La commedia sui LEA e sui LEP

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LEA E LEP IN CAMPO SANITARIO E SOCIALE

di Loretta Mussi

PREMESSA

LEA, Livelli essenziali di assistenza (Sanità) e LEP, Livelli essenziali di prestazione (sociale), sono argomento di discussione in sanità e nel sociale da quando è stata fatta la L. 833/78 ed hanno continuato ad esserlo nelle controriforme successive.
Entrambi i Lep sono di difficile realizzazione sia per i costi che per la scarsa volontà politica che hanno dimostrato tutti i governi. I Lea, almeno, sono stati in qualche modo individuati anche se la loro realizzazione è parziale e poco utile.
Invece i Lep, in 23 anni, non sono stai individuati e tanto meno realizzati. Per ragioni economiche e in certo qual modo metafisiche, dato che nell’erogazione dei servizi sociali non si possono stabilire a priori livelli standard e livelli di fabbisogno standard poiché sono talmente numerose le variabili che incidono e intercorrono che risulta impossibile tenerne conto in una valutazione quantitativa standard. E, infatti, la storia dei Lea e dei Lep, dimostra che  i tentativi di definire i livelli standard sono finora falliti.

LEA, LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA IN CAMPO SANITARIO

I LEA, Livelli essenziali di assistenza, rappresentano il complesso delle attività, dei servizi e delle prestazioni di carattere assistenziale, preventivo, diagnostico, terapeutico, e riabilitativo che vengono erogate direttamente dal Servio Sanitario Nazionale e dai Servizi sanitari regionali.

Si suddividono in tre macroaree: Assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro, Assistenza distrettuale, comprendente le attività e i servizi sanitari e sociosanitari diffusi sul territorio, Assistenza ospedaliera, comprensiva dell’assistenza in pronto soccorso, che a loro volta comprendono altri raggruppamenti di materie e funzioni.
Furono individuati all’indomani del trasferimento alle Regioni delle competenze sanitarie con la Legge costituzionale n. 3/2001 di modifica del Titolo V della costituzione.
Abbiamo detto che di Lea già si parla nella Legge 833/78, e nelle successive controriforme – il D.lgs. n. 502/1992 (Ministro Ferruccio De Lorenzo) – dove si dice che i Lea vanno individuati contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema. (1992, anno di Maastricht, inizio del liberismo spinto) – e il D.lgs. 229/1999) della Ministra Bindi -, che attribuisce al SSN il compito di assicurare “i livelli essenziali ed uniformi di assistenza definiti dal Piano Sanitario Nazionale nel rispetto della dignità della persona, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse”

I Lea vengono chiamati “essenziali” ma in realtà si trattava di livelli minimi che non coprono i fabbisogni di salute e che non hanno mai avuto una diffusione uniforme sul territorio nazionale, tanto che le differenze tra Nord e Sud si sono approfondite. Un secondo pacchetto, Il DPCM 12 gennaio 2017, fu approvato 16 anni dopo.

I Lea, stante le autonomie concesse alle regioni, avevano lo scopo di garantire l’uguaglianza delle prestazioni in un sistema di governo decentrato. Ma, trattandosi di livelli essenziali, cioè minimi, ed essendo finanziati come tali, non potevano dare garanzia di universalità, equità e uniformità su tutto il territorio nazionale.
Vari problemi hanno condizionato la applicazione dei Lea. Le pressioni delle diverse regioni, delle professioni e dei vari gruppi sociali; l’applicazione molto diversificata dei ticket nelle regioni, le diverse condizioni di accesso a farmaci o prestazioni specialistiche sul territorio nazionale. Tutto ciò ha inciso sull’uniformità dell’applicazione dei Lea e ha anche reso possibile l’iniquità.

Ma ciò che ha inciso di più sulla uniformità, è stata la mancanza di risorse umane e finanziarie. Vi è stato inoltre un ritardo di anni nella pubblicazione di alcuni nomenclatori tariffari che si è risolto solo quest’anno, per cui i nuovi Lea si stanno applicando con sei anni di ritardo e più (il tariffario per la specialistica ambulatoriale partirà a gennaio 2024, mentre quello per l’assistenza protesica partirà nell’aprile 2024).
L’applicazione dei Lea da parte delle Regioni e Provincie è monitorata costantemente. Le regioni che non applicano regolarmente i Lea si trovano sia al Nord che al Sud con performance, in alcuni casi, minimali, soprattutto al sud. Ma quello che emerge, se messo a confronto con i dati statistici comunemente usati, è che i Lea non possono rappresentare una garanzia di buon funzionamento del SSN e del suo universalismo, tale è la distanza tra gli esiti del monitoraggio dei Lea e le risultanze statistiche e di realtà.

LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI (LEP)

Con la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2000, i LEP entrano in Costituzione. Quelli presi in considerazione sono: istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti.

L’art.117 attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, mentre spetta alle Regioni determinare ogni ulteriore intervento nel settore sociale. Abbiamo visto che la titolarità dello Stato, cioè del Parlamento non è stata rispettata dal Governo che ha invece istituito una Cabina di regia affiancata da un CLEP (Comitato per i livelli essenziali delle prestazioni), esautorando e tagliando fuori completamente il Parlamento cui la Costituzione affidava l’individuazione dei Lep, come sottolineato anche da alcuni membri del CLEP stesso.

I Lep, secondo gli estensori della norma costituzionale, dovevano garantire l’effettiva tutela dei diritti sociali, impedire che l’ampliamento dei poteri locali si traducesse in forti disuguaglianze territoriali, realizzare un equilibrio tra le esigenze della regionalizzazione e quelle dell’uniformità territoriale, tutelare l’unità economica e la coesione sociale della Repubblica, rimuovere gli squilibri economici e sociali. Nessuno di questi propositi è stato perseguito.

I motivi sono tecnici ma soprattutto politici. Già in Sanità dove l’elenco delle materie/funzioni è chiaro, i Lea hanno funzionato poco e male. Ma qui abbiamo a che fare con l’area vasta e differenziata del bisogno sociale, con numerose variabili che dipendono da molti fattori e che rendono difficile stabilire a priori livelli di fabbisogno standard per i Lep, in più bisogna estrapolare dai Ministeri centinaia di materie e funzioni, e anche questo comporta un lavoro molto lungo.

Anche i Lep sono stati pensati come livelli minimi, cioè insufficienti.
Se il legislatore avesse voluto che i Lep fossero realmente rispondenti ai bisogni avrebbe usato un altro termine, come “adeguato”, che, come tale, richiede un corrispondente adeguato finanziamento, ma è lo stesso ministro che ha scritto che i Lep saranno determinati ad invarianza di spesa.

Questo significa che solo alcune regioni avranno la possibilità di finanziare adeguatamente i Lep, cioè le tre che hanno chiesto per prime l’AD e che hanno bilanci e disponibilità erariali sufficienti: la maggioranza delle regioni, tutte quelle del sud, non sarà in grado di farlo. Quindi anche i Lep non saranno uniformi su tutto il territorio nazionale.

Questo è uno dei punti su cui si sono concentrati alcuni componenti della Cabina di regia, così come importanti istituti ed organismi italiani che mettono in dubbio la sostenibilità dei LEP. (Commissione europea, Servizio Bilancio del Senato, Ufficio parlamentare di bilancio, Confindustria, Banca d’Italia, ANCI, UPI). Si tratta di soggetti che si riconoscono nella prospettiva dell’AD, ma segnalandone vizi ed errori.

In particolare alcuni componenti del CLEP hanno detto che, prima di attribuire nuovi compiti, funzioni e corrispondenti risorse finanziarie ad alcune Regioni, è necessaria la determinazione di tutti i LEP attinenti all’esercizio di diritti civili e sociali e la definizione del loro finanziamento, secondo i principi e le procedure dell’art. 119 della Costituzione. E siccome le risorse disponibili sono condizionate dai vincoli di bilancio (art. 81 della Costituzione), è evidente che la determinazione dei LEP richiederà una valutazione complessiva dei LEP che il Paese è effettivamente in grado di finanziare, e non materia per materia, perché ci si troverebbe alla fine nella condizione di non potere finanziare i LEP necessari ad assicurare l’esercizio dei diritti civili e sociali nelle materie lasciate per ultime.
Valutazione che spetta al Parlamento come risulta evidente non solo per il dettato dell’art. 117.2 (competenza legislativa esclusiva), ma anche perché spettano al Parlamento le scelte fondamentali sull’allocazione delle risorse pubbliche. D’altronde, proseguono i membri del CLEP, non è mai stato fatto un lavoro di comparazione complessiva dei LEP con le risorse finanziarie, per definire i livelli essenziali effettivamente assicurabili a tutti, senza discriminare nessuno o creare insostenibili oneri per la finanza pubblica.
Sempre l’UPB, ma anche Confindustria, segnalano che la frammentazione delle normative e la diversificazione delle politiche regionali potrebbe avere effetti distorsivi su localizzazione e scelta degli investimenti delle imprese – aggravando gli esistenti divari territoriali o creandone di nuovi – con aumento dei costi per quelle che operano su scala multi-regionale. Ci potrebbero inoltre essere problemi di concorrenzialità e competitività.

