Il privilegio immortale

L’immortalità è uno dei concetti probabilmente più attraenti in astratto che in pratica. In quanto specie con una tendenza all’eccesso, l’idea di prolungare la durata della nostra vita a lunghezze esponenzialmente maggiori è, ironia della sorte, una condanna a morte per noi stessi e per coloro con cui condividiamo il pianeta. Al di là delle questioni pratiche della produzione, del consumo, dell’inquinamento e dello spazio per vivere, la durata estrema della vita rappresenta un problema di classe.

L’industria della vita eterna è già affare degli ultra-ricchi, che finanziano la ricerca per estendere la durata della vita umana. Questa ricerca, come le economie del sangue e dei tessuti in generale, ha una relazione profondamente inquietante con i mercati neri e le catene di approvvigionamento globali di sfruttamento. Questo aspetto moralmente discutibile della ricerca dell’immortalità da parte del magnate depredatore rende sospetta l’intera impresa. Anche se la ricerca dell’immortalità si scontra con limiti fisici, l’architettura sociale risultante dall’incarico della ricerca assicura che i ricchi per primi godranno dei frutti di quanto la ricerca potrebbe produrre.

La plutocrazia come immortalità

Maggie Harrison in Futurism scrive che il risultato potenziale e sconcertante dell’immortalità si troverebbe nella capacità di accumulare ricchezza per sempre. Dato che la ricchezza è potere, la capacità di accumulare ricchezza lungo lassi di tempo estremi implica una capacità di accumulare per lassi di tempo altrettanto estremi, consolidandola e concentrandola ulteriormente, radicando ancor di più l’oligarchia e la gerarchia di classe. Per avere un pezzo del Sacro Graal – garantendosi titolo e ricchezza imperituri – i plutocrati devono solo cancellare le tasse di successione.

A dicembre ho scritto di come le promesse dell’automazione e dell’intelligenza artificiale tendano a favorire la classe capitalista e non tutti gli altri e le altre. Nonostante esista una tradizione di sinistra che coltiva una speranza utopica nei confronti dei robot, dovremmo diffidare delle affermazioni secondo cui la tecnologia è intrinsecamente liberatoria. Sebbene possano alleggerire i fardelli e migliorare la qualità della vita, i progressi tecnologici non conducono automaticamente alla liberazione se sono posseduti e controllati da pochi. Dovremmo applicare lo stesso concetto alle tecniche che prolungano la durata della nostra vita. In effetti, queste tecniche possono essere ancora più pericolose e ostili alla liberazione di classe se non vengono democratizzate.

La scienza della longevità si occupa di obiettivi più sfumati rispetto ai semplici tentativi di «vivere per sempre». Conviene separare concettualmente gli interventi biomedici volti a curare malattie o ripristinare le funzioni biologiche dalla ricerca che vuole mantenere in vita gli esseri umani a tempo indeterminato. Alla fine dell’anno scorso, una nuova varietà di editing genetico Crispr, che è una tecnica spesso indagata insieme alla ricerca dell’immortalità, ha salvato la vita di un’adolescente nel Regno Unito, mandando il suo cancro in remissione. È un bene ovvio e assoluto salvare la vita degli adolescenti malati di cancro. Quando si discute di tecnologie volte a prolungare la vita – o eliminare l’invecchiamento e la morte – dovremmo quindi fare delle distinzioni.

I ricchi immortali

Nel 2018, Jon Christian ha scritto sui pericoli di classe derivanti dalla ricerca dell’immortalità. Ha citato l’ex presidente di Facebook Sean Parker, che ha dichiarato: «Poiché sono un miliardario, avrò accesso a un’assistenza sanitaria migliore… Arriverò circa a 160 anni e farò parte di questa specie di classe di signori immortali». Questa è roba da cattivi dei cartoni animati, ma la citazione di Parker rivela la logica degli ultra-ricchi, che tendono a tradire il loro senso del privilegio e i loro piani grandiosi nelle loro riflessioni irriverenti.

