FEMMINICIDIO. Da Ipazia in poi

Sulle orme di Ipazia

Ipazia insegnò ad Alessandria ininterrottamente per più di vent’anni: attorno al 393 Sinesio, un giovane aristocratico proveniente da Cirene 1 , giunse nella metropoli egiziana richiamato dalla fama della “donna che a buon diritto presiede ai misteri della filosofia”.
La pratica di ricerca e studio della filosofa dovette essere fortemente orientata all’insegnamento, verso la trasmissione delle conoscenze acquisite, come sottolinea Filostorgio, il quale afferma che ella “introdusse molti alle scienze matematiche”.
Ciò attesta che, diversamente da quanto succedeva nel periodo immediatamente precedente, al tempo di Ipazia la scuola matematica di Alessandria aveva cominciato ad essere un punto di richiamo per un gran numero di studenti, provenienti da ogni parte del mondo allora conosciuto.
Lo storico della Chiesa, Filostorgio, era un appassionato osservatore degli astri e fu colpito dalla sapienza di Ipazia, la quale era riuscita a cogliere nei cieli dei nessi che suo padre Teone non era stato in grado di fare o, forse, aveva solo intuito.

Come già in precedenza enunciato, Ipazia non lasciò (almeno così sembra atutt’ora) alcuna opera scritta, ma è attestato che commentò importanti opere, tra cui le Coniche di Apollonio e l’Artitmetica di Diofanto. Queste opere, che ancora ad oggi sono la massima espressione della scuola alessandrina, ognuna nel proprio campo, esplicitano ed illustrano le scienze matematiche e geometriche, in maniera indipendente e senza un nesso tra di loro.
Ipazia riuscì a combinare due interessi così distanti, facendole affluire in un’unica scienza, l’astronomia. Purtroppo ancora non è chiaro cosa intuì di preciso la filosofa: forse non lo potremo mai sapere nè, tantomeno, quale vantaggio ella avesse tratto da un così potente strumento.
Sta di fatto che tutte le fonti, da Filostorgio a Suda, indicano con certezza che lei aveva scoperto qualcosa di nuovo sul movimento degli astri e che ella rese questo suo nuovo sapere accessibile agli uomini

e alle donne della sua epoca.

Ma facciamo ora un passo indietro, andando così a definire un’importante figura che ci farà comprendere il rapporto che la filosofa riusciva a stabilire con i suoi allievi e, allo stesso tempo, l’apprezzamneto che questi esprimevano nei suoi confronti. Elogi che, spesso, duravano per tutta la vita.

All’inizio di questa sezione, ho accennato a Sinesio: era di qualche anno più giovane di Ipazia o forse suo coetaneo e iniziò a frequentare la scuola attorno al 393. Il suo primo soggiorno nella capitale egiziana durò circa due anni: nel 395 fece ritorno nella sua città natale, dove vi restò fino al
399.
In questi anni, il suo permanere a Cirene fu interrotto solo da alcuni brevi viaggi che avevano lo scopo di completare la sua educazione: forse si recò ad Antiochia e, sicuramente, visitò Atene.
Nella sua città natale, egli cominciò ad avere un ruolo politico di non poco conto ed acquistò prestigio organizzando la difesa dall’invasione dei barbari nomadi del deserto.
Nel 399 il senato di Cirene gli affidò l’incarico di recarsi in missione diplomatica a Costantinopoli, dove stabilì e rafforzò legami affettivi e politici con gli appartenenti al movimento politico ellenico i quali, a seguito dei successivi scontri con i barbari, si affermarono come gruppo dominante.
Testimone oculare di questi eventi, li racconterà in un’opera da lui prodotta che riporta il titolo di Racconti egiziani o la provvidenza.
Nel 403 Sinesio soggiornò di nuovo ad Alessandria, dove conobbe e sposò, con rito cristiano, una donna, dalle quale ebbe tre figli. A seguito di una serie di eventi che videro di nuovo coinvolte le fazioni dei nomadi contro quelle elleniche, Sinesio dovette lasciare la sua terra d’origine e si stabilì a Tolemaide la cui popolazione, dopo la morte del vescovo avvenuta nel 410, acclamò Sinesio come suo successore.

