parallelo e sovranazionale votato alla risoluzione di controversie fra investitori e Stati, che può essere attivato solo se due paesi decidono di inserire questa opzione in un accordo sul commercio e gli investimenti. La gran parte degli oltre tremila trattati di libero scambio oggi in vigore contiene una clausola Isds, che dà adito agli investitori con sede in uno dei paesi contraenti di chiedere risarcimenti virtualmente illimitati al governo dell’altro paese, in caso di violazioni dell’accordo che impattino sugli investimenti. Il foro più inflazionato per i processi è il Centro internazionale per la risoluzione delle controversie sugli investimenti della Banca mondiale (Icsid) a Washington, ma il lavoro non manca per una pletora di altri soggetti: dalla International Court of Arbitration di Parigi a quelle di Londra, fino ai centri di Singapore o Hong Kong e alle Camere di commercio di Stoccolma, Milano e altre decine di paesi. Le strutture più antiche (Londra, Parigi e Stoccolma) sono state fondate tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, un dato che rafforza l’ipotesi proposta da Quinn Slobodian di un progetto delle élite economiche europee per costruire istituzioni capaci di realizzare la globalizzazione economica attraverso e oltre la fase della Società delle Nazioni.

La vastità dei campi di applicazione dell’arbitrato internazionale è assicurata dalla vaghezza delle formule che ne regolano l’accesso: è sufficiente che un governo, nell’esercizio delle sue funzioni, impedisca un «trattamento giusto ed equo» o deluda le «legittime aspettative» di un investitore per aprire un contenzioso. Negli anni, per fare qualche esempio, sono state contestate misure per calmierare i prezzi della bolletta idrica, politiche per l’uscita dal carbone o dal nucleare, nazionalizzazioni, norme per alzare il salario minimo e perfino la ristrutturazione del debito operata dalla Greciasu ordine del Fmi nel 2011. Colossi dell’industria estrattiva contrari alle regolamentazioni ambientali, gruppi dell’agribusiness preoccupati di misure contro l’obesità, banche d’affari e fondi avvoltoio pronti a speculare sugli aggiustamenti strutturali: sono tutti clienti che negli ultimi venticinque anni hanno fatto crescere il settore dell’arbitrato internazionale e arricchito i pochi che ne governano le strutture. Si tratta di studi legali esperti in diritto commerciale internazionale, i cui avvocati dai cachet che arrivano fino a mille dollari l’ora svolgono il ruolo di arbitri nelle cause intentate dagli investitori agli Stati. Anche se le regole di ingaggio possono variare lievemente, di norma un processo si svolge a porte chiuse, senza possibilità di appello ed è gestito da un collegio di tre arbitri: uno nominato dalla difesa, uno dall’accusa e il terzo nominato congiuntamente dai primi due. Non è raro che pochi individui gestiscano un alto numero di cause ricoprendo a volte un ruolo, a volte l’altro, portando all’esasperazione un conflitto di interessi reso evidente già da alcuni meccanismi strutturali, come la possibilità di attivare un ricorso solo per gli investitori privati (lo Stato sarà sempre e soltanto imputato) e la retribuzione «a cottimo»: più cause le imprese lanciano, più il sistema cresce e con esso il reddito degli arbitri. In questo quadro, non c’è ragione per scontentare chi olia l’ingranaggio ed è per questo che circa due terzi dei verdetti sono favorevoli all’accusa. Una cosa piuttosto naturale, d’altronde, quando le fonti legali considerate dal meccanismo Isds sono il diritto internazionale e la lettera del trattato commerciale di cui si lamenta la violazione. Convenzioni sull’ambiente o i diritti umani, norme per difesa dell’interesse pubblico o nazionale hanno un peso decisamente secondario.

