I riders d’Europa si incontrano

I sindacati del continente si sono incontrati a Madrid per discutere di lavoro delle piattaforme. La lotta prosegue su diversi piani: quello giudiziario, quello della direttiva Ue e nei conflitti per le strade dei diversi paesi

Di riders del food delivery e di gig economy occorre tornare a parlare anche se l’attenzione mediatica va e viene. Quest’ultima, in passato, ha giocato un ruolo rilevante, quantomeno in Italia: ha amplificato la visibilità delle lotte che le lavoratrici e i lavoratori, sprovvisti delle classiche tutele sindacali, avevano intrapreso. Gli stessi fattorini hanno dimostrato la capacità di servirsi di questo interesse a proprio vantaggio per moltiplicare la pressione sulle istituzioni – chiamate in causa affinché assumessero un ruolo attivo nella vertenza. La regolazione statale, in un quadro di erosione della contrattazione collettiva e di grandi trasformazioni di cui il il platform work è solo una delle punte più avanzate, si trova spesso a dover esercitare un ruolo di supplenza e di riequilibrio della protezione sociale come del resto testimoniato dal dibattito sull’introduzione del salario minimo legale a seguito di una Direttiva Ue in materia. 

Quando però i riflettori dei media si spengono il rischio è che i lavoratori perdano un canale prezioso attraverso il quale far arrivare la propria voce al governo, al legislatore e all’insieme del sistema dei partiti. Nonostante tutto e al di là delle ovvie difficoltà, registriamo però alcune notizie importanti. UberEats aveva deciso di lasciare il mercato italiano lo scorso luglio. I lavoratori, non riconosciuti come subordinati anche per via dell’accordo tra Assodelivery e Ugl che ha suggellato falsa autonomia e cottimo, erano stati lasciati a sé stessi, senza ammortizzatori sociali e con l’unica prospettiva di arrangiarsi individualmente nella ricerca di un altro posto di lavoro, magari nello stesso settore del food delivery. Grazie a un ricorso messo in campo dalla Cgil (tramite le tre categorie degli atipici, del commercio e della logistica), la multinazionale dei pasti a domicilio è stata condannata per condotta antisindacale (ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori). Uber ha violato una legge del 1991 omettendo di mettere in campo le procedure obbligatorie di informazione e consultazione sindacale in caso di licenziamento collettivo. L’azienda è inoltre inadempiente rispetto alla recente normativa contro le delocalizzazioni. Nonostante quest’ultima sia, nella sostanza, un pannicello caldo non in grado di rispondere a situazioni emblematiche di crisi (come quella, ormai nota, della Gkn di Campi Bisenzio), essa prevede l’obbligo di informazione per tutte le aziende superiori ai 50 dipendenti, anch’esso non ottemperato dalla piattaforma. C’è dunque un giudice a Milano. I licenziamenti sono revocati. Da vedere cosa succederà concretamente ma per ora è l’ennesimo piccolo passo avanti.

Un’altra notizia importante arriva in questi giorni dalla Spagna. Il partito post-franchista Vox, molto vicino al sindacato giallo Solidaridad (critico nei confronti della regolazione del settore e favorevole al falso lavoro autonomo), aveva presentato istanza di incostituzionalità della Ley Rider, il decreto legge varato durante il precedente governo su impulso della Ministra Yolanda Díaz e che prevede la presunzione di lavoro subordinato per i fattorini del food delivery impiegati dalle piattaforme digitali. Vox, desideroso di colpire l’impianto della legge, lamentava l’assenza dello stato di necessità e urgenza alla base del decreto. Il Partito Popolare era sulla stessa scia. La sessione plenaria del Tribunale Costituzionale ha però bocciato il documento redatto da un magistrato conservatore che proponeva di esaminare il ricorso della forza politica di estrema destra, alleata stretta di Giorgia Meloni. Una sconfitta non da poco per chi si oppone alla regolamentazione.

La Direttiva Ue, una partita ancora aperta

Lo scorso 27 giugno, dalle colonne dell’edizione statunitense di Jacobin, analizzavamo lo stato dell’arte del percorso legislativo comunitario che potrebbe portare alla definitiva approvazione di una Direttiva europea sul lavoro di piattaforma. Riassumiamo in breve le precedenti puntate. Nel dicembre del 2021 la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta per migliorare le condizioni di lavoro all’interno della gig economy. Questa individuava cinque criteri di subordinazione: a) l’imprenditore che stabilisce effettivamente limiti massimi per la remunerazione; b) la presenza di requisiti vincolanti per i lavoratori (codici di condotta verso i clienti, abbigliamento ecc.); c) la supervisione della prestazione lavorativa tramite mezzi elettronici; d) l’effettiva restrizione di libertà nell’organizzazione del lavoro, nelle assenze, nella scelta dei turni; e) la restrizione effettiva nella possibilità, per i lavoratori, di costruirsi la propria autonoma base di clientela. Al soddisfacimento di due criteri su cinque, la proposta della Commissione prevede che si attivi la presunzione di subordinazione.

