Israele, ovvero il colonialismo del diritto

Quella che lo stesso Netanyahu ha definito operazione di «vendetta» contro la gente della Striscia di Gaza è l’ennesima violazione del diritto internazionale. Un tale svilimento delle regole avrà conseguenze difficili da immaginare

È successo pochissime volte nella storia recente che il mondo – opinioni pubbliche, governi, istituzioni internazionali – assistesse in diretta tv e social a una violazione tanto ampia del diritto internazionale nell’arco di un tempo così breve.

È trascorsa poco più di una settimana dal 7 ottobre scorso, dalla brutale e criminale azione di Hamas in territorio israeliano (1.400 uccisi, migliaia di feriti, un numero di ostaggi ancora indefinito, dai 199 dichiarati due giorni fa dal governo di Tel Aviv ai 220 rivendicati dal movimento islamico). Un’azione che, dicono in molti, ha il potenziale di cambiare il volto del Medio Oriente, di certo della questione israelo-palestinese; un atto terroristico nel momento in cui ha preso di mira una popolazione civile e non dei combattenti, secondo quanto dettato dalla legge internazionale di guerra e dalle norme che dettano le forme e le modalità della resistenza a un’occupazione illegittima.

Da quel momento la reazione del governo israeliano è stata definita, tramite le parole del primo ministro Netanyahu, un’operazione di «vendetta» contro un’altra popolazione civile, quella della Striscia di Gaza, già soggetta da decenni ad ampie e continuate violazioni del diritto internazionale – come il resto della Palestina storica. Bombardamenti indiscriminati contro civili, distruzione di abitazioni, scuole, ospedali, ambulanze, raid su presunti corridoi umanitari (che tali non sono, sono solo «vie sicure» indicate dal perpetratore stesso della violenza, senza alcun monitoraggio esterno), distacco dell’acqua, dell’elettricità e della rete Internet. Gli effetti sono visibili, in diretta tv appunto: oltre 2.800 morti, di cui due terzi donne e bambini, l’uccisione di decine tra giornalisti, medici e operatori umanitari, almeno 10 mila case del tutto demolite e altre 10 mila danneggiate, oltre un milione di sfollati su una popolazione totale di 2,2 milioni di persone.

La legge internazionale, maturata dopo la Seconda guerra mondiale, è chiara, inattaccabile. La Convenzione di Ginevra del 1949 detta le regole del diritto umanitario in guerra e vieta a tutti i belligeranti di colpire la popolazione civile, vieta la distruzione o l’appropriazione di proprietà, vieta gli attacchi su cliniche e strutture civili. E impone l’apertura di canali umanitari per la consegna di aiuti ai civili.Il diritto internazionale interviene anche nella definizione di «auto-difesa», invocata strutturalmente da Israele in ogni conflitto, dalla sua nascita nel 1948 a oggi, e sussunta dagli alleati occidentali. L’auto-difesa, prevista nel caso di attacco armato, non copre il ricorso a una forza sproporzionata e all’uso illimitato della violenza. Infine, l’impalcatura legale su cui si fonda il lavoro della Corte penale internazionale definisce i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità: tra questi, l’uccisione di civili, la deportazione o il trasferimento forzato di popolazione, la punizione collettiva della popolazione in risposta (o meno) ad atti criminali compiuti da una minoranza.

L’abuso originario e la disumanizzazione

Le violazioni che Israele sta commettendo contro la Striscia di Gaza – che sono rivendicate visto che la catastrofe umanitaria e la riduzione in polvere dell’enclave sono obiettivi dichiarati pubblicamente da ministri del governo Netanyahu – si inseriscono all’interno di un più ampio e strutturale abuso dei diritti umani e del diritto internazionale contro il popolo palestinese. Tanto strutturale che, dal 1948 a oggi, le Nazioni Unite hanno emesso innumerevoli risoluzioni contro le pratiche israeliane, risoluzioni che mai hanno condotto a punizioni, sanzioni o isolamento.

Fin dalle sue origini Israele ha fondato sé stesso e la sua entità statuale sulla violazione permanente del diritto internazionale: l’espulsione forzata dell’80% della popolazione palestinese presente in Palestina nel 1948 (riconosciuta come pulizia etnica), il mancato ritorno a casa dei rifugiati, l’occupazione militare, l’assedio di Gaza, la costruzione del Muro, l’espansione coloniale, solo per citare gli abusi più imponenti, a cui si aggiungono punizioni collettive, sistema legale militare, uccisione di civili.

Una simile mole di violazioni, formando  una rete che coinvolge potere esecutivo, giudiziario, militare e relazioni diplomatiche, ha radici nazionalistiche – l’obiettivo di realizzare il progetto del movimento sionista, la creazione di uno Stato ebraico dal fiume al mare – che si scontrano con la realtà sul terreno, la presenza di un altro popolo che non rientra nelle caratteristiche di quello desiderato. In tal senso risultano chiarificatrici  le parole del ministro della Difesa Yoav Gallant che due giorni dopo l’attacco di Hamas – invece di dimettersi per il plateale fallimento del suo esercito – ha definito i palestinesi «bestie dalle sembianze umani» e dunque meritevoli solo di distruzione e morte e della privazione di «elettricità, cibo, carburante, di tutto». Le sue parole non sono dettate solo dalla furia e dalla rabbia (comunque inadatte al rappresentante di un governo e al responsabile di un esercito), ma sono l’espressione di un pensiero che accompagna da decenni le politiche israeliane verso la popolazione occupata: la disumanizzazione dell’alterità, di quello che è percepito da una parte come nemico immeritevole del riconoscimento di pari diritti, dall’altra – e questo riguarda l’intero occidente statuale – come blocco monolitico, senza sfumature. Insomma, Hamas sono i palestinesi, i palestinesi sono Hamas, dunque vanno puniti tutti.

