Il virus e i senza dimora. Che fare?

La crisi sanitaria ha evidenziato la necessità della riforma “concettuale” che il sistema di accoglienza delle persone senza dimora richiede da decenni. Pensare la marginalità sociale attraverso il prisma di questa crisi può servire a decostruire le logiche emergenziali e/o caritatevoli su cui si basa tale dispositivo: queste, come sottolineano gli operatori di prima linea, ostacolano la pianificazione di strategie sul lungo periodo e finiscono con l’alimentare il circolo vizioso dell’indigenza. I dormitori notturni rappresentano l’esempio perfetto di soluzioni tattiche che, pur rispondendo al problema nell’immediato, ne posticipano ad oltranza una risoluzione sistemica. Il testo che segue riprende una riflessione comune tra ricercatori in scienze sociali e operatori di prima linea, che attraverso le reciproche esperienze cercano di comprendere blocchi e disfunzionamenti delle politiche di assistenza e di immaginare percorsi di cambiamento. Abbiamo cercato di rispondere, senza alcuna pretesa di esaustività, a tre interrogativi che, emersi con più urgenza da tale riflessione comune, ci permettono di affrontare i principali nodi teorici della questione.

Perché è stato così difficile trovare soluzioni abitative per le persone senza dimora durante il lockdown?

Si potrebbe pensare che basti individuare delle strutture vuote, aprirle e “mettere le chiavi in mano” alle persone senza casa per risolvere il problema: questo di certo funzionerebbe per una parte di loro, ma non per tutti. Alcuni hanno bisogno non solo di un tetto, ma di una vera e propria presa in carico, il che implica la gestione di problemi di ordine economico, sociale e sanitario. Allora, al fine di garantire una convivenza che risulti sicura e sostenibile per tutti, sarebbe necessaria la presenza regolare di un’équipe che assicuri:

1) La gestione della routine quotidiana che, a causa del divieto di uscire, risulterebbe sconvolta. Normalmente, la giornata di un senzatetto è scandita e riempita da varie attività legate alla sopravvivenza: queste sono svolte per lo più nello spazio pubblico e richiedono un certo “savoir-faire” sviluppato con l’esperienza. Col confinamento le persone dovrebbero reimparare a svolgerle in un contesto a cui non sono più abituate e ad occupare il tempo rimanente (ad esempio, a causa dell’eliminazione degli spostamenti a piedi da un lato all’altro della città) senza riempirlo con delle attività che complicherebbero la convivenza e lo stato di salute (consumo di sostanza etc.).

2) La gestione delle relazioni interpersonali e dei conflitti tra gli ospiti.

3) Il rifiuto di alcuni di seguire le direttive sanitarie.

4) La gestione dei problemi personali, alcuni precedenti alla perdita della casa, altri sopraggiunti o peggiorati in seguito (alcolismo, tossicodipendenza, comportamenti violenti o che rendono difficile la convivenza sociale, malattie mentali e non, abitudini igieniche, …).

5) Un presidio medico, o almeno infermieristico, sia per assicurarsi che questi luoghi non diventino dei focolai di Covid-19, sia per gestire il resto delle problematiche psicologiche e fisiche che le persone, uscite dallo stato di anestetizzazione legato alla sopravvivenza (non sentire il dolore, l’angoscia, etc..) comincerebbero ad esprimere: molti operatori sociali mettono in guardia da un cambiamento troppo repentino, che per gli individui senza casa da molti anni, può’ causare gravi scompensi psicologici e fisici.

Per essere in grado di rispondere a situazioni d’emergenza come è stata quella del COVID-19, le istituzioni dovrebbero quindi mettere le associazioni nelle condizioni di andare oltre la semplice gestione quotidiana dei bisogni primari dei senzatetto. 

