I dati, il dito e la luna

Piattaforme come Amazon e Netflix usano i nostri dati aggregati per creare personalità molto più di quanto non sfruttino direttamente i nostri comportamenti individuali. Per questo la regolamentazione della privacy non basta

Da tanto tempo, almeno quanto quello a partire dal quale riesco a inscatolare ricordi, mi è familiare la figura del meditabondo arguto. Figura di difficile inquadramento, fonda tutta la sua popolarità sulla storia a suo dire millenaria «del dito e della luna»; storia passivo aggressiva tesa a rammentare al pubblico ascoltatore quanto ogni pubblico ascoltatore sia uno stolto di primo e secondo livello. Sciocco una prima volta nella selezione autonoma degli obiettivi (il dito), sciocco la seconda nella eccessiva facilità di persuasione verso il nuovo obiettivo (la luna). 

Dalla new economy all’economia delle piattaforme

Questo è più o meno ciò che succede almeno dagli anni Novanta nel mondo dell’economia (del) digitale, ossia degli affari costruiti intorno alla pletora di servizi informatizzati capaci di ridisegnare nuove etologie negli animali umani. Risale a quegli anni l’esplosione del cosiddetto fenomeno delle dot.com, cioè quelle aziende nate dal nulla capaci, nella fase iniziale, di innescare un processo di riproduzione allargata tra la velocità delle nuove infrastrutture comunicative e l’amplificazione degli effetti globali che queste avrebbero nella realtà. Da qui l’abuso del termine «rivoluzione tecnologica» sintomo di un sensazionalismo generalizzato capace di retroagire sul fenomeno amplificandolo, almeno fino a quando il flusso si interrompe in qualche punto generando un fenomeno a cascata inversa. Che poi è quello che è successo, la speculazione favorita dal vento in poppa della promessa di facili guadagni su un terreno che avrebbe cambiato non solo i contendenti, ma l’idea stessa di contesa. È esattamente questo il momento in cui molti hanno cominciato a indicare la luna mentre qualcuno approfittava del volto estaticamente rivolto verso l’oggetto celeste per sfilargli il portafoglio. Eppure sarebbe bastato continuare a guardare il dito, per trovare nuovi più efficaci punti di applicazione dello stesso. 

Tranne quelle vocate al monopolismo, cioè all’odio forsennato che ogni capitalista di successo riserva al capitalismo, nessuna delle aziende che hanno fatto la storia gloriosa dei primi anni di internet è sopravvissuta o ha mantenuto alcuna delle promesse. La cosiddetta New Economy dell’informazione aveva fallito, generando miliardi di debiti per quasi tutti e una fortuna per pochi. Quei pochi che nel 2000 hanno deciso che il gioco stava per finire e che eventualmente qualcuno avrebbe pagato e spazzato. È inutile e intempestivo, almeno su Jacobin, mostrare quanto l’idea da surfista californiano di un’economia svincolata dai rapporti di produzione, o semplicemente dal mercato, sia risibile. Il problema è che la bolla delle dot.com non si è conclusa e che chi raccontava la storia della luna e del dito ci ha intrappolato in un’eterna ripetizione di quella scena primaria. La cosiddetta economia delle piattaforme che nel gergo giornalistico ha sostituito l’ormai insudiciata etichetta di New Economy, è la frammentazione di quella scena che si fa serie TV: la serializzazione della storia del dito e della luna avviene non per differenziazione ma per ripetizione. Una ripetizione che funziona anche da selezione: a ogni nuovo episodio diminuiscono i narratori accreditati. Nel frattempo, il ladruncolo che nella versione iniziale della storiella alleggeriva il pubblico dei portafogli annuncia pubblicamente la sua presenza ai nuovi adepti lunari: questa nuova pratica si chiama tutela della privacy.

