La crisi di governo come spettacolo
La
triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima
crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream.
Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza
precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono
capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse
generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene
seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del
“palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione
sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del solito teatrino della
politica si tratta, perché puntare ossessivamente i riflettori su questi
attori di serie B? In realtà quello che è andato in scena con la
complicità di giornali, televisioni e media digitali non è tanto una
rappresentazione teatrale di pessima fattura quanto un vero e proprio
spettacolo, nel senso che a questo termine attribuiva Debord.
“Lo spettacolo – sostiene il padre del situazionismo – riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.1 Per
quel che qui ci interessa possiamo sostenere che lo spettacolo della
crisi di governo ha riunificato, a suo modo, la sfera politica e quella
economica; la prima intesa come l’istanza che si presume possa garantire
l’interesse generale e la coesione complessiva di una società, la
seconda come l’ambito in cui i singoli capitali organizzano la
produzione finalizzata al perseguimento del profitto.
A questo proposito chiediamo un po’ di
pazienza perché vorremmo ribadire, come si sarebbe detto un tempo,
alcune banalità di base. E ci piace farlo, a mo’ di omaggio, attraverso
un testo di qualche anno fa di Ellen Meiksins Wood, importante
esponente del marxismo politico, scomparsa nel gennaio di cinque anni
fa.2
Ebbene, secondo l’autrice il sistema capitalistico è caratterizzato da
una separazione senza precedenti della sfera economica da quella
politica. Lo stato rimane essenzialmente separato dall’economia anche
quando interviene in essa. In altri termini il capitalismo è
caratterizzato da una divisione del lavoro in cui i due momenti dello
sfruttamento capitalistico – l’appropriazione e la coercizione – sono
separati: il primo viene assegnato a una classe privata appropriatrice, i
capitalisti, il secondo a una istituzione pubblica specializzata nella
coercizione, lo stato. Quest’ultimo, da una parte, ha il monopolio
della forza coercitiva; dall’altra, attraverso questa forza, sostiene un
potere economico “privato”, la proprietà capitalistica che è investita
dell’autorità di organizzare la produzione. Un’autorità probabilmente
senza precedenti storici nel suo grado di controllo sull’attività
produttiva e sugli esseri umani impegnati in essa.
Ciò
significa che l’appropriazione del surplus avviene nella sfera
economica con mezzi economici. Data la separazione dei produttori
diretti dalle condizioni di lavoro, la pressione diretta extraeconomica,
l’aperta coercizione, per principio, non sono necessarie per
costringere i lavoratori a cedere al capitale il loro pluslavoro, cioè
il tempo di lavoro eccedente rispetto alla produzione dei beni necessari
alla loro riproduzione. A tal fine è sufficiente il bisogno economico
che si esplica nell’ambito dello scambio di merci, basato sulla
relazione contrattuale tra “liberi” produttori. Le società
precapitalistiche, invece, sono caratterizzate da mezzi extra-economici
di estrazione del surplus: coercizione politica, legale, militare,
vincoli e doveri consuetudinari, obbligazioni religiose, deliberazioni
comunitarie regolano il trasferimento del pluslavoro ai signori privati o
allo stato attraverso corvée, rendita, tasse ecc.
Il processo attraverso cui si
afferma l’autorità della proprietà privata, unendo il potere
dell’appropriazione con l’autorità di organizzare la produzione nella
mani di un proprietario privato per il suo beneficio, può essere visto
come la privatizzazione del potere politico, cioè l’assunzione da parte
di un proprietario privato di funzioni che erano originariamente
appannaggio di un’autorità pubblica o comunitaria. Allo stesso tempo,
questo potere non porta più con sé l’obbligo di adempiere a funzioni
pubbliche, sociali. In ogni caso la separazione tra economia e politica
svaluta la sfera politica e di conseguenza il significato della
cittadinanza che perciò può essere estesa, tendenzialmente, senza
limitazioni. La cittadinanza si fa formale non potendo investire una
vasta area delle nostre vite quotidiane: i luoghi di lavoro, la
distribuzione del lavoro e delle risorse ecc.
Non vorremmo essere fraintesi.
Meiksins Wood non vuole affermare una rigida separazione concettuale tra
economico e politico, cosa che avrebbe la conseguenza di svuotare il
capitalismo del suo contenuto sociale e politico. Sostiene invece che i
rapporti di produzione devono essere presentati nel loro aspetto
politico, come rapporti di dominazione, diritti di proprietà, potere di
governare e organizzare la produzione e l’appropriazione e perciò come
terreno di lotta. In questo senso le relazioni politiche e giuridiche
non sono riflessi secondari o meri supporti esterni, ma parti
costituenti dei rapporti di produzione. Economico e politico vanno
dunque intesi come momenti la cui unità interna si muove attraverso
opposizioni esterne. Da ciò deriva una conseguenza: come sostiene Marx,
“Se il farsi esteriormente indipendenti dei due momenti, che
internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente,
prosegue fino ad un certo punto, l’unità si fa valere con la violenza,
attraverso una crisi”.3 E con ciò torniamo all’attualità.