Fu un momento cruciale della vita del filosofo e, in questo periodo, conobbe una profonda crisi morale e spirituale: le numerose responsabilità che lo vincolavano al ruolo istituzionale, significavano allo stesso tempo che egli doveva abbandonare la sua famiglia. In linea di principio, non era ammissibile essere vescovo e padre contemporaneamente.
1 Cirene è stata un’importante colonia greca e poi romana; si trovava vicino all’odierna Shatat, in Libia orientale.
Però, vista l’importanza che il filosofo aveva all’interno della comunità e considerando il volere della società, per lui le istituzioni si resero disponibili a fare una deroga.
Il travaglio e la crisi spirituale di Sinesio, sono documentate in numerose lettere: imprigionato tra le responsabilità che lo vincolavano all’impegno politico e l’amore per le sue scelte di vita, decise di trasferirsi per alcuni mesi ad Alessandria dove, sicuramente, si confidò e chiese aiuto alla sua illustre maestra.

Agli inizi del 411, tornato a Cirene, accettò definitivamente l’incarico: questo impegno lo obbligò ad

occuparsi delle travagliate vicende politiche e militari che, in quegli anni, sconvolsero la Cirenaica.
Gli ultimi anni della vita di Sinesio, non furono felici: le ultime lettere che inviò alla mestra di Alessandria, restituiscono il quadro della profonda sofferenza che toccò al vescovo di Tolemaide.
Ad esempio, nell’Epistola 16, scritta dal letto di morte, Sinesio definisce Ipazia “madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant’altri mai onorato”. Di sé Sinesio parla in questo modo: “La mia debilitazione corporale è la conseguenza di ragioni dello spirito…E’ come se un torrente prima frenato si sia abbattuto d’un colpo su di me facendo svanire la dolcezza del vivere”.
Non conosciamo con precisione la data della sua morte ma, sicuramente, avvenne prima di quella di Ipazia. Per questo motivo, diversamente da Filostorgio, Socrate Scolastico e Damascio, Sinesio non può essere considerato una fonte della vita di Ipazia.
Comunque, da quello che si può apprendere dai suoi scritti, egli non era intenzionato a narrare i fatti che riguardavano la sua vita ma, piuttosto, il suo volere era quello di lasciare ai posteri i loro dialoghi.
Per Sinesio la relazione maestra – discepolo fu vincolante per tutta la vita: le nozioni che egli apprese nel corso del tempo, divennero a tutti gli effetti una base dalle quale creare il proprio stile di vita. Tali concetti rappresentavano una costante, una religiosa e disciplinata ricerca della verità. In
questo senso, si può parlare di una vera e propria conversione di Sinesio alla filosofia: da come dimostrano le sue lettere ad Ipazia, fece parte per tutta la vita di un “circolo” di iniziati alessandrini con cui condivise i misteri della filosofia.
Dalla strutturazione della relazione maestra-discepolo, derivava il modo tramite il quale tutte le altre relazioni personali dovevavo essere costruite: la relazione portava a un mutamento del modo di pensare che, a sua volta, dirigeva verso una nuova interpretazione di sé e del mondo, a partire da un sé e da un mondo già diversi. Questa era il fondamento della relazione perfetta, prima fra tutte quella esistente tra Socrate e Platone.

