Il greenwashing di Rio Mare nella Giornata Mondiale degli Oceani

L’ipocrisia sembra non cessare ed è sempre più alimentata da una comunicazione di marketing equiparabile ai termini “finzione” ed “illusione”, oltre che celare velatamente l’origine del proprio prodotti, impedendo ai “consumatori” (ormai sono chiamati così anche coloro che si nutrono) di informarsi. 

L’8 giugno, durante la Giornata Mondiale degli Oceani, il WWF, in una pagina del Corriere della Sera, decide di mettersi al fianco di Rio Mare, il colosso della pesca intensiva industriale, per simboleggiare la salvaguardia degli ecosistemi marini. 

La Giornata Mondiale nasce proprio nel giorno dell’anniversario della Conferenza Mondiale su Ambiente e Sviluppo di Rio De Janeiro, il vertice internazionale dell’ONU del 1992 che gettò le basi per lo “sviluppo sostenibile” come concetto su carta. 

Non si capisce quale “sviluppo sostenibile” possa garantire la pesca industriale e, più in generale, l’industria ittica che sono ormai il principale nemico degli ecosistemi e degli oceani. 

Queste operazioni di marketing della Rio Mare sono semplicemente dannose e nocive per le storiche battaglie ambientaliste e, soprattutto, dannose per il WWF che non si capisce quel quale motivo abbia accettato di mettere il proprio logo vicino ad un marchio di profitto.

Solo nel 2010 Rio Mare non aveva nemmeno una minima politica aziendale sulla sostenibilità, finendo negli ultimi posti in classifica della campagna lanciata da Greenpeace “Rompiscatole” http://greenpeace.it/tonnointrappola/.

Già all’epoca si segnalava che “Rio Mare sta lavorando per rispettare il proprio impegno: diventare 100% sostenibile entro il 2017, ma nelle sue scatolette finisce ancora tonno frutto di pesca distruttiva. “Qualità responsabile” non è ancora sinonimo di sostenibilità.”

Cosa che non è successa, soprattutto se stiamo parlando del colosso che detiene circa il 40% del mercato di tonno.

La campagna aggiungeva che “Non usa palamiti. Ha fatto crescere il volume del tonno sostenibile pescato a canna e come promesso, introdotto un nuovo prodotto con tonno pescato su banchi liberi, ma nel complesso questi prodotti sono solo una piccola parte del suo mercato italiano! Al momento la maggior parte del tonno delle sue scatolette è pescato senza alcuna garanzia che non si usino i FAD. Per mantenere le promesse fatte deve iniziare a utilizzare tonno sostenibile anche nel resto dei propri prodotti.”

Che a quanto pare non sembra fare perché il sistema della pesca intensiva, per quanto rigenerata dal marchio “green”, rimane un problema serio per la biodiversità e la sopravvivenza delle specie. Solo ad ottobre 2018, il colosso del mercato europeo Bolton Food, primo in Italia con il marchio Rio Mare, prende finalmente degli impegni chiari e ambiziosi per ridurre gli impatti ambientali della pesca al tonno che finisce nei propri prodotti, dimostrando di voler essere un vero leader dell’industria del tonno. ( https://www.greenpeace.org/italy/comunicato-stampa/3831/da-rio-mare-un-impegno-ambizioso-per-una-pesca-al-tonno-sostenibile/). 

In realtà, in questo ambito, nulla si può rigenerare perché è un sistema che si basa su un mercato di scala globale e non locale: un sistema che cerca di proporre il “capitalismo green” come alternativa al “capitalismo tossico”.

Come scriveva Giorgia Monti a marzo 2012, ex-Responsabile Campagna Mare di Greenpeace Italia: “La pesca con i FAD, ovvero quegli oggetti galleggianti utilizzati per concentrare i pesci, causa non solo la cattura di esemplari giovani di tonno, ma di numerosi altri animali marini, tra cui specie in pericolo, come squali e tartarughe. Si stima che per ogni 9 chilogrammi di tonni catturati si pesca 1 chilogrammo di altri animali “indesiderati”. ” – questo è il problema seria della pesca intensiva e non serve rigenerarla, ma combatterla. A svelare la truffa è il documentario “Seaspiracy”, affermando che “La realtà è che non esiste alcuna pesca sostenibile”. 

Ali Tabrizi, il regista, con la moglie Lucy ha impiegato cinque anni a mettere assieme questo atto di accusa scioccante e contestato contro lo sfruttamento dei mari. La “cospirazione” di cui Seaspiracy ci informa è nel fatto che la pesca commerciale abbia degli effetti devastanti sugli ecosistemi, sulla biodiversità marina, sull’inquinamento da plastiche e anche delle ricadute a livello umanitario, dal momento che sfrutterebbe il lavoro letteralmente di “schiavi”. 

Tutto questo non solo non viene detto, ma a ingannarci sarebbero le aziende che vendono pesce e proprio quelle associazioni che si prodigano per la salvaguardia dei mari e che nasconderebbero legami con i principali promotori della pesca commerciale. 

Il “greenwashing” è la nuova aberrazione che, forse, ci vuole far credere che si possano “eticamente” sfruttare i mari

di Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

19 giugno 2021

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