I giovani colombiani sfidano la violenza perpetua

Dal 28 aprile in Colombia è in corso uno sciopero generale contro la riforma tributaria proposta dal governo di estrema destra del presidente Ivan Duque. Una moltitudine che si nutre delle diversità del paese: oltre alle rivendicazioni dei principali sindacati e ai partiti tradizionali di opposizione, i popoli e le nazionalità indigene (in Colombia ci sono oltre 102 popoli e nazionalità indigene), la popolazione afro, i movimenti femministi e le comunità Lgbtiq+ hanno colorato le piazze delle principali città. Ma soprattutto il tessuto interclassista di una nuova generazione, all’interno di una società fortemente stratificata. Una linfa vitale che ha rinsaldato le proteste di questi giorni, sfidando senza paura gli effetti e i rischi della repressione della polizia. I giovani delle periferie urbane, abbandonati dallo Stato e privi di opportunità di progresso, ma anche delle classi medie, gli studenti delle università pubbliche e private, sono divenuti ben presto la primera línea di una generazione determinata, unita da un desiderio comune di resistere alla violenza esercitata dal governo Duque.

Le proteste sono state represse nel sangue della violenza della forza pubblica e paramilitare: nei primi dieci giorni, sono state registrate oltre 47 vittime, 963 arresti arbitrari, 278 interventi violenti della polizia contro manifestazioni pacifiche, 28 persone hanno perso la vista per impatto di proiettili di gomma, oltre 12 casi di violenza sessuale (Indepaz-Temblores, 9 maggio). Oltre 548 i desaparecidos, in un clima da caccia alle streghe nelle periferie urbane, con un linguaggio istituzionale e mediatico che criminalizza le voci della protesta, segnalando solamente gli episodi di vandalismo e insabbiando le violenze della forza pubblica.

Sebbene le proteste siano scoppiate a seguito di un progetto di riforma tributaria, tra l’altro già ritirata dallo stesso governo, la mobilitazione non si è placata e ben presto ha assunto il carattere di rivolta popolare generalizzata, con rivendicazioni ben più ampie e con uno scenario di possibile trasformazione radicale. Le origini della protesta vanno ricercate nelle cause strutturali e di lunga durata. Il progetto di riforma tributaria è arrivato in una congiuntura sancita dagli effetti sociali ed economici della pandemia, in un paese in cui sono aumentate fortemente le disuguaglianze sociali e in cui la povertà estrema e strutturale, secondo il Dane (Departamento Administrativo Nacional de Estadistica) colpisce oltre 21 milioni di persone. Vi è stato un significativo aumento della disoccupazione (che ha raggiunto il 14%) e la crescita dell’economia informale e del sottoimpiego. Il Covid-19 ha inoltre provocato una caduta del Pil del 6,9%, a cui si aggiunge una forte svalutazione della moneta locale, il peso colombiano: tutti questi segnali ci riferiscono di una stagnazione economica e sociale, a cui si aggiunge un impasse del governo in carica per far fronte a tali problemi. 

La gestione dell’emergenza sanitaria, con un lockdown lungo e altrettanto inefficiente, la chiusura del commercio e di buona parte delle attività produttive, il calo registrato negli investimenti internazionali e del turismo internazionale, l’assenza di misure di assistenza e servizi di solidarietà per milioni di cittadini in difficoltà sprofondati nella soglia di povertà estrema, hanno dato il colpo di grazia a un’economia che già si trovava ai bordi di una recessione e in cui le contraddizioni socio-politiche non offrivano più ampi margini di manovra al governo in carica.

Con l’aggravarsi della crisi economica e l’inefficacia delle misure sociali implementate dal governo Duque, la popolazione ha preferito sfidare i rischi del contagio della pandemia e quelli della repressione: dal 28 aprile l’espressione del dissenso si è manifestata giorno e notte, nel centro delle città, ma anche nei quartieri periferici. 

Questo avviene perché, oltre alle cause immediate della protesta, che di per sé avrebbero potuto scatenare come già avvenuto in altri paesi della regione (Cile, Ecuador, Paraguay, Perù, Haiti e Salvador) una turbolenza sociale, la mobilitazione è andata via via crescendo a fronte della reazione del governo che, fin dalle prime ore, ha inscenato una repressione generalizzata e proceduto a una militarizzazione delle principali città del paese, con un linguaggio e un clima da guerra civile, una retorica bellica dell’infiltrazione del governo venezuelano e dei gruppi guerriglieri ancora presenti in Colombia. 