Il Parlamento europeo ha invece optato per un’altra strada, ascoltando i suggerimenti venuti dal mondo sindacale: una presunzione di subordinazione meno rigida e senza criteri, come del resto da impostazione della citata legge nazionale spagnola. Il Parlamento ha anche emendato il testo iniziale della Commissione sostenendo che la libertà di rifiutare compiti assegnati, di scegliere, di usare sostituti – pur essendo caratteristiche proprie del lavoro autonomo – non provi di per sé la non subordinazione dei lavoratori. 

La posizione del Consiglio ha fatto registrare invece passi indietro, in particolare per la concomitanza di alcuni fattori: a) l’indecisione del governo tedesco, sussistendo una diversità di posizioni tra i partiti alleati nella cosiddetta coalizione semaforo (con verdi e socialdemocratici da un lato e liberali dall’altro); b) la forte pressione per sabotare la regolamentazione da parte della Francia di Macron (vicinissimo alle posizioni delle multinazionali, come dimostrato dagli Uber Files) e di alcuni governi dell’Europa centro-orientale (il PiS polacco, ad esempio, è pregiudizialmente ostile alla regolamentazione sovranazionale); c) le difficoltà dei progressisti spagnoli nel periodo in cui la posizione del Consiglio è stata approvata (a seguito della sconfitta nelle amministrative di maggio e alla chiamata di elezioni anticipate da parte di Sanchez per le quali si prospettava un’affermazione, poi non avvenuta, delle destre). La posizione del Consiglio, in particolare, presenta due criticità: il ritorno al sistema dei criteri di subordinazione, con un ampliamento degli indici da soddisfare (tre su sette, anziché i due su cinque proposti dalla Commissione); le possibilità derogatorie concesse agli Stati membri. L’eurodeputata francese Leila Chaibi, del gruppo The Left, mette in guardia su alcuni rischi. Se ad esempio alcuni criteri di controllo sono adottati nella cornice di accordi collettivi, essi non possono essere utilizzati per attivare la presunzione di subordinazione. Questo è quanto notoriamente punta a fare Macron, che veicola l’idea di un «modello francese» fondato sul dialogo sociale (o sulla parvenza di esso) che rende non necessarie normative vincolanti e stringenti. Un dialogo sociale cui non credono, in Francia, né la Cgt né Force Ouvrière [Fo]. Nella gig economy, del resto, prosperano sindacati gialli come nel caso dello spagnolo Solidaridad o, in Italia, di Ugl che ha sottoscritto con Assodelivery il già menzionato contratto pirata per mantenere lo status di falso lavoro autonomo e la paga a cottimo e per derogare dalle disposizioni della pur debole legge 128/2019. Un accordo in cui, secondo Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, le parti si sono scelte per consonanza di interessi e in gran segreto (mentre tavoli di contrattazione formali con i sindacati comparativamente più rappresentativi e i collettivi dei riders erano in corso al Ministero del Lavoro). 

Sarà nel trilogo tra Parlamento, Commissione e Consiglio che si proveranno a comporre posizioni di partenza molto diverse per, eventualmente, arrivare a una Direttiva. In questo quadro, il 28 e il 29 settembre, i sindacati europei si sono incontrati a Madrid per fare il punto della situazione. Si è trattato del secondo forum annuale sul platform work, dopo quello tenutosi a Vienna nel 2022. 

Dal forum di Madrid

Il forum, che si è tenuto nella sede del sindacato socialista Ugt, è stato introdotto dai due sindacati spagnoli che sono stati i local organizers dell’evento promosso dalla confederazione europea: la stessa Ugt e la Confederación Sindical de Comisiones Obreras (Ccoo).

Ugt ha ricordato le difficoltà che la Confederazione europea dei sindacati ha avuto in passato nel comprendere a pieno la portata dirompente di questa battaglia. Battaglia che secondo Ugt è «una lotta internazionalista e globale» che, tra l’altro, non riguarda solo riders e lavoratrici delle pulizie ma «anche professori, psicologi, creatori di contenuti». Ccoo ha ricordato il ruolo pionieristico della legge spagnola, frutto anche del dialogo sociale e del coinvolgimento dei sindacati. Legge che però ha un campo di applicazione limitato (i riders del food delivery) e quindi è necessario seguire la partita europea per ampliare anche il raggio d’azione della legislazione nazionale. A tal proposito, Ccoo ricorda un dato citato dalla Commissione europea secondo cui entro il 2025 saranno 43 milioni i lavoratori e le lavoratrici che opereranno per conto di piattaforme digitali negli Stati membri dell’Unione. 

