La lunga storia dell’immigrazione in Italia

Quando si parla di immigrazione in Italia si commette spesso l’errore di pensare che si tratti di un fenomeno recente. Sul tema si conducono accese campagne elettorali, che hanno trasformato l’argomento nell’oggetto di conversazioni da bar o di discussione nelle trasmissioni televisive più popolari, imponendone una lettura allarmistica. Invece si tratta di un fenomeno strutturale da almeno 25 anni e che presenta caratteristiche proprie dalla fine della seconda guerra mondiale.

Il libro di Michele Colucci Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai giorni nostri (Carocci, 2018) ha il pregio di rimettere nella giusta prospettiva storica i diversi flussi migratori che si sono avvicendati nel corso degli ultimi settant’anni, illuminando il peculiare ritardo che la classe dirigente del paese ha sempre mostrato nella comprensione del fenomeno. Questi limiti hanno provocato conseguenze nefaste, come per esempio l’assenza di una legislazione oppure il mantenimento di leggi ormai obsolete.

“Nel 2018 l’Istat ha calcolato che vivono in Italia poco più di cinque milioni di cittadini di origine straniera, che evidentemente non sono arrivati tutti insieme, ma sono il frutto di un processo molto lungo. L’immigrazione in Italia ormai è arrivata alle terze generazioni, mentre noi stiamo ancora parlando delle seconde”, afferma Colucci. “Il libro comincia analizzando i flussi dei primi quindici anni dopo la seconda guerra mondiale. In quel momento l’Italia deve accogliere alcuni gruppi di sfollati e profughi: è una vicenda che resta circoscritta, poi negli anni sessanta cominciano i primi flussi migratori veri e propri”, spiega lo storico del Consiglio nazionale per le ricerche (Cnr).

Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta del novecento si registrano i primi movimenti migratori verso l’Italia

Il libro si apre con la ricostruzione del contesto postbellico, durante il quale i primi gruppi di stranieri nel paese sono costituiti da sfollati ed ex prigionieri oppure profughi della diaspora ebraica in viaggio verso la Palestina (molte navi che portano gli ebrei dall’Europa a Israele tra il 1945 e il 1948 salparono da porti italiani) o gli Stati Uniti. A questi si aggiungono gruppi di civili che lasciano regioni rimaste sotto il controllo per brevi o lunghi periodi: i profughi provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia e coloro che abbandonano le zone coloniali africane e greche.

I campi profughi, in quegli anni, furono allestiti in tutto il territorio nazionale ed è fondamentale notare, osserva Colucci, “l’evidente continuità tra alcune di queste strutture di accoglienza e gli spazi realizzati durante la guerra per rinchiudere i prigionieri nemici”.

Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta del novecento si registrano i primi movimenti migratori verso l’Italia: si tratta di studenti, lavoratori e lavoratrici provenienti da Eritrea, Etiopia e Somalia, le ex colonie italiane, oppure da altri paesi dell’Africa settentrionale. “Questi primi flussi sono interessanti soprattutto per il tipo di persone che arrivano: si tratta di donne che s’inseriscono nel settore del lavoro domestico, arrivano dalle ex colonie italiane o da altri paesi africani come Capo Verde. Anche in Italia come in altri paesi europei c’è un rapporto molto stretto tra decolonizzazione e immigrazione”, spiega il ricercatore.

“Un altro flusso notevole negli anni sessanta riguarda due aree di frontiera: il Friuli-Venezia Giulia (la frontiera con la ex Jugoslavia) e la Sicilia occidentale dove nel 1968 comincia un reclutamento organizzato da parte degli armatori di Mazara del Vallo che assoldano immigrati tunisini per impiegarli nei pescherecci”. Alla fine degli anni sessanta cominciano ad arrivare i dissidenti politici e gli esuli in fuga dalle dittature latinoamericane e che cercano rifugio soprattutto nelle grandi città italiane come Roma.

“Quello dell’asilo è un altro elemento problematico del sistema italiano, perché fino al 1990 ha potuto chiedere protezione internazionale in Italia solo chi arrivava dai paesi ex sovietici dell’Europa orientale (in base alla clausola della riserva geografica legata al periodo della guerra fredda). Tutti gli altri esuli, con pochissime eccezioni, non potevano ottenere nessuna forma di protezione”, spiega Colucci.

Negli anni settanta e ottanta si registra il primo interesse istituzionale e scientifico al fenomeno migratorio: “Mentre l’immigrazione cresce senza una legge che se ne occupi, nel 1978 esce il primo rapporto del Censis sui lavoratori stranieri in Italia e si scopre con sorpresa che gli stranieri sono circa mezzo milione. Un fenomeno sul piano quantitativo tutt’altro che marginale, di cui fino a quel momento non ci si era resi conto”, commenta lo storico.

