I tanti femminismi

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E’ luogo comune in diversi ambiti dell’intellighenzia femminista politica e associativa pensare, dire e attenzionare, che un maschio non può, pur animato da sincero spirito interlocutorio, prendere parte alla discussione sulle tematiche femminili. Ho sempre pensato e dichiaratato pubblicamente che questo modo di tarpare le ali alle contraddizioni maschili, quando si sottopongono al confronto con l’altro genere, sia profondamente, e culturalmente, sbagliato.

Ovviamente in questo volutamente breve spazio non mi addentrerò approfonditamente nelle molte problematiche che attraversano le lotte delle mobilitazionali nazionali e mondiali (lo fanno con cognizione di causa, impegno culturale, competenza militante, le donne che hanno scritto le prossime pagine di questo numero), ma mi preme porre all’attenzione quella che credo, forse a torto per probabile scarsa conoscenza della pratica femminista, una mancanza, forse politicamente struttirale, parlo della distanza e delle contraddizioni tra gli ambiti militanti del femminismo, o meglio dire dei femminismi, e il sentire e vivere, culturalmente e nei nei fatti della vita quotidiana, delle donne delle fasce popolari, nelle periferie delle grandi città, nei paesi delle loro hinterland e negli altri, cioè quelle fuori da ogni possiblità di partecipazione e quindi fuori anche dagli eventi di mobilitazione, e di conseguenza inibite nelle capacità di portare nelle case la propria rivoluzione nei fatti.

Certamente questo editoriale andrà incontro a delle critiche, pelomeno a delle perplessità, ma, credo, che un comunista, un giornalista, debba, in quanto maschio, mettersi volontariamente in prima linea su ogni fronte sociale, come su questo tema sui femminismii.
Ad esempio, non ho mai avuto dubbi nel pensare, e dichiarare (ci tengo a sottolinearlo), che le cosiddette “Quote rosa” nella politica come negli ambiti di carriera lavorativa siano state un depontenziamento della battaglia per reali pari opportunità. Sono state deleterie sia perchè hanno disegnato delle riserve alle quali elemosinare, a parte dei maschi di potere, benefit e tribuna di testimonianza della propria esistenza di genere.

Quanto detto si lega questo sintetico quadro: ci sono molte divisioni tra le realtà organizzate, vedi Radfem (femministe radicali) che sono per l’abolizione della prostituzione e contro la maternità surrogata; c’è ll movimento Non Una Di Meno che sono anche per il sex work e trans, al loro interno (meno aperte verso le lesbiche) c’è molta discussione); poi a ci sono le Intersezionali che sono quasi tutte afrodiscendenti e accusano tutte le altre di avere troppi privilegi. (Quadro offertomi da una donna, giornalista di molte inchieste)

Comunque (me la vado proprio a cercare la critica di settori del femminismo) credo fermamente che quanto scritto mi, ci, pone dalla parte del collateralismo materialista al femminismo come pratica per l’uguaglianza dei generi contro il maschilismo dominante, nella politica come nella società reale.

E’ nella pubblica società reale rappresentata dai luoghi di lavoro che urgono nuove e collettive lotte contro la diffusa e negata violenza di genere.

Per il vissuto sui luoghi di lavoro ci rifacciamo all’ultima, non recente e quindi sono dati per difetto, analisi ISTAT dalla quale emerge che 1 milione 173mila donne (7,5%) che l’hanno dichiarato, hanno subito ricatti sessuali sul luogo di lavoro per ottenere l’assunzione e la sicurezza del posto, o per un promesso avanzamento di carriera a prescindere dalle competenze.

I ricatti sessuali sul lavoro rappresentano una delle poche tragiche certezze, oltre la precarietà e le brutali condizioni di lavoro, che mettono in luce il legame tra violenza di genere e la riorganizzazione schiavista delle forme del lavoro negli ultimi tre decenni in termini di erosione di diritti e tutele contrattuali, smantellamento del welfare universale sostituito da quello aziendale che costringe all’ubbidienza verso il datore di lavoro.