A questo punto, c’è stato un keynote speech di Barbara Orth, della Libera Università di Berlino. La ricercatrice ha presentato uno studio condotto nella capitale tedesca, con una metodologia orientata a uno sguardo intersezionale sul lavoro di piattaforma. Ha ricordato il carattere globale delle agitazioni nella gig economy e il ruolo strutturale della forza lavoro migrante: migrazioni internazionali in Europa e nel Nord Globale ma anche migrazioni interne in Cina e India. Orth ha invitato a non focalizzarsi solamente sul più visibile lavoro dei riders ma anche su quello domestico: il regime di visibilità, del resto, è socialmente costruito attorno all’asse del genere e della sua intersezione con altre subalternità e disuguaglianze. Orth ha spiegato poi la molteplicità dei profili della forza lavoro migrante impegnata a Berlino: molti vengono dall’America Latina (alcuni recentemente naturalizzati), molti sono studenti internazionali (in particolare dal Sud-Est asiatico: India, Pakistan, Bangladesh). Poi ci sono altri latinoamericani (specie da Cile e Argentina) che hanno particolari tipi di visti per lavoro temporaneo (working holidays visas). Le piattaforme rappresentano un accesso facile a un’occupazione, che permette di oltrepassare le barriere linguistiche. Per alcuni lavoratori sono un’alternativa a esperienze ancora peggiori (Orth riporta il caso di uno studente-lavoratore indiano che da lavapiatti in un ristorante prendeva 4.50 euro l’ora, ben sotto la soglia legale del salario minimo, 12euro). 

Si tratta di una forza lavoro che spesso non si identifica con i mestieri che svolge ma che ad esempio rivendica il proprio status di studente internazionale (visto come possibile veicolo per accedere a una futura migliore posizione, in Germania o altrove, nel mercato del lavoro e nella vita). Nonostante le complessità, Orth ha spiegato che l’organizzazione è possibile. Viene citato il ruolo del mutualismo, dei necessari rapporti con l’associazionismo per i diritti dei migranti per costruire coalizioni orientate alla giustizia sociale. Servono pratiche innovative che rinnovino il repertorio sindacale tradizionale. Il fatto che si sia tenuta questa lezione, con Orth che ha poi coordinato un apposito gruppo di lavoro tematico, rivela un’attenzione da parte dei sindacati europei non affatto scontata. 

Se la riflessione può essere una traccia utile per l’azione futura è presto per dirlo. Del resto un sindacalista italiano – ai margini dell’evento – mi ha confidato una certa difficoltà culturale a interfacciarsi con alcune delle best practices (tra cui la capacità di costruire coalizioni, il digital organizing e il fornire informazioni non solo in incontri fisici ma anche via mail o whatsapp in modo che i lavoratori non pratici con la lingua nazionale possano tradurre online i testi) segnalate nelle conclusioni della relazione di Orth. Ad ogni modo sembra un tema ineludibile: senza rinnovamento della propria capacità di rappresentare una forza lavoro diversificata sarà difficile per i sindacati avere un ruolo propulsivo, pesare, contrattare, accompagnare nei posti di lavoro eventuali miglioramenti o cambiamenti legislativi che potranno avere impatti differenziati sulle diverse componenti della classe.

Si è poi tenuto un dibattito cui ha partecipato la parlamentare europea Kim Van Sparrentak (Verdi olandesi) che ha ricordato i rischi delle proposte del Consiglio. A suo parere queste potrebbero legalizzare i sindacati gialli e sarà necessario che durante le negoziazioni il Parlamento faccia valere la sua posizione. Nella stessa tavola rotonda, del resto, Ccoo ha tracciato una linea rossa, cui secondo il sindacato spagnolo i partiti progressisti dovrebbero attenersi: sulla difesa della presunzione di subordinazione bisogna essere intransigenti.

Il giorno successivo è stata la volta di William Vandezande (nel gabinetto del ministero dell’Economia e del Lavoro belga, in mani socialiste) e di Ricardo M. Prieto (direttore generale del ministero del Lavoro spagnolo e stretto collaboratore della leader di Sumar Yolanda Dìaz). La presenza di entrambi è naturalmente significativa: la Spagna è presidente di turno dell’Unione europea, poi sarà la volta del Belgio, poi terminerà la legislatura e ci saranno le elezioni. Se la Spagna ha in materia la postura che abbiamo menzionato (frutto anche della legislazione nazionale adottata), in Belgio – che pure ha fatto parte della cordata di paesi più progressiva all’interno del Consiglio – le cose sono più sfumate. Il rappresentante del gabinetto del Ministero ha menzionato la legge adottata dal proprio paese, fondata su una presunzione di subordinazione che però è più debole di quella spagnola, nonché basata sui criteri. Vandezande l’ha presentata come possibile elemento di sintesi che tenga dentro anche la posizione del Consiglio. Da ricordare però che la legge belga presenta dei limiti, segnalati ad esempio dal Partito del Lavoro Belga [Ptb], membro di The Left, nonché dai sindacati. Questa sfumatura ci dice molto di un dibattito ancora aperto su dove le forze progressiste europee stabiliranno la linea rossa per una Direttiva europea in materia. Importante sarà il ruolo di altre elezioni nazionali che si terranno a breve in Europa, come in Olanda e Polonia. Lo spettro di un’avanzata delle destre aleggia sulla discussione in corso.  

