In che direzione va la nuova riforma fiscale

Dopo l’approvazione definitiva alla Camera dei Deputati con 184 voti favorevoli e 85 contrari, il 4 agosto 2023 la delega fiscale voluta dal governo di Giorgia Meloni è diventata legge. La premier la definisce una “riforma strutturale e organica, che incarna una chiara visione di sviluppo e crescita e che l’Italia aspettava da 50 anni”.

Tra i provvedimenti principali c’è la riforma dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF), uno dei più complessi e costosi: prevede inizialmente una riduzione delle aliquote, da quattro a tre, per poi andare verso una “flat tax”, cioè un’imposta unica, che andrebbe a sostituire l’attuale sistema basato sugli scaglioni. Si passerebbe quindi a un’aliquota unica uguale per tutti invece del sistema progressivo che abbiamo oggi, per cui a reddito inferiore corrisponde aliquota inferiore. Secondo Meloni, la riforma garantirà “meno tasse su famiglie e imprese, un fisco più giusto e più equo, più soldi in busta paga e tasse più basse per chi assume e investe, procedimenti più semplici e veloci”.

Sarà davvero così? Il governo Meloni ha realmente dato il via, con questa riforma, a una politica fiscale redistributiva? La redazione risponde ad alcune domande sugli ultimi provvedimenti presi dal governo.  

Possiamo considerare le misure di questa delega fiscale, volte, secondo la premier, ad abbassare le tasse per imprese e cittadini, come l’espressione di una politica fiscale tipica della destra?

La politica fiscale di questo governo – decisioni di spesa e decisioni di tassazione – è decisamente di destra, nel senso che è a vantaggio di una parte della popolazione che tradizionalmente sostiene i partiti che ora sono al governo: professionisti, artigiani, commercianti, piccoli proprietari. Un esempio: il governo ha aumentato a 85.000 euro l’anno il limite del reddito per i lavoratori autonomi che pagano un’imposta fissa sul reddito (IRPEF) pari al 15%. Per i lavoratori dipendenti che guadagnano la stessa cifra annua, la tassa è più del doppio, contro ogni principio di equità fiscale.

Di fatto, nonostante le parole, la riforma fiscale proposta dal governo Meloni non contiene niente di serio per combattere l’evasione fiscale, che nel nostro paese è intorno ai 100 miliardi di euro; circa l’84% dell’IRPEF raccolta dallo Stato proviene dal lavoro dipendente e dai pensionati.

È una politica che trova precedenti in altri governi di destra in Europa come per esempio in quella di Orbán, che tende a privilegiare le famiglie della classe media e medio-alta. Se abbiamo visto chi è che ne benificia, chi ne farà le spese? Meloni da un lato afferma di voler aiutare le famiglie, ma dall’altro taglia misure di contrasto alla povertà come il reddito di cittadinanza. 

Vengono fatte promesse di riduzione delle tasse per tutti, che non potranno essere mantenute. È da notare che il governo si sta preoccupando di trovare fondi per la riduzione del cuneo fiscale essenzialmente come contrapposizione alla proposta di introduzione del salario minimo, che, se, da un lato, non è una panacea per il lavoro povero e presenta dei problemi, è tuttavia un’irrinunciabile indicazione di civiltà e di rispetto per i lavoratori e le lavoratrici, e sappiamo che protegge in particolar modo donne, giovani e migranti.

Nel frattempo, sul fronte della spesa già si tagliano (e si dovranno tagliare ulteriormente) le spese per la sanità, che è in grave difficoltà, i trasferimenti ai comuni, il reddito di cittadinanza.

La tassa sugli extra-profitti delle banche viene interpretata da alcuni come una “tassa Robin Hood”… 

Questa misura non tassa il profitto complessivo delle banche (il che potrebbe essere giustificato), ma solo la parte eccedente una certa differenza tra tassi attivi e passivi, cioè i tassi che le banche pagano ai correntisti, che sono rimasti gli stessi a fronte dell’aumento dei tassi sui prestiti. Questo però lascia aperta la possibilità per le banche, per esempio, di trasferire sui correntisti e sulle commissioni il costo della tassa. Se fossero tassati tutti i profitti questo non sarebbe possibile.

… Altri, invece, la vedono come un intervento che andrà a punire individui e famiglie con mutui “normali”. Quali effetti avrà?

Questo tipo di tassa incoraggia le banche a remunerare i depositi, quindi i risparmiatori lasceranno i soldi nel conto corrente nelle banche invece di comprare titoli di stato del nostro enorme debito pubblico, come stanno facendo; il debito pubblico è più sicuro nelle mani dei risparmiatori – poco inclini alla speculazione – o delle banche?

I proventi della tassa dovrebbero aiutare chi ha contratto un mutuo a tasso variabile e che quindi ora deve pagare molto di più, dato che i tassi sono aumentati. Ma chi ha preso un mutuo a tasso variabile ha pagato finora di meno rispetto a chi lo ha preso a tasso fisso. Ovviamente c’era un rischio. Chi ha pagato di più per avere la sicurezza di avere una rata del mutuo che non varia nel tempo, ora si sente truffato. La domanda da porsi è perché si aiuta chi ha rischiato e finora ci ha guadagnato e non chi invece è stato prudente. 

Infine, si tratta di una tassa una tantum, su cui non si può fare affidamento per coprire riduzioni permanenti di tasse o aumenti di trasferimenti per sostegno al reddito.

Annalisa Rosselli, Annamaria Simonazzi

23/8/2023 https://www.ingenere.it

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