La distruzione dell’università

Molti anni fa, quando intrapresi la carriera universitaria, quel luogo non era certo perfetto. Vi erano molti difetti, guerre intestine, docenti ben poco attenti al loro ruolo e alla loro presenza istituzionale, soprusi e clientele, e tuttavia, in virtù di un codice etico che perlomeno sapeva riconoscere la qualità della cultura, esso era popolato da intellettuali colti, capaci di esprimere nei loro testi e nei loro insegnamenti un’idea del sapere raffinata e ricca.

Con il passare degli anni, specie degli ultimi, questo patrimonio non solo è andato perduto ma è stato deliberatamente mortificato e distrutto. Non sto a ripercorrere i passi che hanno condotto a questa situazione, passi normativi, il fiorire di un’etica industriale, una meritocrazia sbandierata come valore morale ma che di fatto non ha fatto altro che far avanzare la tecnocrazia, latrasformazione della creazione culturale in merce e l’affermazione del redditizio sul sensato.

Oggi l’università conosce una stagione infima sotto il profilo della difesa del valore della cultura umana, costringendo tutti ad allinearsi sul nulla, su pratiche sempre più svuotate di significato e sempre più sotto poste al vaglio di un sistema di controllo che premia il numero di pubblicazioni  (sempre più brevi però, ridotte a paper dai caratteri numerati, condite di abstract scheletrici e di parole chiave dal dubbio senso culturale), unicamente quelle che vengono accolte da riviste sedicenti scientifiche dove l’inglese è la tessera d’ingresso e l’internazionalizzazione purché sia il marchio di origine controllata.

La libertà di ricerca è strangolata da un’interdizione a muoversi in territori che non fanno fatturato o non sono approvate da consigli d’amministrazione sempre più vincolati alle logiche aziendali e di connessione soffocante con il mondo delle imprese, dei brevetti e della concorrenza mercantile. Specie nel territorio dei saperi umani, in cui si pensava, come ha bene sottolineato uno studioso serio come il filosofo franceseYves Citton nelle sue pubblicazioni poco tradotte nella nostra lingua (tra cuiMitocrazia,, con prefazione di Wu Ming 1), che il criterio di qualità fosse legato all’”interpretazione creativa” dei campi d sapere e alla “visione”, aggiungo io, cioè alla capacità di mostrare in modo critico nuovi volti della cultura e della società, o dove, per seguire Giorgio Agamben, sarebbe stato meglio parlare di “studi” anziché di “ricerche” e con il solito ricatto di una verificabilità scientifica del tutto impropria, ebbene proprio qui la repressione della libera cerca, dell’originalità e della capacità di sottrarsi alla prostituzione mercantile, appare sempre più selvaggiamente scatenata (e io ne so qualcosa sulla mia pelle).

Credo sia l’ora di dire basta a tutto questo, almeno da parte di chi non si rassegna a venire sempre più ossessionato da procedure di controllo e di contraffazione del senso del sapere che l’istituzione imbastardita dalla competizione finanziaria cui è condannata porta avanti ciecamente, da chi non sopporta il balbettio anglofilo dei colleghi, dal conio di sigle sempre più improbabili quanto imbecilli dietro le quali si nasconde solo la tecnicizzazione forsennata del lavoro culturale e dell’insegnamento. Dalla costrizione a esprimere i propri programmi di lavoro in obiettivi quantificabili e verificabili in termini immediati – quando si sa bene che un autentico insegnamento non può che dare i suoi frutti in tempi lunghi – e in linguaggi vecchi almeno quanto le tavole degli obiettivi comportamentali di Bloom. Da chi è sottoposto quotidianamente alla fretta del pubblicare purché sia, del cercare di inserirsi in progetti internazionali carichi di finanziamenti anche se non gliene importa nulla e nulla hanno a che fare con le sue capacità e qualità, della coazione alla assunzione di carichi organizzativi che poco hanno a che spartire con un ruolo di cultura (e non manageriale checché strepitino i tanti colleghi che mascherano la loro miseria epistemica dietro alla parata di incarichi di coordinamento, direzione, partecipazione a misteriosi organismi che sembrano moltiplicarsi sempre di più in misura proporzionale alla povertà dei loro risultati).

Io non sono entrato in università per rispondere a queste richieste, per lavorare in un ente (che si voleva pubblico e di custodia della cultura viva) che è ormaiun’azienda come tante altre che deve accontentare il marketing costruito sulla soddisfazione del cliente o sulle esigenze finanziarie e industriali di committenti che nulla sanno né di vita né di cultura.

Mi dicono che io attacco l’istituzione. Si sbagliano, io difendo l’istituzione, anche con lo sciopero bianco di non assumere incarichi che so che mi costringerebbero a prostituirmi nel dover far accettare misure di operatività sempre più contrarie allo spirito autentico della creazione culturale, dell’autentico insegnamento e di uno studio che ha bisogno di tempi lunghi, di pause, di reversioni, di poter concedersi di sbagliare, di rivedere, di ripensare, in breve di riflettere e generare.

Alla spocchia del nuovo management universitario, spesso reclutato tra i più scadenti, sotto il profilo delle qualità culturali, docenti e dirigenti proni ad approvare qualsiasi nuovo dispositivo di controllo e di ricatto debba essere introdotto per renderci ancora più servi dell’industrializzazione finanziaria della cultura e impotenti, occorre dare una risposta subito.

Chiamo a raccolta tutti i colleghi, giovani e meno giovani, di questo mondo, posto che ce ne siano ancora, per costituire un Comitato di Difesa del valore della cultura viva, ricca e profonda, della libertà di studio e di quella di docenza, affinché ci si raduni per proporre azioni di resistenza al suicidio dell’università, al suo ruolo ineliminabile di salvaguardia del sapere, di tutti i saperi, dallo sfruttamento commerciale, dalla lingua unica, un po’ di inglese e un po’ di sigle, di abbreviazioni che occultano mentre danneggiano, dalle mediane, dall’Anvur e dai Cev (i nuovi plotoni di controllo che penetreranno nelle nostre aule per valutare se insegniamo secondo i criteri della produttività industriale o meno).

Chiedo a chi ha un po’ di visibilità, io ne ho poca ahimé essendomi sempre sottratto alla corsa agli armamenti manageriali dell’università, ma anche a chi non ne ha ma ha ancora voglia di esercitare questo lavoro meraviglioso, a patto che glielo lascino fare, di aiutarci a combattere il prosciugamento sistematico del pensiero libero, delle libere idee come dello studio concentrato e autonomo, di costituire con me e con chi lo vorrà presidi di cura dell’università, quella che dona gratuitamente il suo patrimonio, che lo condivide con la dedizione e la passione che esso merita, prima che sia troppo tardi. Anche se forse, ahimé, forse è già troppo tardi. Ma forse anche no.

Paolo Mottana

Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Tra i suoi ultimi libriLa città educante (Asterios). Altri articoli di Mottana sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna di Comune Un mondo nuovo comincia da qui. Tra i promotori del Manifesto dell’educazione diffusa

29/10/2018 https://comune-info.net

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