Diverse realtà, tra cui “Casa Don Andrea Gallo”, sono riuscite negli anni a mettere in pratica questo tipo di accompagnamento, più o meno sostenuti dalle istituzioni. Un sostegno tanto più necessario in quanto l’implicazione degli ospiti in un percorso comune è una sfida che richiede tempo ed energia. Siamo d’altra parte convinti che sia proprio attraverso la collaborazione con tali realtà che le amministrazioni locali possano attuare le soluzioni più adeguate per far fronte, razionalmente e umanamente, ad una crisi sanitaria come quella che stiamo attraversando. Risulta quindi evidente che l’estrema difficoltà in cui ci si è trovati è in parte legata al dover far fronte ad una crisi all’interno di un contesto in cui la crisi è l’ordinario.

Quali sono i limiti di attivare nellurgenza dei servizi essenziali?

Prendiamo un esempio concreto: il servizio docce, che in alcuni comuni è stato attivato per una o due volte a settimana. Sicuramente si tratta di un’iniziativa indispensabile, al di là del contesto specifico di emergenza sanitaria. La possibilità di lavarsi è un fattore determinante nel campo della salute pubblica, ma anche per la preservazione di quel “decoro urbano”, tanto caro a una certa politica, che riduce la questione della marginalità sociale a un problema di immagine. Inoltre, non solo il prendersi cura del proprio corpo è una pratica altamente simbolica e base fondamentale del benessere psicofisico, ma è anche la condicio sine qua non per poter svolgere un’attività lavorativa.

Tuttavia, per mantenere un livello di igiene soddisfacente, è necessario lavarsi più d’una sola volta a settimana … E questo vale anche per chi dispone di uno spazio privato che possa essere mantenuto pulito, di servizi igienici, di vestiti di ricambio e della possibilità di lavarli, etc. Ciò che non è sufficiente per chi ha una casa, come può esserlo per chi vive per strada?

Il punto allora è che c’è differenza tra la “nostra” doccia e la “loro”: questa differenza si manifesta nelle modalità in cui il servizio viene organizzato, ma è radicata nella differenza di significato che diamo al termine quando ci riferiamo a “noi o a “loro”, che consideriamo de facto “altri”. Dobbiamo essere coscienti della natura dei servizi che vengono offerti per misurare la distanza che li separa da quelli che pretendiamo per noi e, quindi, coglierne i limiti: nessuno prende in considerazione la dimensione del “piacere” di farsi una doccia quando viene organizzato questo servizio per le persone senza casa. Come in una catena di montaggio, i corpi sono ridotti a “oggetti” da ripulire con gesti veloci e sommari: non c’è il tempo per massaggiare una parte del corpo dolorante, per rilassarsi sotto l’acqua calda, … Ovviamente noi non entriamo in merito alla gestione strettamente sanitaria legata alla situazione epidemica, su cui è necessario attenersi ai protocolli redatti da esperti in materia; noi riflettiamo sul fatto che tali protocolli “di emergenza” si sono applicati a dei servizi che sono già quotidianamente gestiti in un’ottica emergenziale, cioè ridotti al minimo indispensabile, secondo il principio del “poco è meglio di niente”. Certo, bisogna sempre fare i conti con le risorse limitate di cui si dispone, ma si tratta trovare il modo migliore di impiegarle!

In secondo luogo, i servizi doccia dovrebbero essere gestiti da operatori che, conoscendo i bisogni di tale pubblico e riconoscendone l’eterogeneità, siano in grado di anticipare e gestire gli inevitabili problemi e gli eventuali conflitti. Capiamoci, non è certo negativo che delle persone senza esperienza decidano di venire in aiuto a chi è in condizione di vulnerabilità. Tuttavia è necessario essere vigilanti perché improvvisare delle azioni senza conoscere le situazioni su cui si andrà ad operare, potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio : nel cercare di risolvere un problema, si rischia – senza volerlo – di crearne altri. Inoltre, gli inevitabili risvolti negativi di un’esperienza in cui la buona volontà delle persone non è guidata dall’esperienza, potrebbero portare tutti – istituzioni, volontari e cittadinanza – a colpevolizzare gli utenti del servizio accusandoli di essere “ingestibili”, “incivili”, “ingrati”, “irrecuperabili”, …  Si tratta di una reazione comprensibile, ma autoassolutoria, che ostacola la riflessione necessaria ad adattare le proprie pratiche al pubblico cui sono rivolte. Ad esempio, l’assenza o inadeguatezza dei cestini della spazzatura (pochi/piccoli/mal posizionati) concorre al degrado dei luoghi; … Prendiamo a titolo di esempio due dei diversi nodi problematici che caratterizzano la gestione di un servizio docce: le tempistiche di utilizzo e l’organizzazione della fila d’attesa.