Le scene di violenza della forza pubblica, della polizia, dell’Esmad (Escuadrón Móvil Antidisturbios), la presenza del Goes (Grupo de Operaciones Especiales), gli spari di civili armati sulla folla inerme e l’infiltrazione della polizia nelle manifestazioni, i massacri realizzati nella città di Cali (soprattutto nei quartieri di Siloé e La Luna) non hanno però frenato la protesta, anzi hanno prodotto l’effetto contrario, moltiplicando la portata del dissenso, con manifestazioni di sdegno che si protraggono da oltre undici giorni e che non intendono certo arrestarsi, laddove i tentativi di dialogo hanno raccolto finora sterili risultati. 

L’attacco a funzionari dell’Onu, alla stampa, al personale medico e infermieristico, ai difensori di diritti umani che ne monitorano le violazioni costanti forniscono un’ulteriore prova della risposta istituzionale del governo Duque, oltre all’impunità degli episodi di violenza, coperti dalle istituzioni e dal silenzio assordante della comunità internazionale.

La violenza strutturale della polizia, l’uso di armamenti non convenzionali e la militarizzazione dei territori in Colombia non rappresentano di certo una novità, ma rispondono a uno schema decennale di gestione dei conflitti sociali in tutto il paese: rappresenta l’essenza della dottrina militare e il segnale dell’incapacità di risoluzione dei conflitti da parte delle istituzioni democratiche dello Stato, la sconfitta dello stato di diritto e la messa in pratica dello stato di eccezione permanente. 

Vi è però la trasformazione del teatro del conflitto nei grandi centri urbani, laddove la militarizzazione e la violenza avveniva soprattutto nelle regioni rurali e isolate del Paese, con una visibilità e un impatto mediatico minore. L’attuale scenario delle proteste urbane si aggiunge infatti a un contesto di ulteriori scenari critici: il fallimento del processo di pace del 2016 e l’implementazione delle riforme sociali collegate agli accordi di pace dell’Avana, tra il governo di Juan Manuel Santos e l’estinta guerriglia delle Farc-Ep. A  questo si sono aggiunte nuove dinamiche del conflitto armato interno, in un clima di sterminio fisico dei e delle leader sociali e l’aumento generalizzato dei massacri. Si registra inoltre l’espansione territoriale dei gruppi armati, tra cui l’Eln, le dissidenze delle estinte Farc-Ep, e il neo-paramilitarismo.

In effetti, nelle zone rurali del paese a seguito della firma degli accordi di pace tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep nel 2016, sono già state registrate oltre 1.200 vittime, tra leader sociali, popolazione indigena e afro, contadini, sindacalisti, maestri, giornalisti, difensori di diritti umani e del territorio. Oltre 250 ex combattenti delle Farc-Ep sono stati uccisi, mettendo a dura prova la continuità dell’accordo di pace e le possibilità di transizione democratica del paese. A tutto questo si aggiunge che la violenza politica è aumentata dall’inizio della pandemia e solo nel 2021 si sono verificati oltre 35 massacri nelle zone rurali. Tutto ciò denota certamente una violenza perpetua e senza fine.

La violenza dispiegata nelle ultime ore dà prova delle pratiche autoritarie istituzionalizzate, in uno Stato in cui formalmente non ci sono stati episodi recenti di colpi di stato o dittature come per i vicini latinoamericani, ma che, di fronte alle ingenti difficoltà dell’establishment politico, potrebbe dare spazio a un intervento delle forze armate. Tuttavia si tratta di un paese con lunga storia nella repressione della protesta sociale, della violenza e dei crimini di Stato che annichiliscono ogni tentativo di riconciliazione e scherniscono le briciole del processo di pace, ormai in frantumi.