Quella cui stiamo assistendo in
Italia, e non solo, è una crisi di sistema, già da tempo in incubazione
ma accelerata dalle conseguenze della pandemia, mascherata da crisi
politica. L’ossessiva attenzione nei confronti dei rumor di palazzo sono funzionali a un processo di villanizzazione della classe politica, cioè alla creazione del villain della
storia, del cattivo colpevole di tutti i mali sofferti da una nazione
che altrimenti sarebbe in grado di reagire all’attacco del virus e, come
la Roma di Nerone/Petrolini, rinascere “più bella e più superba che
pria”. Risulta allora chiaro che la separazione tra sfera economica e
sfera politica, per quanto possa sembrare a prima vista una debolezza
del sistema perché limita la concentrazione del potere, risulta in
realtà un suo punto di forza in quanto consente di affrontare le sue
crisi senza investire direttamente i suoi fondamenti, i rapporti sociali
di produzione capitalistici. La politica diviene il perfetto capro
espiatorio. A essa, infatti, viene attribuito il compito di risolvere i
problemi socio-economici, ma al contempo ha limitate capacità di
intervento in questi campi, fermi restando il potere di appropriazione
del surplus e l’autorità di organizzazione della produzione nella mani
dei singoli capitali.
Non
è un caso, sostiene ancora Meiksins Wood, che le moderne rivoluzioni
si siano verificate laddove il modo di produzione capitalistico era meno
sviluppato e coesisteva con più antiche forme di produzione, in
particolare la produzione contadina. In questi casi, infatti, la
coercizione extraeconomica esercitava un ruolo maggiore
nell’organizzazione della produzione e nell’estrazione di pluslavoro e
lo stato agiva non soltanto in appoggio alle classi proprietarie ma,
similmente allo stato precapitalistico, anche come diretto
appropriatore. In breve dove il conflitto economico e quello politico
apparivano immediatamente come inseparabili e lo stato rappresentava un
nemico di classe più visibile e centralizzato. Di contro, nei paesi a
capitalismo sviluppato la lotta di classe, che nella storia ha sempre
riguardato il potere sul pluslavoro, tende a convogliarsi nel luogo
della produzione perché è lì che si concentra e si esercita questo
potere. In altri termini la lotta di classe da politica diventa
economica, trasformandosi tendenzialmente in qualcosa di locale e
particolaristico. Una lotta che riguarda i termini e le condizioni di
lavoro che, per quanto feroce possa essere, non mette direttamente in
questione il rapporto tra capitale e lavoro, almeno finché non esce
dalle mura dei luoghi di lavoro.
A maggior ragione, come già accennato,
il conflitto tra i diversi attori nella sfera politica, non potendo
oltrepassare il suo limitato ambito di competenza, non è in grado di
prendere di petto il tema del rapporto tra capitale e lavoro. Ma, a
differenza del conflitto che si dà sul luogo della produzione, è in
grado, per così dire, di sublimarlo. Proprio per questo nella sfera
politica si può dare una ricomposizione spettacolare tra economico e
politico. Una ricomposizione di cui abbiamo un esempio nell’esito
dell’ultima crisi di governo. Non c’è nulla di più spettacolare,
infatti, di un salvatore della patria cui vengono attribuiti connotati
spudoratamente eroici: “Super Mario” Draghi, appunto. Un individuo
straordinario che ha già mostrato le sue eccezionali capacità
decisionali quando, come ci viene ripetutamente ricordato, affermò in
pubblico che per salvare l’euro avrebbe fatto “whatever it takes”. Frase che si concludeva così: “And believe me, it will be enough”. Una dichiarazione che starebbe bene in bocca anche al più coatto dei cowboy hollywoodiani.
Draghi è con ogni evidenza un
esponente di spicco dell’élite economico-finanziario europea chiamato a
rimediare al fallimento della politica nazionale. Non è perciò esagerato
parlare di un commissariamento dell’Italia da parte del capitale
finanziario continentale sotto lo sguardo attento dei poteri atlantici.
Però, a ben vedere, c’è qualcosa di più da dire. La questione
ripetutamente sollevata sulla natura tecnica o politica del suo governo,
per quanto stucchevole, indica in modo confuso una difficoltà reale che
affiora dalla profondità della crisi socio-economica in corso: è
proprio l’andamento dell’economia, così come governato dal capitale, a
costituire un problema. In altri termini, sebbene in modo tutt’altro che
trasparente, affiora la necessità di scelte, propriamente politiche,
che modifichino questo andamento interferendo con il governo
capitalistico della produzione. Questo, per meglio dire, è il fantasma
che va esorcizzato.