Per quanto riguarda il primo punto, è chiaro che in base al numero di richiedenti e a quello delle docce disponibili, potrebbe essere necessario imporre delle misure un po’ strette: in molti casi, per l’appunto, i servizi doccia organizzati per i senzatetto durante il confinamento prevedono 15 minuti per ogni utente. Ora, è innegabile che un quarto d’ora per svestirsi, lavarsi e rivestirsi sono pochi, d’altra parte è un tempo accettabile per delle persone giovani e in buona salute.

Il problema è che i senza dimora non sono tutti giovani e ancora meno in buona salute, anzi una buona parte di essi si trova in uno stato psico-fisico degradato. Ad esempio, è abbastanza comune incontrare persone con piaghe mal cicatrizzate e/o infette o magari anziani con artriti o artrosi. Per questi soggetti il solo togliersi i vestiti è un’operazione che richiede attenzione perché può diventare dolorosa e rischiosa da un punto di vista sanitario. In questi casi non solo 15 minuti non bastano, ma è l’intera organizzazione del servizio a risultare inadeguata: servirebbe un dispositivo dotato di appositi sostegni e di personale sanitario che prevenga il rischio di infezioni. Pretendere un certo grado di autonomia da chi non è nelle condizioni di esercitarla equivale a lasciarlo nell’abbandono e degradare il servizio anche per chi è invece potrebbe servirsene, nonché per chi deve gestirlo (cattivi odori, sporcizia, aggressività,…). È necessario guardare al di là dell’omogeneità interna che la categoria di “senza-tetto” suggerisce: vanno differenziati i servizi e ne vanno aperti di specifici per le persone più vulnerabili.

Inoltre, ci sembrerebbe interessante inserire il “momento” della doccia all’interno di una strategia più ampia che, per quanto ancora legata a una logica di emergenza, miri ad uscirne. L’azione potrebbe svilupparsi allora su vari fronti: uno potrebbe essere di integrare servizio docce con la con la distribuzione di strumenti che permettano di migliorare il mantenimento dell’igiene personale nel quotidiano. Ad esempio, si potrebbero mobilitare delle équipe miste (di designer, operatori e socio-antropologi) per progettare dei kit da toilette quotidiana che, per formato e contenuto (dentifricio e spazzolino, salviette umidificate, sacchettini per i rifiuti, …), siano adatti a tal pubblico. Un altro fronte d’azione potrebbe riguardare “l’umanizzazione” del contesto attraverso l’introduzione di piccoli accorgimenti, poco dispendiosi e di valore più simbolico che pratico, che possano migliorare la relazione delle persone al servizio. Ad esempio, offrire una scelta tra due bagnoschiuma, organizzare due spazi intermedi – uno prima e uno dopo i locali docce – dove le persone possano, nel rispetto del distanziamento sociale, sedersi qualche minuto per sistemare le proprie cose, potersi specchiare, … sono dettagli che diamo così per scontati nel nostro quotidiano, che abbiamo perso la percezione della loro importanza.