La tecnologia, come i lavoratori e le lavoratrici, è lì per servire loro e i loro fini, siano essi l’accumulazione di capitale o l’immortalità. E come per l’accumulazione di capitale, quando si tratta di prolungare la vita, ci deve essere una classe di «signori» longevi e di coloro che orbitano intorno a loro e godono degli avanzi della loro generosità.

Poiché le tecnologie che allungano la vita sono legate al potere, dovrebbero essere democratizzate in modo che nessuna singola classe abbia accesso strutturale a esse rispetto a qualsiasi altra. La sanità è un bene pubblico che deve essere condiviso da tutti. Le industrie biomediche privatizzate, tuttavia, lavorano contro questo imperativo.

Qualcuno potrebbe sostenere che chi investe i propri capitali in un’industria si assume un rischio di cui, se le cose vanno bene, dovrebbe godere i benefici. Si potrebbe anche dire che non è compito dello Stato impedire agli individui di godere dei frutti di queste fatiche, anche se limitate ai pochi rispetto ai molti. Questa è, chiaramente, la logica della sanità privata. Se uno può permettersi di seguire la propria strada, perché lo Stato o chiunque altro dovrebbe impedirglielo? Da questo punto di vista, la propria cura privata non ha nulla a che fare con il pubblico. Potrebbe essere così, ma è chiaramente una posizione moralmente misera e un modo grottesco di organizzare l’assistenza sanitaria.

Espropriazione di Matusalemme

Quando si tratta della ricerca dell’immortalità, il proprio accesso alle tecnologie associate è intrinsecamente pubblico, poiché i potenziali vantaggi combinati di esso daranno senza dubbio forma a esiti economici, sociali e politici. Quando si parla di ultra-ricchi che vivono fino a ben oltre i cent’anni, o, in teoria, per sempre, diventa ovvio che non si parla più semplicemente di specifiche cure mediche private. La capacità di accumulare ricchezza ed esercitare un potere cumulativo per periodi di tempo straordinari – e quindi di plasmare il mondo per molti – è intrinsecamente di natura pubblica e deve essere trattata e regolata come tale.

C’è una lunga storia di tecnologie adottate, e persino normalizzate, prima di pensare alle loro implicazioni etiche. Quando si tratta di salti tecnologici, spesso troviamo Stati lenti a regolamentare e proteggere il bene pubblico. In alcuni casi, ad esempio i social media, il tempo necessario per risolvere i problemi che ne derivano può essere di decenni, ammesso che vengano mai risolti.

Non per niente le parole di Ian Malcolm, il personaggio di Jeff Goldblum in Jurassic Park, hanno superato la prova dei decenni e preso nuova vita nei meme. «Erano così preoccupati di poterlo fare – dice Malcolm, con soggezione, meraviglia e paura – che non hanno pensato se lo dovevano fare».

Con la ricerca dell’immortalità, affrontiamo lo stesso problema, tranne per il fatto che abbiamo una classe di oligarchi convinti che la vita eterna non sia solo una buona idea, ma un diritto di nascita per classe. Possiamo discutere se l’idea stessa sia buona – ne dubito – ma dovremmo iniziare insistendo sul fatto che, a meno che la vita eterna non possa essere un diritto esteso a tutti coloro che lo desiderano, non dovrebbe essere esteso a nessuno.

Se la ricerca sulla tecnologia che allunga la vita è democraticamente determinata a essere un bene sociale degno di essere posseduto, qualunque beneficio produca la ricerca deve ripercuotersi sul bene comune. In caso contrario, dovrebbe essere abbandonato. Allo stesso tempo, dovremmo fare il possibile per prevenire e smantellare ogni traccia di immortalità d’élite nei nostri codici fiscali, leggi e politiche. Abbiamo bisogno di magnati rapinatori immortali – o delle loro costruzioni legali spettrali – come abbiamo bisogno di un’eterna classe di agenti addetti al parcheggio.

David Moscrop è uno scrittore e commentatore politico. Conduce il podcast Open to Debate e ha scritto Too Dumb For Democracy? Why We Make Bad Political Decisions and How We Can Make Better Ones (Goose Lane Editions, 2019). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

16/1/2023 https://jacobinitalia.it

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