Il concetto di piattaforma 

I contorni della metafora tratteggiata sono talmente nitidi che si confondono con l’arida descrizione dei fatti: l’economia delle piattaforme gira letteralmente intorno al concetto di piattaforma, non occorre volgersi verso la luna. Non si è imprecisi a parlare di concetto e si è scelta questa parola in modo ponderato. Qual è, quindi, la piattaformità delle piattaforme? Che cosa lega imprese e servizi così diversi in un unico modello operativo tale da ricomprenderle tutte? L’essenza della piattaforma è di non avere legami, o meglio, di averne sempre nuovi perché la piattaforma è solo una relazione, è un’intermediazione tra soggetti diversi che in qualche modo si conoscono attraverso il legame instaurato dal servizio offerto.   

Come racconta apertamente il bel libro di Cory Doctorow and Rebecca Giblin Chokepoint Capitalism, Amazon non è un negozio virtuale ma una macchina per incastrare negozi (reali) e clienti (altrettanto reali) in un mondo chiuso fatto di barriere invalicabili. Di fatto Amazon ha realizzato uno speciale  monopolio in cui sia i venditori (i vari negozi che vendono su Amazon) sia i compratori sono schiavi della mediazione fornita dalla piattaforma: per i venditori Amazon è l’unico acquirente possibile e per i compratori è l’unico venditore sul mercato. Un monopolio che è contemporaneamente un monopsonio. 

Uber, da par suo, non ne ha azzeccata una da quando è nata, se non il semplice fatto di esistere e non può spiegarsi in nessun altro modo il fatto che una società in perdita da sempre, così smart da distruggere circa 33 miliardi provenienti dai suoi investitori: uber è pensiero di pensiero. Detto in altri termini Uber rappresenta un collettore di aspettative e una rappresentazione ben precisa del mondo. Per questo Uber è pensiero di pensiero, la definizione che Aristotele riservava a Dio. Uber non crea il bisogno di spostarsi rapidamente nella città ma ci fa percepire, come direbbe Henri Lefebvre, questo bisogno come desiderabile, e il famoso algoritmo che smista autisti e prezzi non è altro che la misura di tale desiderabilità. E sembra averlo capito bene anche Netflix, uno tra i modelli meno astratti di piattaforma, che, almeno a quanto affermano Bogost e Madrigal, ha predisposto oltre 84.000 etichette per i suoi video, molte delle quali sono naturalmente vuote e in attesa di essere riempite. Le piattaforme fanno esattamente questo: costruiscono soggettività in grado di incontrarsi sotto una determinata categoria. Uber e Netflix costruiscono veri e propri soggetti da espropriare molto più di quanto non succhino dal furto dei nostri comportamenti trasformati in dati. 

Un adagio piuttosto diffuso ci racconta come le grandi compagnie, informatiche e non, sfruttino i dati personali che il «parco buoi» (li chiamano così) degli utenti fornisce loro gratuitamente in cambio dell’uso di servizi che in caso contrario avrebbero un costo. Vero, ma le grandi e piccole compagnie digitali usano i nostri dati aggregati per creare personalità, più che personalizzazioni con le quali poi gli utenti si identificano. La pratica della raccolta dati a scopi commerciali è antica quanto il tentativo capitalistico di massimizzare i profitti creando la domanda e quindi la propria clientela. Lo Stato di polizia che originariamente non ha alcun altro scopo che irreggimentare una popolazione che tuttavia non preesiste al processo di rifinitura statistica al quale doveva essere sottoposto. Se c’è una cosa su cui Michel Foucault aveva visto nella direzione giusta è con la teoria della soggettivazione di cui solo oggi si manifesta completamente la portata: i soggetti non preesistono alle pratiche che li configurano, ma queste sono condotte dei soggetti che contribuiscono a creare. Non esistono soggetti criminali prima dell’identificazione della devianza criminale da parte delle indagini di polizia statistica che pure trovano una ragione di esistenza nell’idea di soggetto moderno. Ecco perché forse dovremmo preoccuparci più di chi siamo e meno di quanto le piattaforme o lo Stato provino con la forza a estorcerci una verità su noi stessi che paradossalmente non conosciamo. I dati raccontano storie su noi stessi che non riusciamo a ricostruire, ricostruiscono storie che non sono mai esistite se non come narrazione postuma, ricostruiscono sentieri che non abbiamo mai battuto. 