L’altro aspetto che inficia il percorso dei Lep è il mancato riconoscimento di un processo partecipato e condiviso, per cui sono tagliati fuori completamente il sentire e i bisogni della collettività. Per evitare che le scelte siano viste come frutto di discrezionalità politica è necessario che non siano calate dall’esterno sulla comunità ma siano il frutto di un processo di confronto e condivisione all’interno della collettività. E’ necessario cioè misurarsi con le motivazioni, la volontà, il sentire e le scelte delle persone interessate, favorendone la partecipazione. Quindi, i Lep dovrebbero essere individuati attraverso analisi rigorose della situazione e con l’apporto di competenze professionali specializzate, ma coinvolgendo le persone e il loro sapere. In questo modo, attraverso il confronto piuttosto che seguendo criteri di standardizzazione, si garantirebbe l’appropriatezza dei Lep.

Di concerto con l’individuazione dei LEP doveva funzionare la perequazione fiscale, secondo la L. 42/09, sul federalismo fiscale, attuativa dell’Art.119 del Tit. V riformato, per il quale “la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”, destinando risorse aggiuntive laddove necessario.

Attraverso la perequazione fiscale, le risorse dovevano essere suddivise tra comuni ricchi e poveri secondo principi di solidarietà: in realtà ci sono stati solo timidi tentativi abortiti di fronte alla resistenza e all’avarizia delle regioni più ricche che non volevano rinunciare ai crediti accumulati nel corso degli anni. In questo modo si sono cristallizzate le differenze preesistenti, non solo tra Nord e Sud del Paese, ma anche tra aree depresse ed aree più avanzate dello stesso Centro-Nord.

L’individuazione corretta e il finanziamento adeguato dei Lep, insieme alla creazione del fondo perequativo (art. 119), avrebbero potuto portare ad un equa distribuzione delle risorse per ridurre le disparità tra comuni e distribuire, secondo criteri di equità, risorse ai territori più svantaggiati. Per promuovere – si legge sempre nell’Art. 119 – lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. Per attuare la perequazione tra aree ricche e aree povere del paese ci vorrebbero, secondo Svimez, dai 90 ai 100 mld di Euro.

Fabbisogno Standard per supplire l’assenza sei Lep, disparità tra Regioni e tra Comuni

Poiché in oltre 20 anni i Lep non sono stati definiti, si è deciso di ricorrere al fabbisogno standard di ogni comune, cioè alla spesa storica necessaria per lo svolgimento dei propri servizi. Laddove le capacità fiscali non fossero state adeguate doveva intervenire Il fondo di solidarietà comunale per colmare la differenza tra fabbisogno e capacità.

La determinazione dei fabbisogni standard è stata affidata alla SOSE, una società pubblica partecipata da MEF e Banca d’Italia, che ha usato criteri e calcoli accessibili solo agli iniziati, poco trasparenti, e, soprattutto, discutibili, avendo calcolato il fabbisogno standard dei Comuni sulla spesa storica: il che non poteva che dare un esito paradossale.

Cioè i Comuni che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, e che quindi avrebbero più bisogno di altri, in base alla spesa storica registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto ai comuni dove l’offerta di servizi è ampia e diffusa, ci sono livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard.

Cioè i finanziamenti sono stati distribuiti in base alla regola “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, generando il paradosso che chi meno ha, meno riceve, mentre chi più ha, più riceve. Così è stato con tutti i governi senza che le opposizioni protestassero. Anzi si è verificata un’acquiescenza bipartisan nel salvaguardare i livelli di finanziamento delle regioni ricche e nel lasciare al loro destino le regioni povere, tutte del Sud. Ma sono stati colpiti anche molti comuni minori del Nord.

Il risultato lo abbiamo nei seguenti dati:
. I comuni ricevono o versano solo il 43% dei fabbisogni reali, che è la differenza fra fabbisogni e capacità fiscali.
. La perequazione delle risorse ad oggi copre solo il 22.5% della differenza tra fabbisogno e capacità fiscale dei comuni.

. La capacità dei Comuni in totale ammonta a 8 miliardi.