La fila è un altro punto caldo, in quanto una gestione approssimativa favorisce lo scatenarsi di episodi di violenza. Infatti, all’insofferenza che caratterizza sempre l’attesa, si sommano: la situazione problematica in cui versa una parte dell’utenza e che può tradursi in comportamenti indisciplinati, la situazione di stress psicologico legata alla crisi sanitaria e, ovviamente, la necessità di garantire il distanziamento: la soluzione più evidente è di diminuire l’affollamento aumentando la disponibilità di servizi. Una sovra-sollecitazione puntuale è molto più difficile da gestire per gli operatori e più complicata da vivere per il pubblico che un flusso basso e costante. In contesti in cui la domanda è forte, il ricorso alle docce crea delle situazioni sgradevoli e stressanti, tali da spingere alcune persone a rinunciarvi.

Lo stanziamento di risorse resta dunque prioritario, ma alcuni accorgimenti possono contribuire a migliorare la situazione. Tali interventi potrebbero essere di due tipi: da una parte, si tratterebbe di diminuire il tempo d’attesa: ad esempio, si potrebbero organizzare delle fasce orarie a cui assegnare le persone che si “prenoterebbero” semplicemente dando un nome, poco importa se vero o di fantasia.  Dall’altra rendere l’attesa più sopportabile, rendendo gli spazi più accoglienti e offrendo soluzioni per “occupare il tempo”. Si tratterebbe di piccole accortezze, le stesse che troviamo dal medico: allestire uno spazio in cui sedersi mantenendo le dovute distanze, prevedere un piccolo rinfresco all’esterno (caffè, acqua, thè, biscotti). Questo modo di reinvestire il tempo e lo spazio dell’attesa permetterebbe, tra l’altro, di sfruttare il momento per trasmettere informazioni di prevenzione o di altro genere.

Come far evolvere la logica di intervento verso progetti a medio-lungo termine?

La prima mossa, indispensabile per trovare delle risposte efficaci, consiste nel mettere in discussione quegli aspetti della realtà che si pongono ai nostri occhi come evidenze naturali e rassicuranti, ma che mascherano la complessità del mondo e ci impediscono di comprenderlo.

La prima delle “false certezze” da minare è che i senzatetto siano una categoria omogenea, i cui membri hanno gli stessi bisogni e che può quindi essere oggetto di interventi uniformi. Le persone senza dimora non sono più simili tra loro di quanto lo siano quelle che una casa ce l’hanno! Al contrario, sono gli interventi che regolano l’esperienza di vita per strada che, presupponendo una certa uniformità di bisogni, concorrono ad appiattire le differenze. Allora, prima di progettare qualunque gestione del “problema” dobbiamo rendere ai soggetti la loro individualità. Questi, come dice Robert Castel, in comune non hanno che una cosa : il non sapere di cosa sarà fatto il domani, l’assenza di quello zoccolo minimo di risorse che consente a un individuo di essere autonomo e sentirsi in sicurezza. Non possiamo stabilire, noi e a priori, quali siano i bisogni che meritano di essere soddisfatti o gli obiettivi per raggiungere i quali le persone meritino aiuto: il punto è fare in modo che ogni individuo possa partecipare a questa definizione integrandola in  un progetto di sé sul lungo periodo. Il primo passo in questa direzione è riflettere insieme a nuove forme di partecipazione in cui ognuno possa esprimersi e contribuire alla co-gestione dei servizi in base alle proprie possibilità.

Una seconda falsa certezza da smantellare è quella che tende a considerare l’esistenza dei senzatetto (e della povertà in generale) come inevitabile. E’ a partire da questo presupposto che la postura morale verso i poveri spesso si riduce a due estremi: vittimizzazione o colpevolizzazione.  Sulla povertà possiamo agire: certo si tratta di un problema sistemico e eliminarla implica necessariamente un cambiamento radicale del mondo in cui viviamo; ma, nell’attesa che ciò accada, resta comunque possibile mitigarne le conseguenze agendo sui modi in cui viene affrontata. Alcune realtà stanno già percorrendo questa strada: la crisi sanitaria, mettendo a nudo le insufficienze del sistema attuale, ha stimolato l’elaborazione di soluzioni nuove, più idonee e che rappresentano un passo avanti nel superamento della logica dell’assistenzialismo.