I dati ufficiali parlano di costante diminuzione ma sorvolano con inquietante leggerezza le tantissime mancate denunce delle donne che lo ritengono inutile stante l’idea maschilista, anche in tanti giudici, che le molestie e gli stupri, in fin dei conti, è sempre colpa delle donne: ‘te la sei cercata’, ‘non hai reagito quindi eri consenziente’, ancora “sei poco vestita e provochi”, “quei jeans erano troppo stretti per permettere una violenza sessuale”, per finire con “è stata lei a farmi delle avances”.

Ognuno può dedurre il senso di isolamento e solitudine delle donne vittime di soprusi nella loro condizione di subordinazione e dipendenza economica.

La pratica del “mobbing”, quella più diffusa e più ipocritamente derubricata dai luoghi comuni e stereotipi maschili, è vera e propria anticamera mentale della violenza sessista. Sul lavoro ha l’effetto di provocare nella vittima disturbi psicofisici anche gravi derivanti dalla convinzione che il luogo di lavoro è territorio del potere di un sesso contro l’altro, sia quando è l’imprenditore o un dirigente (mobbing verticale) o un collega di pari livello (mobbing orizzontale) con i loro strumenti di pressione nei confronti della vittima designata.

L’ISTAT già nel 2019 ha dichiarato che seppure il 69,6% delle vittime di molestie sessuali sul lavoro abbia considerato “molto” o “abbastanza” grave il ricatto subito, nell’80,9% dei casi non ne hanno parlato con nessuno sul posto di lavoro e in pochissimi casi i fatti sono stati denunciati alle forze dell’ordine.

Anche le forme di sfruttamento delle donne nei luoghi di lavoro, sempre più viscide e silenziate dalla ristrutturazione iperliberista in atto dai primi anni 80, facilitata dalla pandemia, rendono urgente, una vera emergenza di civiltà, la ripresa del movimento sindacale per il controllo sulle condizioni e le gerarchie di lavoro.

Quelle gerarchie di sopraffazione con ricadute ritenute conseguenti nella mentalità maschilista, anche, di diretti approcci sessuali, sono state quasi “istituzionalizzate” con il mantra della meritocrazia, imposta negli ultimi due decenni, che ha funzionato come il principio di “Divide et impera” nelle unità operative, scatenando la corsa, in chiaroscuro, alla posizione più gratificante dal punto di vista della posizione di carriera e salariale.

Una campagna foraggiata dai media come un progresso di produttività e qualità nelle relazioni aziendali fino a farla diventare una materia di contrattazione sindacale ben sostenuta, in equivoco parallelo dall’insulso insegnamento del raffreddamento dei conflitti (con appositi corsi fatti da alcuni sindacati confederali), nei fatti diventando un implicito invito anche alle lavoratrici molestate di restare in silenzio. Le performance prodotte hanno beffato competenze e qualità del lavoro, però con il grande risultato di peggiorare la vita negli gli ambienti di lavoro alimentando deleteria concorrenza tra simili.

Bisogna riparare urgentemente a queste storture nelle relazioni con i datori di lavoro riprendendo il percorso di contrattazione sull’organizzazione del lavoro, iniziando dai settori in cui si registrano percentuali più alte di molestie e aggressioni verbali e fisiche come nel commercio, nei servizi, nella sanità, e anche nel lavoro domestico e di cura.

Altra urgenza riguarda il ripristino, da parte dei sindacati confederali, della titolarità dei/delle RLS (Rappresentati dei Lavoratori per la Sicurezza) nell’applicazione del D.lgs. 81/ 2008 su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che, per quanto riguarda le lavoratrici soggette a sopraffazione, all’art. 28 colloca fra i rischi quelli connessi alle differenze di genere.

Una titolarità restituita che contempli una nuova composizione di genere, per facilitare l’uscita dal silenzio imposto dalle gerarchie, dando riferimenti più diretti, anche alle donne nel mondo dei lavori sottoposti alla violenza del precariato.

Franco Cilenti

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