INFORMAZIONE E MILITANZA

Le frasi di Paolo Corsini – direttore degli approfondimenti Rai – ad Atreju hanno fatto discutere molto e ancora di più arrabbiare molti. Non si capisce se sia stata ritenuta più grave la parola “noi” riferito a Fratelli d’Italia o l’attacco alla Schlein per non essere andata ad Atreju.

Sinceramente non sono scandalizzata da nessuna delle due frasi. Scandalizzata dalla volgarità degli attacchi, dei toni e dei modi invece sì. Ma la volgarità non sembra suscitare più nessuna reazione, da parte di nessuno.

Non sono scandalizzata perché sono cresciuta e mi sono formata in un’epoca in cui la militanza – e l’appartenenza – a un partito o a un movimento o semplicemente il credere fortemente in un’idea – o in un ideale – era cosa non solo normale, ma rivendicata. Il punto è che allora proprio in nome di quelle idee e di quelle appartenenze si difendeva non solo il ruolo e la funzione di un servizio pubblico radiotelevisivo, ma si lottava perché l’informazione, e la comunicazione, tutta – e non solo quella della Rai – fosse all’altezza del suo ruolo di “servizio pubblico”, e cioè completa e plurale, tale da poter essere strumento di formazione di coscienza critica e di conoscenza. Non certo “obiettiva” – definizione vuota di senso dietro la quale si nasconde la vera parzialità – ma comprensiva dei “tanti punti di vista” e delle tante “parzialità”. Forse sarebbe utile andarsi a rivedere “Rashomon” di Kurosawa, a proposito di obiettività.

Sergio Zavoli era notoriamente socialista, ed è stato tra i più grandi giornalisti della Rai e forse uno degli ultimi grandi Presidenti del Servizio pubblico. E così giornalisti, dirigenti, direttori generali e presidenti quali Roberto Morrione, Angelo Guglielmi, Mimmo Scarano, Paolo Grassi, Massimo Fichera, Sandro Curzi, Giovanni Minoli, Lucio Manisco, Marina Tartara, Roberto Zaccaria e tanti, tantissimi altri. Socialisti, comunisti, democristiani: tutti pubblicamente impegnati nei loro partiti o nelle loro “aree” politiche e tutti – ciascuno a suo modo – hanno fatto sì che la Rai fosse realmente “servizio pubblico”. E percepita come tale.

Allora il punto qual è, oggi? I punti sono tanti.

Uno è che oggi il mercato ha vinto in tutti e su tutto – anche nella cultura e nella comunicazione – cancellando di fatto il senso e la funzione di “servizio pubblico”. Centro destra e centro sinistra hanno la stessa idea del ruolo della Rai, della sua necessità di stare e “competere” sul mercato della comunicazione rendendola di fatto – nella sua offerta così come nella sua struttura aziendale – indistinguibile dai privati. Negli anni la si è svuotata sempre più del suo ruolo “pubblico”, mettendola nelle mani di “manager” che con la cultura e la comunicazione non avevano nulla a che spartire e concentrando il potere decisionale in pochissime mani. Con l’idea e la consapevolezza dell’importanza enorme che hanno gli strumenti della comunicazione – e non solo dell’informazione – nella formazione del senso comune, nella costruzione dei sistemi di valore e per questo facendola diventare “terra di conquista”. Così non solo ad ogni cambio di governo ogni partito e/o ogni coalizione cambia i vertici della Rai, ma tutta la programmazione viene condizionata e indirizzata secondo gli orientamenti governativi del momento. Possono piacere di più quelli del centro sinistra che quelli del centro destra, ma il problema è lo stesso: un servizio pubblico che sia realmente pubblico deve essere lo specchio reale del paese reale, con tutte le sue complessità e tutte le sue culture “costituzionali”. Il che non vuol dire essere fuori dalla politica. Anzi.

Ancora, e forse il punto più importante. Il centro destra e il centrosinistra in questi anni hanno contribuito – coscientemente o meno – alla formazione di uno stesso sistema di valori, di uno stesso pensiero unificante e ormai tragicamente quasi unificato. Lo si è fatto quando si è cominciato a parlare dei “ragazzi di Salò”, a rallegrarsi per la vittoria della Dc nel 1948, a rinnegare l’idea stessa del socialismo e a definire il comunismo una “tendenza culturale”. Quando si è votato al Parlamento europeo l’equiparazione tra fascismo e comunismo. Quando si è deciso di sostenere e partecipare alle guerre della Nato rinnegando anche la nostra Costituzione.

Quando si sono fatte leggi elettorali che hanno di fatto eliminato la rappresentanza democratica in Parlamento tanto che quasi il 50 percento della popolazione non si riconosce nelle istituzioni e non va a votare.

Quando si è sposata l’idea della “sicurezza” portata avanti dalle destre, competendo sullo stesso terreno e con gli stessi valori: la sicurezza contro i poveri, contro le e gli immigrati – a meno che non fossero bianchi e biondi come gli Ucraini -, contro le minoranze, contro i movimenti.

Quando si è esaltata la precarietà del lavoro e si sono fatte leggi che hanno tolto ai lavoratori diritti fondamentali.

Quando, in competizione con la Lega, si è sostenuta l’autonomia differenziata che renderà le regioni povere sempre più povere e quelle ricche sempre più ricche, dismettendo nei fatti il ruolo di uno Stato “unificante” e solidale.

Quando si è pensato alla scuola non come luogo pubblico di crescita collettiva e individuale, ma come luogo competitivo finalizzato all’inserimento nel mercato del lavoro, così come richiesto dalle aziende. E quando si sono fatte leggi che hanno legato l’informazione e la produzione culturale ed artistica ai meccanismi del mercato trattandole come merci qualsiasi. Che vuol dire fine della possibilità di qualsiasi produzione di pensiero autonomo.

Quando si è sostenuta la “fine delle ideologie”, per far trionfare una sola ideologia, quella del mercato.

Quando si progettano misure in difesa delle donne insieme alle destre…

Quando si considera finito il pericolo fascista alla data del 25 aprile. Fascismo non è solo dittatura istituzionale, fascismo, cultura fascista, è l’ideologia della sopraffazione, della violenza fisica, verbale e culturale, dell’altro come nemico, dell’odio, dell’intolleranza, della repressione come soluzione dei problemi, delle guerre come soluzione dei conflitti, delle diversità come pericoli – tutte: culturali, religiose, della pelle, degli orientamenti sessuali -, delle “soluzioni individuali” invece che collettive, del populismo al posto della partecipazione, del decisionismo e del “comando”, delle ragioni del mercato e delle imprese contro i diritti e tantissimo altro ancora.

L’elenco potrebbe continuare a lungo in tutti i settori. Ma la sostanza è la stessa: l’eliminazione stessa del concetto di “sinistra”, della necessità e della possibilità stessa di cambiamento, la competizione con la destra sullo stesso terreno “culturale”, hanno contribuito attivamente alla delegittimazione di fatto e nei fatti del ruolo della politica e dei partiti come strumenti di crescita collettiva, di partecipazione e di democrazia. Per cui nessuno deve più dire da che parte sta. Per cui nessuno può più dire da che parte sta.

Allora: come mai vincono le destre?

Stefania Brai

Resp Cultura PRC-S.E.

19/12/2023 http://www.rifondazione.it/

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