Il TAV, l’ambiente, i grandi giornali

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Dopo – anzi, forse durante – la grandiosa partecipazione alla manifestazione No TAV dell’8 dicembre scorso (https://volerelaluna.it/tav/2019/12/09/tav-venaus-14-anni-dopo/) era ovvio aspettarsi dai giornali di proprietà di finanzieri & palazzinari riuniti editoriali e servizi speciali scritti con cartucce riempite di fiele: il 90% dei quotidiani è notoriamente mantenuto in vita con accanimento terapeutico, finanziato, a loro insaputa, dalla maggior parte dei cittadini che pagano ancora le tasse. E infatti si è trattato di una vera e propria mission delle testate recentemente svendute dai rampolli della tessera numero uno del PD dopo una saga familiare degna di un serial a cavallo tra Dallas e Billion (Sia chiaro: io non credo che “anche i ricchi piangano”, ma certamente fanno ridere; e ha fatto particolarmente ridere leggere, nelle scorse settimane, dell’ingegnere che voleva salvare la Repubblica per il bene della democrazia, cioè difendere dagli infedeli quella vera e propria reliquia di Eugenio Scalfari, mentre i figli se ne volevano disfare: tanto più che la svendita è poi avvenuta, approfittando del fresco far cassa – mercì Peugeot – del ramo cadetto della famiglia Agnelli, che le saghe tra madri e figli è tradizione le consumi in tribunale).

Già, ma cosa c’entrano le “vecchie & nuove” proprietà editoriali col TAV? Era già una consolidata tradizione delle due case quella di propagandare l’opera fin dal primo vagito (https://volerelaluna.it/talpe/2019/05/07/linformazione-alla-prova-del-tav/): chi non ricorda l’epica tenzone per la meglio narrazione Si TAV tra Tropeano – La Stampa e Griseri – la Repubblica, incubatori (anch’essi a loro insaputa) di 40mila madamine in fila per sette col resto di due? In un Paese normale le concentrazioni editoriali verrebbero impugnate dal governo e in una redazione normale ci si preoccuperebbe quantomeno del futuro dei posti di lavoro (anche se si sa fin dai tempi di Luigi Barzini che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare). Ma una penisola inutilmente protesa nel Mediterraneo che deve affidarsi ai pochi banchi di sardine sopravvissute alla pesca a strascico per difendersi dal Califfo del Papete non è un Paese normale. Figuriamoci occuparsi criticamente della più inutile delle Grandi Opere madri dell’ormai tragicamente conclamato cambiamento climatico.

Per stroncare una lotta che nonostante (o grazie a) loro dura da 30 anni le hanno provate tutte, compresa la collaudata tecnica (mutuata dalla security) di “giornalista buono contro giornalista cattivo”: sublimata su La Stampa, all’indomani della manifestazione (che, più che commemorare, ricordava il 2005 sia per partecipazione che per determinazione), con un pezzo a doppia firma affidato a Ludovico Poletto e Irene Famà. Ora non voglia il buon dio consentirmi di conoscere i nuovi giornalisti, perché dopo aver conosciuto i nuovi politici mi sono scoperto a rimpiangere i vecchi! Io ricordo un Poletto che tentava (pur con tutti i vincoli di spazio e di linea editoriale) di approfondire le ragioni del no, persino le ragioni e i torti delle violenze che in anni lontani ma vicini furono assai più subite che “perpetrate” da cittadini inermi nei confronti dei battaglioni antisommossa inviati nelle Gallie “a spegnere i focolai di rivolta popolare”. Ma questa volta testo e titolo narrano di una “svolta ecologista” del movimento No Tav: «quest’opera ruberà il futuro ai nostri figli». Non me ne voglia la giovane Irene (anche nelle vallate alpine è arrivato internet e dalla foto visibile sul sito del giornale che l’ha inviata nel profondo nordovest si desume che non sia della generazione di Oriana Fallaci) perché è col suo attempato collega che me la prendo: ma come fa uno che ci segue da decenni e che ci ha spesso intervistato mettendoci la faccia ad affermare che ci sarebbe stata “una svolta in direzione di Greta” in un movimento popolare nato dallo storico ambientalismo valsusino di Mario Cavargna (che fondava Pro Natura quando Legambiente e WWF non esistevano ed Ermete Realacci & Chicco Testa non erano neanche nati, né se ne sentiva la mancanza)? Quando a svelarci che il partito del tondino e del cemento stava (quello sì) svoltando dai trafori autostradali ai megatunnel ferroviari (verniciati di verde) fu un certo Alex Langer a Trento a settembre del 1989, giusto 30 anni fa (https://volerelaluna.it/tav/2019/10/13/correva-lanno-1989-alex-langer-le-alpi-le-grandi-opere/)?

