GIOVANI, RIBELLI E SOGNATORI

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Una generazione non raccontata che sognava la rivoluzione negli anni 80

A cura di Italo Di Sabato
Testimonianze di Angelo Lamelza, Antonio Dalò, Domenico Vitulli e Fabio Lemme

Prefazione di Giovanni Russo Spena

DP di Palata mi è sempre stata molto cara. Ho amato moltissimo quei giovani, intelligenti, entusiasti, militanti, capaci di innovazione. Quei giovani hanno anticipato i movimenti “no global”, hanno praticato, nei fatti e nelle elaborazioni, non in maniera accademica, “un altro mondo possibile”. Ho sempre ritenuto, ho sempre pubblicamente sostenuto che quello spicchio di DP, nella piccola Palata, fosse una vera “casa del popolo”, una minuscola associazione più simile alla Prima Internazionale che ai partiti comunisti contemporanei. Il mio amore nasce da qui.

Hanno fatto benissimo i compagni di Palata a pensare e redigere collettivamente questo agile lavoro. Il quale non è solo identità ma un piccolo romanzo storico. Continuo ad incontrare, ancora oggi, compagne e compagni che orgogliosamente si autodefiniscono “demoproletari” e che ritengono ancora attuale il pensiero collettivo di quella comunità.

Perché, lo scrivo senza arroganza, pur con i suoi problemi e le sue debolezze, DP fu davvero “la forza del progetto, il realismo dell’utopia”, come intitolammo il sesto Congresso del 1988. Eravamo una comunità, non una setta. Per noi la complessità era, marxianamente, l’insieme delle culture e delle differenze.

Quando ci sciogliemmo, per partecipare collettivamente alla costruzione del Movimento per la Rifondazione Comunista, essendo il segretario di DP, sostenni: “ci sciogliamo con malinconico entusiasmo”, un ossimoro che richiamava una comunità quasi trentennale di passioni, vite comuni, che aveva saputo osare, azzardare, ricercare; “malinconia”, quindi. Ma anche “entusiasmo” perché iniziavamo un’esperienza inedita, di massa, certo molto complessa perché incontravamo esperienze politiche che provenivano, come quelle del PCI, da percorsi da noi molto lontani.

Il percorso della Rifondazione fu certo difficile ed aspro; e ancora, è certo, in mezzo al guado. Evitammo, però, che l’unica forza di sinistra che rinasceva, a livelli di massa, dopo lo scioglimento del PCI, avesse solo l’identità, pur essenziale, della resistenza nostalgica; tentammo di arricchirla con le culture della “nuova sinistra”, che avevano vissuto l’operaismo, l’ecologia sociale, il garantismo, forme di autogoverno, pratica dell’obiettivo. Soprattutto avevamo sempre tentato di evitare di vivere il nostro marxismo come ossificazione dogmatica.
Eravamo attratti dal “principio speranza” di Bloch, la “dignità umana, il camminare eretti”. Quale era il nostro patrimonio? Lo sintetizzo con le parole di un grande dirigente di DP, Franco Calamida, purtroppo deceduto: ” avevamo anticipato i tempi su molti temi; l’ambientalismo, la democrazia diretta, la critica al socialismo reale e perfino i costi della politica: come parlamentari, trattenevamo per noi, dallo stipendio, una cifra pari al salario dell’operaio metalmeccanico del quinto livello. Eravamo, insomma, onesti ed anche bravi. Forse, per questo, ci votavano poco”, concludeva con la sua ironia. Vi sono, penso, organizzazioni e vicende politiche che, pur se non cambiano il mondo, continuano a far discutere.

Eravamo, infatti, il partito italiano della Teologia della Liberazione, del grande teologo castrista Giulio Girardi, di Eugenio Melandri, della “tenerezza del pensiero” di Mimì Jervolino. Eravamo il partito della lotta alla borghesia mafiosa con Umberto Santino.

Eravamo il partito di Peppino Impastato. Combattemmo e combattiamo il giustizialismo, il panpenalismo, l’ossessione carceraria. Ci schierammo, in contesti repressivi isterici, dopo l’uccisione di Aldo Moro, “contro lo Stato e contro le BR”. Non accettammo che la critica alla lotta armata diventasse alibi per la costruzione dello “Stato penale”.

Avevamo, come i giovani compagni di Palata, il Marx della Comune di Parigi come punto di riferimento teorico: il socialismo deve essere una forma politica che “espanda” e liberi la capacità di tutti gli esseri umani. E ancora oggi, infatti, discutiamo di “partito sociale”, di confederazioni sociali. Volevamo, insomma, cambiare il mondo; e non abbiamo certo perduto la fede: vogliamo più che mai cambiarlo.

DP fu, insomma, una scommessa bella, generosa, anche se “non vinta”. La ricordiamo evitando nostalgie, ma anche evitando abiure e rimozioni. Fu un pezzo vero della vita nostra, di quella dei “ragazzi di Palata”, di
cui certo non ci pentiamo.

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