Prendiamo
il caso della campagna vaccinale, uno dei compiti prioritari cui si
dovrebbe dedicare il nuovo governo. E’ chiaro che le decisioni sovrane
delle case farmaceutiche, basate ovviamente sulla ricerca del massimo
profitto, sono un ostacolo fondamentale per una efficiente
programmazione della campagna di immunizzazione di massa. Il potere e
gli enormi profitti delle grandi imprese farmaceutiche sono normalmente
giustificati dal loro ingente investimento nella creazione di nuovi
farmaci. Ma le cose non stanno così. Con riferimento agli Stati Uniti,
Marianna Mazzuccato rilevava qualche anno fa come tra il 1994 e il 2003
siano stati gli Istituti Nazionali di Sanità finanziati dal governo
americano a condurre le ricerche che hanno portato a tre quarti dei
nuovi farmaci (le cosiddette nuove entità molecolari), mentre le case
farmaceutiche si limitavano ad investire prevalentemente sulle varianti
meno rischiose (in termini di profitti attesi) dei farmaci già
esistenti.4
Con la crisi pandemica l’impegno pubblico sarà con ogni probabilità
ancora più significativo. Soltanto il governo statunitense, nell’ambito
dell’Operazione Warp Speed, avrebbe inizialmente stanziato 9
miliardi di dollari per finanziare lo sviluppo e la produzione dei
vaccini. Ma non è tutto. La scelta dei vaccini come arma principale, se
non unica, per sconfiggere la pandemia non è un’opzione obbligata come
dimostrano le efficienti strategie di contenimento messe in atto
principalmente dai paesi asiatici (per non parlare di Cuba). Si tratta
in realtà di una scelta dettata dagli interessi di Big Pharma
che in tutto l’Occidente ha trasformato la medicina in senso
ospedale-centrico e farmaco-centrico, trascurando prevenzione e medicina
territoriale.5
E
si tratta anche di una scelta che consente di alimentare una perniciosa
illusione a beneficio del potere capitalistico complessivamente inteso:
si può contrastare l’epidemia proseguendo nel nostro stile di vita
quasi come se nulla fosse. Business as usual.
Avremmo a che fare, in altri termini, con un’opzione che, per
sconfiggere la pandemia, non necessiterebbe, nel breve periodo, di
adottare provvedimenti coercitivi sul governo capitalistico
dell’economia evitando la limitazione del movimento di merci e persone
(leggi lockdown) e, nel medio-lungo periodo, di ripensare un
modello di sviluppo che stravolgendo gli ecosistemi planetari favorisce
la possibilità del salto di specie dei virus.
Insomma proprio quando appare che
alla politica venga richiesto uno sforzo straordinario per modificare il
corso degli eventi nella realtà accade che gli vengono negati gli
strumenti per agire. Solo lo spettacolare intervento di un eroe ci può
aiutare in un compito così disperato e al tempo stesso così importante.
Vediamo dunque che tutto si raddoppia e si capovolge. La sfera economica
invade quella politica, ma è la politica che deve apparire in grado
come non mai di governare l’economia: la prassi sociale, direbbe Debord,
si è scissa in realtà e immagine. In altri termini la politica può
riprendere il comando solo negando se stessa. L’appoggio praticamente
unanime al governo Draghi nega infatti uno degli elementi essenziali che
si suppone debba caratterizzare la sfera politica moderna: quel
politeismo dei valori che implica la possibilità di effettuare scelte
diverse, o anche divergenti, nel governare il bene comune.
E allora di fronte al fantastico mondo di Super Mario chiudiamo ribadendo di nuovo alcune banalità di base, utilizzando le parole di Meiksins Wood: “le battaglie puramente ‘politiche’ sul potere di governare e dirigere, rimangono incompiute finché non coinvolgono oltre alle istituzioni dello stato anche il potere politico che è stato privatizzato e trasferito nella sfera economica. In questo senso, è proprio la differenziazione dell’economico e del politico nel capitalismo – la simbiotica divisione del lavoro tra stato e classe – ciò che rende propriamente essenziale l’unità delle lotte politiche ed economiche e che deve rendere sinonimi socialismo e democrazia”.6Stampa, crea PDF o invia per email
- Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 62.
- Cfr. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, Cambridge Universiy Press 1995.
- Karl Marx, Il capitale I, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 146.
- Cfr. Marianna Mazzuccato, Lo stato innovatore, Laterza 2014.
- Cfr. Alberto Burgio, “Dopo un anno di pandemia: ostaggi di Big Pharma?” in Oltre il capitale, anno III n. 5, gennaio 2015.
- Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, cit. p. 48, traduzione mia.
Fabio Ciabatti
24/2/2021 https://www.carmillaonline.com
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