La campagna Stop Ttip Italia ha calcolato che circa 85 miliardi di dollari sono passati dal pubblico al privato grazie alle cause arbitrali. Fin verso la fine degli anni Novanta si contavano meno di dieci contenziosi l’anno basati su trattati di libero scambio. La cifra è cresciuta di quattro volte negli anni 2000 e continua a salire, con una media di 60 casi all’anno negli ultimi cinque. Da poco l’Unctad, l’agenzia Onu su commercio e sviluppo, ha diffuso i dati aggiornati al 31 dicembre 2019. I numeri dei casi noti (una quantità imprecisata resta coperta da segreto) raccontano che è stata infranta la soglia dei mille contenziosi (1023), lanciati contro 120 paesi: dei 674 procedimenti conclusi, 337 hanno visto prevalere gli investitori del tutto o in parte, 246 si sono conclusi con il proscioglimento dello Stato, 77 sono stati interrotti e 14 conclusi senza condanne. Da notare che le interruzioni possono verificarsi quando un governo, per timore di dover pagare salati indennizzi, modifica o ritira le norme oggetto del contendere. 

Regole in ghiaccio

Questa paura di legiferare contro i colossi multinazionali in gergo viene chiamata «congelamento normativo» (regulatory chill), perché il rischio di ritorsioni è sufficiente talvolta a bloccare l’azione politica in diversi settori. Nel luglio 2014, ad esempio, la Newmont Mining Corporation ha intentato una causa contro lo Stato indonesiano, utilizzando la clausola Isds contenuta nel trattato bilaterale Olanda-Indonesia. Il gigante minerario sosteneva che i piani del governo di vietare l’esportazione di minerali non lavorati violavano il trattato. Dopo un mese, Newmont ha ritirato le accuse, ma solo dopo aver raggiunto un accordo con il governo indonesiano che le assicurava deroghe speciali. 

Un altro caso particolarmente odioso è quello aperto da investitori italiani del settore minerario contro il Sudafrica nel 2006. Piero Foresti e Laura de Carli, insieme a un’azienda lussemburghese, hanno chiesto 350 milioni al governo sudafricano per aver introdotto una legge post-apartheid che obbligava le compagnie minerarie ad aprire il 26% del loro azionariato a investitori neri. In sostanza, il governo chiedeva alle imprese di aprirsi alla partecipazione di quella parte della popolazione oggetto di discriminazioni razziste, su cui fino ad allora avevano lucrato grazie a un sistema socioeconomico iniquo e vessatorio. Tuttavia, per quattro anni gli investitori italiani hanno contrastato in sede arbitrale questa misura. Quando nel 2010, improvvisamente, hanno deciso di lasciar cadere le accuse, è stato perché avevano raggiunto un obiettivo chiave: la pressione politica della causa pendente aveva indotto il governo a concedere un privilegio speciale a Foresti e de Carli: solo il 5% della loro proprietà sarebbe andato ad africani neri. Per la cronaca, degli oltre 5 milioni di dollari per difendersi, al Sudafrica ne sono stati rimborsati appena 400 mila.

Tuttavia, questa fiorente industria dell’arbitrato sta diventando costosa anche per le imprese abbastanza grandi da potersela permettere. Per questo è in crescita il finanziamento di terze parti, spesso società o fondi di investimento specializzati nel garantire il credito ai ricorrenti in cambio di una fetta del premio in caso di vittoria. Un caso noto è quello del fondo americano Tenor Capital Management, che ha sottratto grosse cifre al Venezuela. Dal 2012 a oggi, infatti, il fondo ha investito 76 milioni di dollari in una compagnia mineraria canadese – la Crystallex International Corp. – per finanziarne la causa contro il governo venezuelano, accusato di espropriazione dopo aver interrotto per ragioni ambientali la concessione di sfruttamento di una miniera d’oro a Las Cristinas. A Tenor Capital Management andranno 800 milioni di dollari, buona parte degli 1,2 miliardi (cresciuti a 1,4 miliardi con gli interessi) che il governo venezuelano dovrà pagare alla Crystallex dopo la sentenza.