Una prima proposta pratica consiste nello sviluppo di soluzioni abitative che consentano all’individuo di ricostruirsi e reintegrarsi nella società attiva. D’altra parte, come abbiamo accennato, è necessario andare oltre l’imperativo di una “integrazione” che passi esclusivamente per un alloggio privato e un impiego: questa infatti esclude sistematicamente coloro che, a causa dell’età avanzata o di altre problematiche, non riusciranno a trovare un lavoro; e coloro per cui la gestione di un alloggio individuale va al di là delle possibilità o implicherebbe una condizione di isolamento ulteriore. Dobbiamo pensare ad altri tipi di soluzioni, che permettano alle persone di vivere in modo dignitoso senza trattarli da meri fruitori/sfruttatori dei servizi: cosa che loro per primi non desiderano essere, ma che finiscono con il diventare. Per esempio, si potrebbe puntare di più sulle strutture semi-collettive, con diversi tipi di assistenza socio-sanitaria e di coinvolgimento degli ospiti nel mantenimento della struttura e nello svolgimento di attività per la comunità: molte persone troverebbero una via di gratificazione e ripristino della propria salute nel rendersi utili in ambiti in cui possono esprimere la propria competenza. Perché queste possano svilupparsi, tuttavia, serve la volontà politica di scommettere sulla validità di tali soluzioni, il cui impatto andrebbe valutato sul lungo periodo, al fine di poterne apprezzare l’efficacia in termini di spesa sanitaria pubblica, di pace sociale e benessere per l’intera comunità cittadina.

Lo ripetiamo: non stiamo presentando soluzioni già pronte, da applicare in modo automatico in ogni situazione, ma proposte da discutere insieme a operatori e utenti, secondo modalità che restano ancora da immaginare, per adattarle ai differenti contesti.

Una cosa è certa, non possiamo rimandare la discussione e la messa in opera di interventi di questo tipo perché siamo di fronte all’avanzare di una recessione che, con tutta probabilità, sarà molto violenta: i senzatetto potrebbero aumentare considerevolmente, creando non più solo “disagi”, ma mettendo in crisi la sicurezza della comunità. Lasciare i partiti xenofobi e populisti capitalizzare questa crisi per i loro scopi elettorali significherebbe lasciare che il problema si esasperi fino a scatenare una guerra tra poveri in cui tutti avranno da perdere.

In ultimo, ci sembra importante sottolineare la necessità di sviluppare una vera e propria coordinazione che integri e metta in relazione le varie realtà locali e sovralocali, al di là dei differenti approcci e degli specifici campi di intervento (pubblico femminile, minori, migranti…; guardaroba sociale, drop-in, unità mobile, …).  Tale struttura dovrebbe essere in grado, in primis, di far circolare le informazioni in tempi rapidi a tutti gli attori e coordinare le diverse realtà in modo da evitare lo sperpero di energie (sapere chi sta già facendo cosa e di cosa c’è bisogno in un momento preciso, così da permettere di rispondere in modo rapido e pertinente); in secondo luogo, di permettere gli scambi e la riflessione comune su pratiche di intervento; infine, di fungere da ponte tra realtà associative e istituzionali per permettere una negoziazione con le amministrazioni territoriali.

Del resto, siamo convinti che, quali che siano le iniziative prese, perché perdurino nel tempo, esse debbano scaturire da una negoziazione collettiva che implichi tutti gli attori che ne sono in qualche modo toccati : utenti dei servizi, cittadini, operatori, amministratori locali e non, …  Si tratta di un compito delicato e non sempre facile, ma il periodo di “emergenza nell’emergenza” che viviamo, dal momento che obbliga a riconsiderare le priorità e ammorbidire le posizioni, può contribuire a dare il via a questa dinamica.

Casa Gallo (Associazione Rumori Sinistri), Matteo Fano (CNE, Marseille) e Carlotta Magnani (CNE, Marseille)

7/12/2020 https://comune-info.net

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