Una presenza invisibile
Negli anni ottanta la presenza straniera in Italia aumenta, soprattutto in alcune zone, al punto da determinare l’approvazione della prima legge sull’immigrazione che risale al 1986 (legge Foschi). “Fino a quel momento l’immigrazione era regolata da una circolare del ministero del lavoro risalente al 1963: una situazione decisamente lacunosa dal punto di vista legislativo”. Negli altri paesi europei l’immigrazione straniera si è concentrata in luoghi molto visibili: vicino alle grandi fabbriche, nelle grandi città. “Questa visibilità ha provocato scontri, ma ha anche stimolato il dibattito”, spiega Colucci.

In Italia invece l’immigrazione è rimasta in qualche modo sottotraccia, non legata allo sviluppo industriale del paese, ma allo stesso tempo con una diffusione maggiore sull’intero territorio nazionale, anche in zone marginali: “In Italia si è sempre trattato di un mosaico di nazionalità, niente di simile al fenomeno più omogeneo delle comunità magrebine in Francia o di quella turca in Germania. E fin dall’inizio gli immigrati hanno trovato impiego in settori meno strutturati come il lavoro domestico o l’agricoltura”.

I mezzi d’informazione, dal canto loro, hanno giocato un ruolo nel fornire un’interpretazione e una descrizione dell’Italia come di “un paese arretrato dal punto di vista economico” e quindi poco appetibile. “È l’idea dell’Italietta, destinazione poco desiderabile per gli immigrati, nonostante il paese sia tra le potenze economiche mondiali”, commenta Colucci.

La somma dei diversi elementi – un fenomeno che inizialmente rimane poco visibile e un’errata interpretazione della forza d’attrazione del paese – ha favorito una sostanziale sottovalutazione del fenomeno migratorio, che viene percepito come transitorio da giornalisti, politici e analisti.

La “svolta” arriva tra il 1989 e il 1992: cambiano i flussi dopo la caduta del muro di Berlino, si registrano le prime mobilitazioni antirazziste di massa, entra in vigore la legge Martelli (1990), avvengono gli sbarchi dall’Albania, che hanno un impatto molto forte sull’opinione pubblica, si moltiplicano gli arrivi di profughi, viene approvata la nuova legge sulla cittadinanza del 1992. Un episodio chiave per capire il periodo è l’uccisione di Jerry Masslo, un bracciante sudafricano assassinato nell’agosto del 1989 a Villa Literno, in Campania.

“La vicenda di Masslo è paradigmatica: è un esule sudafricano, arriva all’aeroporto di Fiumicino nel 1988, chiede protezione internazionale perché scappa dal Sudafrica dell’apartheid, sua figlia era stata uccisa durante una manifestazione. Ma a dieci giorni dall’arrivo le forze dell’ordine italiane gli negano l’asilo, perché all’epoca il Sudafrica non era tra i paesi considerati insicuri”. A Roma, Masslo trova ospitalità in un centro della Comunità di sant’Egidio, la Tenda di Abramo, ma non può lavorare, perché è irregolare, quindi s’impiega in nero prima nei mercati della capitale, poi nei campi di pomodoro di Villa Literno, in Campania.

“Nella sua storia s’intrecciano le lacune legislative del sistema italiano e lo sfruttamento lavorativo dei migranti senza permesso di soggiorno, ma c’è anche la capacità di reazione della società italiana. A un mese dal suo omicidio, avviene il primo sciopero dei braccianti a Villa Literno e il 7 ottobre si tiene una grande manifestazione antirazzista a Roma a cui partecipano 200mila persone”, racconta Colucci, convinto che in Italia il movimento antirazzista sia riuscito per un decennio a influenzare i processi politici. “La legge Martelli è arrivata nel 1990 grazie a una spinta molto forte dal basso e questo processo è durato per dieci anni. Tutte le sanatorie di regolarizzazione sono state approvate sull’onda di un movimento popolare. In quegli anni l’opinione pubblica non era ostile all’immigrazione e c’era una convergenza tra i settori cattolici della società, le associazioni e i sindacati”.