Sfruttare la pandemia

Non è la prima volta che una impresa estera usa l’Isds per contrastare misure dell’autorità pubblica sul fronte igienico-sanitario. Nella storia delle controversie arbitrali si può trovare un precedente interessante nel caso Azurix v. Argentina. La società statunitense aveva acquisito il diritto esclusivo di gestire il servizio idrico e fognario nella provincia argentina di Buenos Aires per un periodo di trent’anni. Meno di un anno dopo, è emerso un problema di qualità dell’acqua legato alla presenza di alghe. Di conseguenza, l’autorità idrica della Provincia aveva ordinato ad Azurix di non addebitare ai clienti la bolletta per un certo numero di settimane e l’aveva multata per incapacità di mantenere determinati standard di qualità dell’acqua. L’impresa ha fatto causa in arbitrato al governo argentino e ottenuto un risarcimento di 165 milioni di dollari nel 2006. I tre arbitri hanno accolto la versione dell’accusa, secondo cui le cause del peggioramento della qualità dell’acqua erano imputabili alla scarsa cura delle infrastrutture idriche da parte del settore pubblico già prima della privatizzazione. Nessuno si è preoccupato che il settore pubblico fosse al collasso anche per una serie di pressioni del Fondo monetario internazionale durante gli anni Ottanta, che avevano costretto il governo a un’ondata di disinvestimento e privatizzazioni.

Certo, una pandemia non sembra esattamente il tipo di evento che consente di avviare cause pretestuose da parte di una società estera che ha visto diminuire i profitti o aumentare i tempi di payback. Lo stato può infatti giustificare misure drastiche invocando le cause di forza maggiore, codificate dall’articolo 23 della Commissione del diritto internazionale (Ilc), organo delle Nazioni unite dedicato alla materia. Coprono, fra le altre cose, eventi meteorologici estremi, epidemie o atti di terrorismo. Ci sono solo due eccezioni, che si verificano quando l’evento straordinario e imprevedibile che ha provocato l’inadempimento di un contratto fra lo Stato e l’investitore è stato causato proprio dal paese che invoca l’articolo 23, oppure quando quel paese si era assunto il rischio di un tale evento. Il diritto internazionale dovrebbe quindi attribuire priorità alla sovranità regolatoria di un paese in caso di emergenza sanitaria, lasciando quello che si chiama «margine di apprezzamento» per derogare dagli standard del trattato che altrimenti – in situazioni non eccezionali – sarebbero ancora più stringenti.

Tuttavia, secondo il dibattito in corso fra gli esperti, questo scudo presenta zone vulnerabili in cui è possibile affondare l’arma dell’interpretazione, trasformando la pandemia di Covid-19 in detonatore di nuove controversie investitore-Stato, dato l’effetto depressivo delle misure di emergenza sulle operazioni commerciali nei settori farmaceutico, dell’aviazione, dei servizi o dell’edilizia. 

Un esempio? Si potrebbe attaccare il decreto del governo spagnolo che autorizza il ministro della sanità a «intervenire e a occupare temporaneamente industrie, fabbriche, officine, fattorie o locali di qualsiasi natura, compresi centri sanitari, servizi e stabilimenti di proprietà privata, nonché quelli che svolgono la loro attività nel settore farmaceutico», affinché lo stato possa garantire la fornitura di beni e servizi necessari per la protezione della salute pubblica. Oppure gli investitori potrebbero contestare le restrizioni all’export messe in atto dall’India per 26 principi attivi farmaceutici, che rappresentano il 10% della capacità di esportazione.

Non solo: se le future misure di ricostruzione tenteranno di stimolare in modo specifico gli interessi economici nazionali, gli investitori esteri potranno invocare in arbitrato il mancato «trattamento nazionale» o la clausola della «nazione più favorita». Sono, queste, altre vaghe ma vincolanti formule contenute negli accordi di liberalizzazione commerciale che impongono ai contraenti di estendere le facilitazioni normative a tutti gli investitori, impedendo di fatto ai paesi di dirigere le politiche economiche su specifici settori o industrie.