Ciò significa che funzioni fondamentali, come istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti, cioè diritti costituzionali, per i 51 milioni di cittadini residenti nei 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario, in almeno il 50% dei comuni , non sono svolte o lo sono solo parzialmente.
Su un tema di questo tipo, che tocca la vita quotidiana di tutti, cioè la distribuzione di oltre 30 miliardi da cui dipende l’equilibrio e l’unità del Paese, l’opinione pubblica non è stata informata. A tale risultato hanno concorso oltre al SOSE i parlamentari rappresentanti quasi esclusivamente il Centro – Nord, in un continuo gioco delle parti, ben illustrato dal libro 0 al Sud di Marco Esposito.

Sotto alcune tabelle che mettono in evidenza le differenze più eclatanti nella distribuzione delle risorse (anno 2018)

Fabbisogno standard, nei comuni di alcune regioni.

Euro pro capite in media
Toscana Emilia Romagna Campania Puglia Calabria
727 724 584 567 535

Asili Nido
Esemplare il caso degli asili nido. 55% sono i Comuni (2016), cui non avendo o avendo un’offerta bassissima di asili nido, è stato assegnato un fabbisogno zero

Fabbisogno pro capite 0-2 in €
Emilia R. Lombardia Campania Calabria

1944 1054 238 60

Milano Città
1.680, solo 7% comuni fabbisogno è 0

Napoli Città
278, 70% “ fabbisogno 0

Fabbisogno sociale
Risulta più basso proprio dove l’indice di deprivazione economica è maggiore. Circa la metà è riconosciuto alle regioni più ricche.
Euro pro capite

Emilia Romagna Lombardia Campania Calabria
119 102 73 60

Nel libro citato si racconta delle riunioni della Commissione parlamentare bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale che ha basato i suoi lavori sui documenti prodotti da varie commissioni tecniche tra cui SOSE (MEF) e INFEL (ANCI).
Gli uomini che si incontrano sono sempre gli stessi ora come componenti di una commissione, ora dell’altra, per lo più settentrionali, mentre i meridionali sono per lo più assenti e se ci sono, silenti. Cioè, per anni si è discusso e mantenuto n piedi un equilibrio che finanziava la spesa sociale dei i Comuni sulla base della spesa storica e non dei fabbisogni reali, senza che nulla filtrasse.
Ai Comuni si davano gli importi corrispondenti allo speso dell’anno precedente, aumentando in questo modo sempre di più le diseguaglianze, tra Nord e Sud, e tra i diversi territori anche in alcune regioni del Nord. Non c’era verso (come dimostrano i verbali delle diverse commissioni) di adeguare la spesa storica al reale fabbisogno, la spesa storica non si doveva toccare! Gli zeri dovevano restare dove stavano, altrimenti si sarebbero dovute intaccare le entrate dei Comuni più ricchi. E di 0 nel campo degli asili, ad es. nel 2019 se ne contavano 4.417.

PRIMA DEI LEP VIENE L’ELIMINAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE

La situazione che abbiamo di fronte è grave. I Lep in oltre 20 anni non sono stati realizzati. (Openpolis, nei suoi studi). Le risorse sono andate ai comuni già capaci di attivare determinati servizi; mentre i territori che non li avevano non hanno ottenuto alcuna risorsa aggiuntiva per attivarli. Dappertutto ha funzionato la regola dell’asilo (se non c‘è vuol dire che non ne hai bisogno), per cui “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, col paradosso che chi aveva meno, meno riceveva, mentre chi aveva di più, ha continuato a ricevere di più. Considerata l’attuale precaria situazione economica e considerato che il finanziamento dei LEP è a spesa pubblica invariata, dobbiamo aspettarci un abbassamento dei livelli delle prestazioni che porterà ad un incremento della previdenza privata e del welfare aziendale, con ulteriore aumento delle disuguaglianze. Come sempre a farne le spese saranno soprattutto le popolazioni del Sud.

Ora è urgente trovare le risorse per sanare Il vero problema dell’Italia oggi: quello delle enormi disuguaglianze, che vanno sanate prima di affrontare qualsiasi discorso di Autonomia e prima che l’unità della Repubblica si rompa; più che salvaguardare i Lep, in questo momento, bisogna colmare le differenze territoriali. Solo dopo si potrà ragionare sulle autonomie ma non questa che stiamo combattendo, bensì quella di cui all’Art.3 della Costituzione in cui le autonomie degli EELL si accompagnano alla solidarietà politica, economia e sociale dell’Art.2.

Loretta Mussi
Medico sanità pubblica. Tavolo NO AD

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