L’incremento sostanziale del conflitto sociale e la presenza del conflitto armato interno nei grandi centri urbani rappresentano una delle chiavi di lettura dell’ingente investimento pur in tempi di pandemia da parte dello Stato colombiano. Infatti, negli ultimi mesi e a fronte delle politiche di austerità imposte dal governo, sono emersi i dati degli investimenti in armamenti per rifornire l’Esmad di oltre 3 milioni di dollari (Contagio Radio), che si aggiungono ai 9,2 miliardi di dollari già stanziati in spese militari, secondo nella regione solamente al Brasile (Sipri: Istituto Internazionale di Studi per la Pace a Stoccolma).

I massacri di tutti i giorni nelle zone rurali trasferiti nelle città

Le grandi città colombiane, soprattutto le capitali dipartimentali, sarebbero invece il nuovo scenario della militarizzazione, con il pretesto di contrastare la presenza di gruppi insorgenti urbani (milizie urbane dell’Eln). Oltre alla militarizzazione, nelle grandi periferie urbane si è estesa la presenza di formazioni neo-paramilitari che agiscono imponendo un controllo sociale e di intimidazione con un coprifuoco non dichiarato, e che si somma alla gestione della attività illegali, quali il narcotraffico, l’estorsione, lo sfruttamento della prostituzione e il racket, a spese delle fasce sociali più deboli e, molto spesso, ai danni della popolazione venezuelana migrante. Tutto questo si verifica con una connivenza e talvolta collusione da parte delle istituzioni dello Stato. 

Non a caso, in questi giorni è andata in scena anche una violenza paramilitare, che affianca l’operato delle forze di polizia, attaccando la popolazione civile (come dimostrato nei giorni scorsi al viadotto di Pereira e nei quartieri popolari di Cali, Medellìn e Bogotà) con armi da fuoco in pieno giorno, in un clima di minacce e di caccia alle streghe che si registra quotidianamente in tutti i quartieri popolari e nelle periferie urbane. 

Lo sdegno per gli abusi da parte della polizia bolliva in pentola già da alcuni anni. Nel settembre del 2020, in piena pandemia, a seguito delle torture e dell’omicidio da parte della polizia dell’avvocato Javier Ordoñez  dopo un fermo di polizia, si era scatenata l’indignazione nella città di Bogotà, con oltre 120 stazioni di polizia attaccate e incendiate, e un bilancio di oltre 20 manifestanti morti in soli tre giorni. Sempre in quei giorni trapelò la notizia dell’omicidio sempre da parte della polizia di nove giovani nel municipio di Soacha (sud di Bogotà), bruciati vivi all’interno di una stazione di polizia, a seguito di una detenzione arbitraria. 

Lo sciopero generale del 21 novembre del 2019, sempre in risposta a un pacchetto di misure di austerità, il primo paquetazo neoliberale del governo Duque, era invece stato il preludio delle manifestazioni di questi giorni. Anche in quel caso, le vittime furono decine. Tra questi, l’adolescente Dylan Cruz, deceduto dopo esser stato colpito dalle pallottole di armi non convenzionali della polizia in una manifestazione pacifica nel pieno centro di Bogotà. La morte del giovane liceale si aggiunse ai 43 casi di esecuzioni capitali extragiudiziali, perpetrate dalla polizia nazionale e in particolare dall’Esmad, tutti crimini impuniti e il cui processo viene infangato dalle principali cariche dello Stato.

Mentre i timidi tentativi di dialogo del governo con il comitato dello sciopero nazionale procedono a rilento, il presidente Duque, in difficoltà, potrebbe optare per il pugno di ferro, proclamando lo stato di assedio, che sarebbe un tentativo disperato di placare la rivolta ora in corso. Tuttavia, il costo politico e sociale sarebbe elevatissimo e i risultati modesti: si estenderebbe la militarizzazione già in atto nelle città, con restrizioni alle libertà civili e un ulteriore bagno di sangue. Oltretutto, difficilmente queste misure avrebbero presa reale sulla popolazione, laddove si è mostrata fin da subito una forte determinazione e tenacia tra i manifestanti. 

Il cammino sarà lungo e tortuoso, ma il popolo colombiano ha deciso di resistere, di non cedere alla violenze istituzionali e paramilitari, e di intraprendere il proprio cammino di emancipazione e liberazione.

Orso Colombo è ricercatore in studi latinoamericani presso l’Universidad Nacional de Colombia. è analista di conflitti territoriali e geopolitica latinoamericana.

10/5/2021 https://jacobinitalia.it

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