La lunga storia ignobile dei centri di detenzione per migranti

Fra i tanti difetti e mancanze, il deludente decreto-legge col quale il governo Conte-bis ha tardivamente modificato le due famigerate leggi di conio salviniano (la n.132 del 1 dicembre 2018, e la n.77 dell’8 agosto 2019), v’è il fatto che esso abbia conservato il mostro giuridico della detenzione amministrativa, sia pur riducendo la durata del «trattenimento» da centottanta a novanta giorni: prolungabili di un mese per chi provenga da Paesi che abbiano stipulato con l’Italia accordi di «riammissione».

Novanta giorni

Per rendersi conto di quanto limitata sia una tale «riforma», è sufficiente considerare che la pur famigerata legge detta Bossi-Fini (la n. 189 del 30 luglio 2002) prolungò l’arco di tempo della detenzione amministrativa da trenta a novanta giorni, per l’appunto. E non solo: il decreto «riformista» del governo Conte-bis prevede anche la possibilità alternativa di trattenere persone migranti irregolari, destinate all’espulsione, non già in un Cpr (Centro per il rimpatrio), bensì in una struttura di polizia, per condurle da lì direttamente in aeroporto. Non sono molti/e coloro che se ne sono pubblicamente scandalizzati/e. E non tutti/e hanno ricordato, in tale occasione, che la detenzione amministrativa, palesemente anticostituzionale, riservata alle persone immigrate irregolari, quindi destinate all’espulsione, fu istituita ufficialmente, per la prima volta nella storia repubblicana, da un governo di centro-sinistra, il Prodi-uno, con la pubblicazione del disegno di legge governativo sull’immigrazione (19 febbraio 1997), che poi sarebbe stato convertito nella legge del 6 marzo 1998, n. 40, detta Turco-Napolitano, seguita, il 25 luglio 1998, dal «Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero».

Qui è possibile scaricare gratuitamente il quaderno Benvenuti, da cui è tratto l’articolo di questa pagina

Sin dalla loro istituzione fino a oggi, tali lager per migranti (denominati dapprima Cpta, poi Cie, infine Cpr) sono caratterizzati perlopiù da pessime o problematiche condizioni igieniche, strutturali, logistiche; dalla presenza occhiuta, talvolta aggressiva, delle forze dell’ordine; nonché dalla possibilità assai limitata (in taluni casi inesistente) di avere contatti con l’esterno. Chiusi, in non pochi casi, da mura o da più ordini di sbarre (si pensi a quello di Ponte Galeria, vicino Roma), rappresentano la perfetta materializzazione non solo dell’istituzione totale, ma anche di un sistema di controllo che arriva fino a privare gli individui della libertà personale non in ragione di un reato commesso, ma del loro semplice status. La loro natura spuria ed extra-legale, il loro carattere d’eccezione permanente sono illustrati dal costante ricorso – più che nelle carceri – alla pratica di somministrare agli internati, il più delle volte a loro insaputa, psicofarmaci e neurolettici. Spesso le condizioni di vita imposte agli «ospiti» dei Centri sono al limite dell’umanamente sopportabile e non manca la pratica delle violenze e dei pestaggi punitivi. Ma non si tratta di un’eccezione italiana: sanzionati dagli accordi di Schengen e di Dublino, i centri di detenzione sono divenuti un vero e proprio sistema, che ricopre l’intero territorio dell’Unione europea, un sistema che quotidianamente produce rivolte, atti di autolesionismo, suicidi e violenze di ogni genere.

Sotto sorveglianza

Conviene ricordare, inoltre, che di fatto vi sono «trattenute» non solo persone immigrate «irregolari» delle quali non è possibile eseguire l’immediata espulsione tramite accompagnamento alla frontiera, ma anche quelle il cui permesso di soggiorno sia stato revocato o annullato, oppure non abbiano potuto richiederlo o rinnovarlo nei termini stabiliti. In realtà, la detenzione dei/delle migranti irregolari non è funzionale solo a rendere possibile l’espulsione, ma è divenuta anche una misura di sicurezza per tenere sotto sorveglianza una categoria di persone considerata problematica se non pericolosa, nonché foriera d’insicurezza sociale. Spesso alle persone internate si proibisce di parlare con avvocati e di telefonare ai propri parenti. E, se protestano insieme con i loro compagni di detenzione, ne ricavano pestaggi da parte delle forze dell’ordine. Si può allora comprendere facilmente perché mai rivolte, scioperi della fame, tentativi di fuga disperati, atti di autolesionismo, suicidi e tentativi di suicidio siano tutt’oggi routine quotidiana dei lager italiani. Nondimeno, da nessun governo italiano è stato mai messo in discussione un simile mostro giuridico: reso ancor più mostruoso durante il quarto governo Berlusconi, allorché con il decreto-legge n. 89 del 23 giugno 2011, il periodo massimo di detenzione nei Cie fu elevato da sei a ben diciotto mesi. Anzi, esso è divenuto un sistema il quale, con nomi diversi e variabili nel corso del tempo, ricopre ormai l’intero territorio europeo. Eppure in tali strutture sono internate persone che non hanno commesso alcun reato, che non hanno subito alcun processo, che non lo subiranno in futuro (secondo la legge italiana l’ingresso irregolare non è un crimine, bensì un’infrazione amministrativa); e che nondimeno sono private perfino di quella personalità giuridica che un normale detenuto non perde del tutto.