L’assoggettamento algoritmico

È per questa ragione che la regolamentazione della privacy resta sempre un passo indietro e di lato; il concetto e la regolamentazione di privacy si applicano a soggetti ritenuti persistenti e atomizzati non riuscendo a comprendere che il rischio più grande si annida proprio in questo assioma. La privacy lavora sempre a un livello troppo alto, guarda insomma sempre la luna lasciando da parte il dito che l’ha di fatto tracciata. La privacy è il tentativo di regolamentare un mondo modellato dalla logica delle piattaforme e di questo mondo la privacy rappresenta la gestione peer-to-peer del diritto.

Non sostengo affatto che occorra ridicolizzare la preoccupazione di chi si sente minacciato dalle pratiche di profilazione individuale, né che sarebbe opportuno screditare tutta quella serie di importanti ricerche imperniate intorno all’idea di capitalismo della sorveglianza. Al contrario battersi contro la raccolta minuziosa delle nostre informazioni personali, delle nostre inclinazioni, della nostra vita nascosta a noi stessi è fondamentale. Allo stesso modo la preoccupazione per i sistemi integrati (non solo le telecamere per intenderci) di controllo e sorveglianza dei cittadini ha lo scopo di limitare gli abusi e le discriminazioni riportandoli a un livello di gestibilità umana o quantomeno di rendere verificabili le procedure con le quali le compagnie commerciali e le agenzie statali trattano i nostri corpi. Eppure la contesa su questi temi importanti rischia di offuscare il modo in cui tutto ciò è reso possibile. La raccolta di dati, la profilazione degli utenti, la schedatura di grandi porzioni di popolazione rese omogenee da qualche feature mai presa in considerazione precedentemente, ma anche solo l’algoritmo di match di Tinder sono pratiche algoritmiche di costruzione sociale e soggettiva. Insomma costruiscono soggettività e identità. Paradossalmente funzionano come fossero catalizzatori per la costruzione di classe sociale, in senso marxiano, perché agiscono al di là degli individui identificandone desideri che addirittura questi non sapevano di possedere, individuano affinità e interessi, operano per sintesi (identità collettive) e disgiunzione (personalizzazione).

Il problema di questi ingegneri di classe digitali è che sono costruttori politici che non comprendono la politica mancando sempre il piano della prassi reale in cui le storie si fanno e gli attori fanno letteralmente la differenza. I dati raccolti, prodotti, estrapolati svolgono algoritmicamente e in modo idealistico una composizione delle forze in campo sempre nuova e immutabile, perché la realtà è contemporaneamente prodotto e fonte del processo di datificazione del reale. E laddove le strutture sociali riproducono solo sé stesse anche i soggetti cessano di essere entità aperte e si limitano a ripetere, ripetendosi. 

È a questo punto che la soggettivazione proposta dalle piattaforme digitali si trasforma in assoggettamento algoritmico. Come i numeri dopo la virgola del Pi greco indefinitivamente differenti e ricorsivamente uguali, i soggetti nati dalle piattaforme e dai servizi digitali hanno con la società lo stesso rapporto che Google ha con i siti ai quali i suoi link rimandano: individualità fluttuanti ma categorizzabili, che poi è il modo contemporaneo per dire riconoscibili e autoriconoscibili. E vale qui il discorso fatto per la soggettivazione e l’assoggettamento, laddove un sottile confine separa l’affrancamento dalla sua simulazione, come la coscienza di classe dal dato aggregato. Insomma verrebbe da dire no storia no party, in ogni senso del termine.

Si potrebbe dire che a importare non è né il dito, né la luna, a contare veramente è il contesto della narrazione, le forze in campo e la forza del campo e oggi né l’uno né l’altro sembrano quantificabili, se non come proiezioni algoritmiche.

Luca Gori è dottore di ricerca in filosofia e insegnante. Attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università di Tor Vergata di Roma.

29/8/2023 https://jacobinitalia.it

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