Ma le fonti, vivaddio, le fonti! Non ha niente da dire Anna Masera, la garante dei lettori del quotidiano fondato da Alfredo Frassati? Non c’era bisogno di leggersi le centinaia di titoli di autorevoli, documentati e disinteressati studiosi che hanno scritto di noi in tre decenni; bastava rovistare nelle pagine social No TAV sotto il logo de Il Grande CortileAmbiente ValsusaPresidio EuropaDemocrazia-km0 per “scoprire” che abbiamo appena rievocato l’intuizione del grande eco pacifista sudtirolese in difesa dell’ecosistema alpino da ogni sorta di tunnel e dal folle traffico di transito; e che lo abbiamo fatto grazie a chi gli subentrò nell’europarlamento e ne prosegue tuttora la missione nella fondazione: il prof. Gianni Tamino, docente di Biologia Generale e di fondamenti di Diritto Ambientale e del corso di specializzazione in bioetica all’Università di Padova e membro del Comitato Nazionale sui rischi biologici presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (https://www.facebook.com/notes/il-grande-cortile-no-tav/alex-langer/2448271395421142/). Come si deduce dai suoi titoli, Tamino si occupava – scientificamente – di ambiente quando ancora non si tentava di strumentalizzarlo a scopo di business come fanno adesso molti vecchi arnesi della politica e giovani affaristi che cercano – loro sì – di afferrare le treccine di Greta Thumberg per strumentalizzarne la straordinaria determinazione oltre che la tendenza che suo malgrado le ruota attorno (https://volerelaluna.it/tav/2019/12/03/chi-applaude-greta-e-vuole-il-tav-non-la-racconta-giusta/).

Eppure solo il giorno prima Luigi La Spina, storico editorialista del quotidiano sabaudo, mai tenero (anzi) col popolo No TAV, si era lasciato andare a scrivere un po’ di righe francamente inaspettate dato l’abituale livore: «sarebbe una falsità e ingiustizia identificare il movimento che da oltre 30 anni si batte contro l’alta velocità ferroviaria Torino Lione con le frange violente che purtroppo lo hanno strumentalizzato fino al punto di egemonizzarlo nella immagine mediatica nazionale. Anche i più convinti fautori dell’opera dovranno ammettere che la partecipazione popolare dei valsusini a tanti cortei che si sono svolti in questi anni è stata ampia […] e caratterizzata da connotazioni ambientaliste con un anticipo temporale significativo rispetto alla consapevolezza attuale». Certo, una specie di onore delle armi “a bandi banditi”, accontentandosi (bontà sua) che si appaltino i 57km (su 270) del tunnel di base di interesse francese pagato con soldi prevalentemente italiani ed europei. Un riconoscimento dell’utilità della protesta e degli studi indipendenti per il miglioramento del progetto (che denota tra l’altro come la costante di tanti editorialisti sia la non conoscenza del peggioramento che ogni soluzione progettuale ha portato con sé dagli anni Novanta a oggi e dei tanti soldi pubblici impiegati nell’oneroso adeguamento della linea esistente).

Evidentemente, a numeri dell’adesione all’ultima manifestazione noti, è prevalsa la paura: i No TAV son tornati (non siamo mai andati via, ma han finito per crederlo loro stessi a forza di aderire alla narrazione commissionata dai poteri forti che di ogni Governo han fatto l’uso che si fa del maiale: non se ne butta niente). E infatti tutti i giornaloni, di destra estrema come di centrodestra (di sinistra non ce ne sono più, perché non c’è più la stessa area di riferimento) ammoniscono: Game Over, i giochi sono finiti, i bandi son banditi, toglietevi dalla testa che il ritorno della gente nelle piazze (o la permanenza nelle strade di una vallata alpina) possa cambiar le cose nei palazzi, dove si ratificano le scelte della finanza internazionale.

Già, ma fino a quando? Fino a che di Venezia resterà fuori solo il campanile di San Marco (anche grazie al soccorso green promesso da una ex ministra della guerra salita al soglio di Strasburgo)?

Claudio Giorno

12/12/2019 volerelaluna.it

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