Come scrissi a suo tempo, i Centri di permanenza temporanea e assistenza − così furono nominati inizialmente con un grottesco ossimoro eufemistico − sono figli di un imbarazzo linguistico che lascia trapelare cattiva coscienza o, per lo meno, forte disagio politico. Perché mai, infatti, piuttosto che definirli per ciò che sono, cioè centri di detenzione, si ricorse a un goffo stratagemma semantico? Perché chi li aveva concepiti sapeva bene che in uno stato di diritto è possibile comminare una pena detentiva solo a chi sia stato definitivamente condannato per taluni reati penali; e che, comunque, ogni forma di limitazione della libertà personale deve essere conseguente a un atto giudiziario. Lo stesso può dirsi dell’espediente di denominare gli/le internati/e come ospiti o addirittura utenti: altri due eufemismi volti a occultare la violazione di tali principi indiscutibili, le pesanti limitazioni arbitrarie della libertà personale, le violenze, anche estreme, perpetrate dai «guardiani» di tali lager ai danni degli/delle ospiti. V’è addirittura chi arriva a crederli e/o a definirli «centri di accoglienza», il che induce parte dell’opinione pubblica a scandalizzarsi allorché vi si manifestino proteste e rivolte, il che accade spesso.

La lezione impartita da un «governo amico» sarebbe stata poi ben appresa e, ovviamente, radicalizzata dai governi di destra, i quali, privi di ogni remora politica, ideologica, semantica, li avrebbero denominati ben più realisticamente Cie, cioè Centri d’identificazione ed espulsione, prolungando progressivamente il tempo di detenzione. Nessuna remora avrebbero mostrato neppure i ministri dell’Interno e della Giustizia di un governo detto di centro-sinistra: la loro legge, la n. 46, detta Minniti-Orlando, ha rinominato i lager come CPR, cioè Centri di permanenza per il rimpatrio. E non solo: nonostante il palese fallimento della detenzione amministrativa e i suoi orrori, essa stabiliva che occorresse «garantire l’ampliamento della rete dei centri».

Che tali strutture quasi-concentrazionarie − come le definì a suo tempo Etienne Balibar − fossero/siano anche mortifere, oltre che illegittime secondo la Costituzione italiana, apparve subito in modo lampante. Infatti, fin dagli esordi i Cpta (poi detti abitualmente Cpt) iniziarono a mietere vittime. La prima fu Amin Saber: internato nel Cpt di Caltanissetta, in contrada di Pian del Lago, nel corso di una rivolta fu ucciso probabilmente con una pallottola. Poco dopo, il 1° agosto 1998, fu la volta di Abdeleh Saler: dopo una protesta collettiva nel Centro di Lampedusa in cui era stato segregato, fu condotto nel carcere di Agrigento ove, dopo averlo pestato, gli somministrarono una dose letale di psicofarmaci.

A Ponte Galeria

Ancor più struggente il caso di Mohamed Ben Said, tunisino di 39 anni, morto la notte di Natale del 1999. Dopo aver scontato una piccola pena carceraria per un reato minore, fu condotto nel Cpt di Ponte Galeria, dove perfino secondo l’illegittima legge 40 non sarebbe dovuto stare: per giorni e giorni aveva gridato, non creduto da alcuno (se non dai suoi compagni di sventura), d’essere inespellibile poiché sposato con una cittadina italiana. La mandibola fratturata, probabilmente a causa del trattamento subito in carcere, aveva insistentemente reclamato cure mediche, mai ricevute. In risposta alle sue proteste, gli fu somministrata una tal dose di psicofarmaci da risultare esiziale. Mentre era moribondo, invano i suoi compagni di «permanenza temporanea e assistenza» chiesero aiuto disperatamente per ore e ore: le porte erano sbarrate dall’esterno e nessuno accorse. Fu quando ormai Mohamed era morto che qualcuno trovò il suo certificato di matrimonio. Pochi giorni dopo, nel corso della notte fra il 28 e il 29 dicembre di quello stesso anno, nel Centro «Serraino Vulpitta» di Trapani, onde reprimere un tentativo di fuga, le forze dell’ordine chiusero in una camerata dodici migranti, bloccandoli dall’esterno con una sbarra di ferro. Nell’intento di farsi aprire, uno degli internati diede fuoco a un materasso, provocando un incendio: tre di loro persero la vita subito, carbonizzati; altri tre, soccorsi e ricoverati all’Ospedale Civico di Palermo, morirono più tardi, dopo un’atroce agonia. Per queste morti l’ex prefetto di Trapani, Leonardo Cerenzia, fu rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio colposo plurimo: quel Centro, come tutti, era, infatti, caratterizzato da gravi carenze strutturali e dalla violazione delle più elementari norme antincendio, per non dire della lentezza e inadeguatezza dei soccorsi. Tali orrori, che ho riportato sinteticamente, accadevano nel corso di «governi amici»: il primo governo Prodi e i due successivi governi D’Alema.

Intanto, i «trattamenti inumani e degradanti», le rivolte, gli incendi, le violenze e le morti sospette continuano tutt’oggi, come se l’esperienza negativa di ventidue anni fosse passata invano. Eppure (o forse proprio per questo) occorre intensificare e allargare la lotta contro queste strutture quasi-concentrazionarie.

Annamaria Rivera

13/1/2021 https://comune-info.net

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