Dei gruppi di lavoro tenutisi nelle sessioni parallele del 29 settembre interessante è stato in particolare il panel tenuto dai sindacati francesi (Cgt e Fo) sulla contrattazione collettiva. Questi hanno denunciato la farsa del dialogo sociale macroniano volto a promuovere la promozione del lavoro indipendente. La Francia ha infatti promosso un proprio quadro di riferimento per l’interlocuzione tra piattaforme e lavoratori presentandolo come «modello sociale» da opporre alla regolamentazione basata sulla presunzione di subordinazione.

Questo framework per il dialogo sociale ha portato alla stipula di quattro accordi collettivi (di cui uno sul metodo delle negoziazioni e uno sulla paga minima per consegna) che né Cgt né Fo hanno sottoscritto pur sedendosi ai tavoli negoziali. Entrambi i sindacati fanno sapere dal forum di Madrid che si stanno interrogando sulla loro partecipazione futura a questo dialogo sociale che ha il rischio di legittimare le volontà politiche di Macron. Cgt e Fo hanno poi parlato del caso Just Eat, piattaforma che invece sostiene la Direttiva europea e si è orientata verso il lavoro subordinato. Entrambi segnalano che non bisogna sottovalutare la portata della narrazione di una piattaforma che si presenta come migliore delle altre, che può nascondere insidie. Del resto il processo di transizione di Just Eat dal lavoro autonomo a quello subordinato è quantomeno tortuoso e non lineare: sottoscrizione di un contratto collettivo in Italia, con un compromesso tra azienda e sindacati per una soluzione all’interno del Ccnl Logistica dopo l’iniziale volontà padronale di orientarsi verso il contratto Multiservizi; lotta in corso in Germania da parte del sindacato Ngg per ottenere un contratto collettivo; passi indietro verso l’autonomia in Gran Bretagna. In Francia Cgt e Fo lamentano che il contratto Just Eat è inferiore al contratto collettivo generale: prima di Macron questo era impossibile, poi è stata invece favorita la decentralizzazione delle relazioni industriali. Cgt e Fo hanno una vertenza aperta con l’azienda, che tra l’altro presenta una situazione diversificata tra Parigi e altre città. Nella capitale utilizza il lavoro subordinato, in altre città ha operato una ristrutturazione verso il lavoro autonomo. I sindacati europei, ad ogni modo, stanno avviando un embrionale tentativo di coordinamento sovranazionale per confrontare le situazioni nei vari contesti nazionali. Una sfida importante in un’azienda che, pur come abbiamo visto in forme contraddittorie, dichiara di sostenere i processi regolativi continentali.

Un quadro in movimento

Il quadro, ad ogni modo, è in movimento. Al forum hanno partecipato realtà sindacali organizzate da tutta Europa: dall’Austria all’Olanda passando per la Polonia. La delegazione polacca attribuisce alla legislazione europea un’attenzione particolare data anche l’ostilità nutrita verso il sovranismo del PiS il quale – vedendo di cattivo occhio l’intervento legislativo comunitario – finisce per andare a braccetto con gli interessi delle aziende. La stessa cosa si può dire dei sindacati francesi che denunciano apertamente il ruolo di testa di ponte della deregulation del proprio governo e pensano che la partita sia da giocare politicizzando la sfida europea al fine di piegare l’estremismo neoliberista nazionale. 

La lotta va dunque avanti su diverse direttrici. Nelle istituzioni europee, nelle aule giudiziarie (come abbiamo visto nella sentenza milanese contro i licenziamenti di Uber Eats) e si spera nuovamente nelle strade di tutta Europa. Determinante sarà il rinnovamento delle organizzazioni sindacali. Rappresentare e in che modo il lavoro migrante, come si è detto, è un fattore di assoluto rilievo nel determinare la possibilità di una svolta progressiva nelle condizioni di lavoro dei platform workers. Comprendere che il lavoro di piattaforma vada poi oltre i più visibili riders è ugualmente rilevante. La resistenza alla fuga dal diritto del lavoro riguarderà molte e molti. «Non per noi ma per tutti» era del resto il lungimirante slogan dei fattorini di Riders Union Bologna.

Nicola Quondamatteo, dottorando in scienze politiche e sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, precarietà e movimenti sociali. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 201

6/10/2023 https://jacobinitalia.it

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