I cavilli da sfruttare sono innumerevoli: le corti arbitrali potrebbero decidere che il governo imputato non ha pianificato per tempo le necessarie contromisure, nonostante la consapevolezza degli impatti causati da precedenti epidemie o pandemie nel mondo. O che le autorità sanitarie nazionali hanno dato segnali incoerenti durante la pandemia, esacerbando la diffusione del Covid-19. Ancora, potrebbero condannare il ritardo negli interventi di risposta alla crisi se figlio di una sottovalutazione dei primi segnali di rischio, soprattutto in caso di misure considerate eccessivamente onerose. 

Non sono illazioni: alcuni accademici stanno scrivendo che i governi, già all’inizio dell’anno, avrebbero adottato misure «sproporzionate» andando oltre le raccomandazioni temporanee dell’Organizzazione mondiale della sanità del gennaio 2020, che non includevano restrizioni ai viaggi o al commercio in base alle informazioni disponibili in quel momento. Un precedente ancora più chiaro si può ritrovare nelle raccomandazioni che il Comitato di emergenza dell’Oms aveva diffuso il 19 luglio 2019 sul caso Ebola, sostenendo che restrizioni «attuate per paura» senza «nessuna base scientifica» possono «compromettere le economie locali e influire negativamente sulle operazioni di risposta dal punto di vista della sicurezza e della logistica». Equesti sono precisamente gli appigli che studi legali e imprese utilizzeranno per lanciare cause arbitrali contro paesi già piegati dalla pandemiadi Coronavirus. Non è sempre detto che i tentativi andranno a buon fine, visto il margine che il diritto internazionale lascia agli stati per esercitare anche drasticamente la sovranità in condizioni di eccezione. Più probabile dunque che la maggior parte dei ricorsi si concentri sulle misure di ricostruzione, per impedire che un governo potenzi l’economia domestica «discriminando» l’investimento estero. Tuttavia, il semplice fatto che per un privato sia possibile minacciare un governo utilizzando tribunali dedicati e non trasparenti, spesso con la garanzia di copertura delle spese da parte di terzi, dovrebbe far riflettere sui meccanismi congegnati in epoca neoliberale per rendere le istituzioni ancillari all’ideologia del mercato.

Il futuro in gioco

Intendiamoci: oggi le difficoltà a difendere strumenti come l’Isds davanti all’opinione pubblica sono evidenti grazie al lavoro di pressione e denuncia svolto in questi anni dalla società civile. L’Unione europea, tuttavia, sta tentando di farlo proponendo alla comunità internazionale una riforma, che prevede l’istituzione di una Corte multilaterale di investimento con la possibilità di ricorso in appello e un compenso fisso per i «giudici». Questa nuova architettura in embrione poggia però sulle stesse basi legali, consolidando il ruolo egemone del diritto commerciale in spregio ai vari accordi internazionali su ambiente e diritti umani. Inoltre, il tentativo ha l’intento di consolidare un meccanismo che eleva le imprese al livello dei governi, consentendo agli investitori esteri (e a loro soltanto) di bypassare i sistemi giudiziari nazionali per imporre agli Stati, in un foro dedicato, compensazioni economiche o il ritiro di norme sgradite. L’arbitrato internazionale può sovvertire gli esiti di un referendum o di battaglie per la sovranità popolare sulle scelte strategiche, come quelle per superare con equità e partecipazione la crisi ecologica. Se la sperimentazione che si sta preparando in seguito all’emergenza Coronavirus avrà successo e sancirà dei precedenti, sarà più difficile in futuro liberare i sistemi democratici dalle catene che già oggi ne limitano la libertà di movimento in direzione del pubblico interesse.

Francesco Panié

Si occupa di commercio internazionale nell’ambito del coordinamento della Campagna Stop Ttip Italia e di agricoltura e clima per l’associazione Terra!. Come giornalista, collabora con riviste e giornali scrivendo di tematiche connesse alla crisi ecologica.

22/4/2020 https://jacobinitalia.it

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