Italiani senza cittadinanza. La storia di Youssef

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Qui tutte le storie.

Youssef è un ragazzo di origine marocchina, ha 26 anni e vive a Bologna. Fa l’insegnante di sostegno e nel tempo libero fa l’attore in una compagnia teatrale attiva su tematiche sociali e interculturali.

Youssef è in Italia da 15 anni. Era il 2005 quando sua madre, con due figli piccoli, decise di lasciare il Marocco per dare una svolta alla loro vita cercando lavoro e stabilità in Europa. Il primo impatto con l’Italia è vivido nella memoria di Youssef, che all’epoca aveva 13 anni, e racconta:

Era Natale e c’erano molte luci. Conoscevo il Capodanno, ma era la prima volta che vedevo il Natale. È stato impressionante perché è stato come cambiare realtà e andare su un altro pianeta; era tutto diverso, gli odori, i sapori, le parole.

«Mi sentivo come un sordo-muto», prosegue, perché non capiva nulla di ciò che la gente diceva, era impotente rispetto alla realtà in cui si trovava.

Quando gli chiedo se sia mai stato oggetto di discriminazione, Youssef mi conferma che a scuola capitava che i suoi compagni utilizzassero un classico dell’offesa: “marocchino”, usato apposta non per definire la nazionalità ma colorando la parola di un significato dispregiativo.

Con questo escamotage, volevano farlo sentire inferiore, e lui a volte reagiva litigando con loro. «Ma si trattava di una minoranza» precisa Youssef, c’erano anche molte persone aperte che cercavano il dialogo e lo rispettavano.

Queste discriminazioni lo hanno fatto soffrire ma anche reagire. Era in una fase delicata della sua crescita, stava imparando una nuova lingua in un paese a lui estraneo, e questo atteggiamento lo ha spronato a imparare bene l’italiano: «Mi dava fastidio quando venivo offeso ma non sapevo rispondere. In un certo senso grazie a quelle discriminazioni ho avuto un motivo per rialzarmi».

Ora Youssef è cresciuto e parla un perfetto italiano, da far invidia a un ragazzo nativo, ma non ha la cittadinanza italiana e mi spiega il perché: «Sai come funziona l’iter, puoi avere la cittadinanza per sangue oppure per residenza di 10 anni, ma solo se soddisfi un requisito economico, che io ancora non raggiungo. Per cui mi tocca aspettare a richiedere la cittadinanza finché non trovo un lavoro che mi permetta di raggiungere tale soglia economica».

Youssef ha le idee chiare: secondo lui la cittadinanza è soprattutto un esercizio di diritti e doveri che una persona acquisisce quando nasce e/o vive un tempo lungo in un paese, magari frequentando il suo sistema scolastico, e non una questione di sangue. Ma è anche un discorso di cittadinanza attiva: partecipare attivamente alla vita politica, e di conseguenza avere il diritto di voto, di essere rappresentato ma anche avere la possibilità di diventare rappresentante nel paese in cui si vive.

Quando si parla di immigrazione, di seconde generazioni, di ius culturae e ius soli, spesso coloro che votano e decidono sono i meno toccati da questi temi.

Per questo Youssef non si sente rappresentato dalla politica attuale, perché, in una Repubblica parlamentare dove vige il mandato di rappresentanza, non ha mai scelto chi lo rappresenta: «Dal momento che non hai la possibilità di scegliere come fai a sentirti rappresentato? Sarebbe un paradosso!».

Come insegnante di sostegno ha a che fare con diverse situazioni che lo fanno riflettere. Ha notato, per esempio, che i ragazzi di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, subiscono un razzismo diverso rispetto alle prime generazioni. Chi è nato all’estero ed è venuto qua a una certa età, sviluppa nel tempo un’identità più salda e una visione più nitida di come si vede nel mondo, ha anche alcuni termini di paragone tra il mondo di qua e il suo paese di origine. Invece i ragazzi nati in Italia dovrebbero ottenere la cittadinanza fin dalla nascita, perché sentono di non appartenere né a qua né a là e secondo Youssef tutto ciò crea “dis-integrazione”.

Certo, ci sono poi anche dei risvolti molto pratici. La cittadinanza può essere l’accesso ad un altro diritto, quello alla libera circolazione nel mondo. Secondo il Passport Index il passaporto marocchino permette di entrare in 73 paesi senza dover richiedere il visto, contro i 171 Stati visitabili col passaporto italiano.

In qualità di insegnante, Youssef conferma che questa questione influisce molto sulla vita degli studenti, che per andare in gita con i compagni di classe o per partecipare a progetti internazionali sono costretti a richiedere il visto, con il rischio di non ottenerlo perdendo soldi e tempo.

Youssef è convinto che per migliorare la condizione delle nuove generazioni occorra riformare la legge sulla cittadinanza introducendo lo ius culturae e lo ius soli. Questa riforma può cambiare la prospettiva di vita ai ragazzi di origine straniera, che crescono con compagni italiani in un tessuto sociale che li influenza fortemente durante la loro crescita. Può inoltre prevenire l’insorgere di forme di disagio e discriminazione in cui rischiano di rimanere intrappolati alcuni di questi ragazzi.

Chiedo infine a Youssef quali radici sente di avere. Essendo arrivato in Italia a 13 anni, si sente molto legato alla cultura di origine e prevalgono le radici marocchine perché vive in una famiglia di cultura marocchina, ma rispetta e apprezza molto la cultura del paese in cui vive.

Tuttavia, c’è stato un periodo in cui si sentiva un “senza patria”, né italiano né marocchino, ma col tempo ha capito che la cultura di appartenenza e l’identità di una persona non vanno mai smarrite. È tutta questione di rispetto reciproco e conclude: «Ho sempre rifiutato la retorica dell’integrazione e della tolleranza, tra i popoli ci deve essere rispetto. La diversità è bella quando ci si rispetta e non quando ci si deve tollerare».

23/1/2020 www.lenius.it

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