Bregman, famoso studioso dell’antichità, in merito ad una coversione come quella di Sinesio, a proposito sscrive che: “La conversione non è semplicemnte la sostituzione di un insieme di credenze religiose definite esteriormente con un altro; la sua natura ultima è una trasformazione spirituale interiore alla persona”. Nel primo caso dovremo, per la precisione, parlare di adesione; solo quando siamo in presenza di un riorientamento dell’anima di un individuo, mutamento che porta alla consapevolezza che il vecchio è sbagliato e il nuovo è giusto, allora e solo allora definiremo la conversione.
Il Dione, opera autobiografica che Sinesio inviò ad Ipazia nel 405 affinché giudicasse l’opportunità di pubblicarla, è un documento molto importante anche per comprendere le diattribe esistenti tra le diverse scuole di pensiero, prime fra tutte quelle orientali. Con quest’opera, Sinesio si inseriscein una discussione, comune allora, sulla definisione di filosofia

e sapere: per Sinesio il punto fondamentale era l’unità del
sapere e il filosofo è colui che armonizza in sé l’accordo di tutte le arti e scienze e che riesce a stringere a unità la molteplicità, di contro alla figura dello specialista, il quale di dichiara adepto di un singolo sapere. In merito a ciò, egli asserì che è proprio della filosofia il coinvolgere ogni attività inerente alla realizzazione del fine ultimo della vita umana; la filosofia è anche un mezzo per uscire fuori da sé stessi ed entrare in contatto col mondo mediante un discorso che non sia in contrasto con la contemplazione della verità assoluta e del dio, ma da essi autonoma.

Il vero filosofo, che nel Dione è rappresentato da Socrate, è colui che è in grado di comunicare con se stesso e con il dio attraverso la filosofia e con gli esseri umani attraverso le virtù segrete della parola. Per Sinesio chi dimentica volontariamente di seguire la via graduale della ragione, si trova nel delirio e nell’irrazionalità.
Tra il 393 e il 399 Sinesio aveva piena coscienza che l’Egitto, in particolar modo la scuola di Alessandria condotta da Ipazia, deteneva i semi della sapienza: Atene, che fino a poco tempo prima era la capitale della filosofia nella quale erano nate le primissime scuole del pensiero, agli occhi di Sinesio aveva perso ogni “credibilità”; la sede dei sapienti si era ridotta ad ospitare dei “ apicultori chiaccheroni” (i sofisti), attirati nell’auditorio da anfore di miele.
Sinesio sentiva di poter scommettere su una pratica di pensiero, quella di Ipazia, di cui egli stesso sperimentava la forza e l’efficacia.

A distanza di venti e cent’anni, Socrate Scolastico e Damascio confermarono che egli aveva avuto ragione: lo stesso Socrate Scolastico, nella sua opera Storia ecclesiastica, scrive che Ipazia “giunse a un tale grado di cultura che superò di gran lunga tutti i filosofi suoi contemporanei, ereditò la
scuola platonica che era stata riportata in vita da Plotino, e spiegava tutte le scienze filosofiche a coloro che lo desideravano. Perciò coloro che desideravano pensare in modo filosofico correvano da lei da ogni parte”.
Socrate Scolastico, con queste parole, aggiunge nuovi e preziosi elementi al pensiero di Sinesio: collega Ipazia alla genealogia platonica attraverso la mediazione di Plotino che, nell’antichità, era visto come un profondo rinnovatore del platonismo.

Nonostante i conflitti e le polemiche per l’attribuzione e la definizione della vera genalogia platonica, si è arrivati a concordare all’unisono che Ipazia è stata la più grande di tutti i filosofi del tempo, indicando in lei la caposcuola del platonismo con Platone e Plotino.
Come si è già detto, Ipazia insegnava a chiunque lo chiedesse i misteri della filosofia ma c’è un’altro aspetto che distingue il suo modo di esercitare, in comune a Plotino: l’arte di insegnare non era ostile al cristianesimo, ovvero l’appartenenza religiosa non costituiva un fattore discriminante. Era pertanto auspicabile un fecondo incontro tra elleni e cristiani, almeno sul piano degli studi, visto che, nelle in politica, la situazione reale era completamente diversa. È sicuramente da qui che oggi capiamo perché la scuola ellenica godesse di così tanto prestigio.

Laura Brunelli

Bioeticista

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di marzo di Lavoro e Salute http://www.lavoroesalute.org/

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