Quella stagione però si chiude con l’approvazione della legge Turco-Napolitano nel 1998, che finisce per dividere il movimento antirazzista italiano. “Nella legge del 1998 non c’è il diritto di voto amministrativo per gli immigrati residenti, non c’è la riforma della legge sulla cittadinanza approvata solo pochi anni prima (e che da subito era stata giudicata discriminatoria verso gli immigrati), e le misure sull’integrazione appaiono deboli. Molti sostennero che quella legge doveva essere combattuta, per altri invece andava appoggiata perché era in tutti casi innovativa”, spiega Colucci. Di fatto, però, il movimento antirazzista ne uscì diviso.

Una profezia che si autoavvera
“Oggi vediamo delle navi con qualche decina di persone a bordo, che non possono attraccare nei porti italiani e che suscitano isteria tra i politici e nell’opinione pubblica. Sembra inconcepibile, se pensiamo che nel 2002 un governo di centrodestra regolarizzò con una sanatoria quasi 700mila persone. Questa è una strategia ricorrente dei governi italiani: nel 2002 da una parte si approvò la legge Bossi-Fini (che modificò in senso restrittivo la Turco-Napolitano) e contemporaneamente si regolarizzarono centinaia di migliaia di migranti irregolari”, spiega il ricercatore del Cnr.

Il 2001 è stato un anno importante: il censimento ha registrato per la prima volta più di un milione di stranieri residenti in Italia e le elezioni politiche sono state dominate per la prima volta dal tema dell’immigrazione, che da quel momento è diventato centrale nel dibattito pubblico.

“Un’altra cesura importante nella legislazione sull’immigrazione è stata l’approvazione nel 2008 del pacchetto sicurezza e la contemporanea firma degli accordi di Roma con il presidente libico di allora, Muammar Gheddafi, per il trattenimento dei migranti nei centri di detenzione libici”, spiega Colucci. Tutte queste misure hanno rafforzato le frontiere esterne dell’Unione europea e hanno ridotto i canali legali di ingresso in Europa per i lavoratori stranieri.

Di fatto sono quasi spariti i canali legali per arrivare in Italia con un permesso di soggiorno

“La legge Turco-Napolitano prevedeva degli ingressi per motivi di lavoro che potessero essere armonizzati con il mercato del lavoro, ma nel corso del tempo sono venuti al pettine i nodi di una legislazione molto rigida. Di fatto sono quasi spariti i canali legali per arrivare in Italia con un permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di studio, mentre l’unico canale di regolarizzazione per gli immigrati è diventato l’asilo, oltre al ricongiungimento familiare”, afferma Colucci.

Infine l’ultima ondata migratoria – cominciata nel 2011 con l’esplosione delle primavere arabe in Nordafrica e in Medio Oriente – ha rimesso in discussione un certo sistema di controllo delle frontiere esterne dell’Unione europea. Il movimento di persone ha riguardato tutto il continente europeo con la riapertura massiccia delle rotte mediterranee e della rotta balcanica. I flussi hanno assunto dimensioni notevoli e hanno cambiato in parte natura: si tratta soprattutto di migranti forzati. Di fronte a questi cambiamenti la legislazione nazionale e internazionale (in particolare il regolamento di Dublino, il sistema europeo di asilo) appare obsoleta e incapace di assorbire le nuove spinte.

Gli arrivi recenti nei paesi dell’Europa meridionale hanno messo alla prova lo stesso sistema d’asilo europeo facendo emergere tutte le sue fragilità. E arriviamo fino all’attualità: “Il decreto Salvini, in continuità con il passato, ha la caratteristica di penalizzare la permanenza dei lavoratori immigrati sul territorio nazionale. Per esempio, chi scappa da una calamità naturale e nel frattempo trova un lavoro stabile e regolare, non potrà comunque convertire il proprio permesso di soggiorno ‘speciale’ in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro allo scadere del permesso umanitario”. La situazione è dunque paradossale: ci sono lavoratori che non hanno possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

“Ma le novità degli ultimi anni non si fermano qui”, avverte Colucci. Tra il 2011 e il 2017 la progressione annuale dei residenti stranieri in Italia con permesso di soggiorno conosce prima un rallentamento, poi una battuta d’arresto. “Tra il 2016 e il 2017 dopo una lunga fase di crescita dell’immigrazione si registra un calo o quantomeno una stabilizzazione. Se guardiamo ai dati relativi ai rilasci annuali dei permessi di soggiorno a cittadini non comunitari notiamo una diminuzione molto più evidente: nel 2011 i permessi rilasciati sono 361.690, ma anno dopo anno la cifra scende fino a raggiungere i 226.934 permessi del 2016”. Anche se è presto per dirlo, sembra che l’Italia si sia davvero trasformata in un paese poco appetibile per i migranti, come in una profezia che si autoavvera.

10/10/3018 www.internazionale.it

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