Una struttura coloniale globale

Tale narrazione e la sua applicazione pratica hanno effetti dirompenti a fronte di un processo crescente interno alla comunità internazionale, un multipolarismo che negli ultimi anni ha visto l’emersione politica di potenze non occidentali sul teatro globale.

Le piazze piene delle città del cosiddetto sud globale in solidarietà con il popolo palestinese sono state oscurate da molti media internazionali ma non possono essere ignorate. A quel pezzo di mondo la palese impunità israeliana manda un messaggio chiaro, lo stesso che fu inviato con l’occupazione illegale dell’Afghanistan e dell’Iraq dopo l’11 settembre 2001: l’applicazione del diritto internazionale non è neutra, le regole che il pianeta si è dato dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale sono piegabili a interessi di parte. Siamo tutti uguali, ma qualcuno è più uguale.

Il messaggio più pericoloso che emerge dall’attuale operazione militare contro la Striscia di Gaza è che esiste ancora una struttura coloniale globale, che opera sotto diverse forme – neocolonialismo economico, avanzata della teoria e delle pratiche neoliberiste, distinzione delle persone su un piano etnico e religioso quando si tratta di riconoscere diritti di movimento, di emigrazione e di futuro – ma che è tanto più potente e distruttiva perché riduce le regole internazionali a uno strumento di egemonia.

Israele è paradigmatico. Il regime che ha costruito – un colonialismo di insediamento che è sfociato in apartheid – è il prodotto del colonialismo europeo di fine Ottocento e inizio Novecento e tale rimane. È l’unica colonizzazione diretta rimasta in territorio africano e asiatico, seppur in forma diversa: non lo sfruttamento di risorse locali e manodopera ma la sostituzione della popolazione indigena con la popolazione desiderata.

Gli ex poteri coloniali, attraverso il sostegno diretto o indiretto all’ultimo colonialismo regionale, ribadiscono l’esistenza di privilegi di nascita e del dominio bianco su nazioni e popoli non europei, un soggiogamento – di nuovo come due secoli fa – giustificato con la disumanizzazione del colonizzato, bollato come selvaggio, barbaro, bestiale, immeritevole di qualsivoglia movimento di liberazione. Nel caso del popolo palestinese, si traduce nell’idea che la sua mera esistenza sia da considerare un atto di violenza contro l’ordine costituito (si veda, come esempio, la criminalizzazione in Europa della bandiera palestinese e in Palestina la punizione collettiva della popolazione indigena).

Tale posizionamento è ulteriormente rafforzato dalla presenza palese di un doppio standard che non punisce le violazioni del diritto internazionale commesse contro i popoli afghano e iracheno ma è celere nella sanzione – giusta – di altre aggressioni e occupazioni illegittime, come quella russa in corso contro l’Ucraina.

La disumanizzazione del colonizzato, la sua razzializzazione, è l’humus sul quale si riproducono gli standard coloniali di stampo europeo e bianco. Quasi impossibili da scalfire perché costruiti su un approccio di superiorità culturale mai venuto meno, tanto radicato da dettare il discorso coloniale pubblico, politico e mediatico e da negare la spinta vitale e legittima al riconoscimento della libertà e dell’autodeterminazione di un pezzo di mondo. In tale contesto rientra la difficoltà ad affrontare l’ultimo terribile ciclo di violenze: la questione israelo-palestinese non nasce, agli occhi europei, un secolo fa ma è apparsa all’improvviso il 7 ottobre, un’esplosione immotivata che non ha passato né radici e che non rientra nel processo necessario – oggi più che mai – di una reale e giusta decolonizzazione.

Se è possibile violare in modo tanto esplicito e arrogante il diritto internazionale, questo non esiste più. O vale per tutti o non vale per nessuno. Gli effetti dello svilimento delle regole che il mondo si è dato settant’anni fa avranno conseguenze – le hanno già – difficilmente immaginabili e gestibili. Ridurre la legge comune a uno strumento di supremazia bianca e patriarcale su popoli e gruppi considerati subordinati (neri, migranti, donne, colonizzati) non può che generare forme di ripudio dell’altro e di ulteriore disumanizzazione. E di violenza.

Chiara Cruciati è vicedirettrice del manifesto. Ha scritto con Michele Giorgio Cinquant’anni dopo (Alegre, 2017) e Israele, mito e realtà (Alegre, 2018). Il suo ultimo libro, con Rojbîn Berîtan, è La montagna sola. Gli ezidi e l’autonomia democratica di Şengal (Alegre, 2022).

19/10/2023 https://jacobinitalia.it/

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