La mala eccellenza lombarda

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La sanità italiana era tra le migliori ma adesso è in crisi per colpa della politica che ha inserito il profitto. Gli ospedali sono diventati delle aziende. Oggi il medico viene rimborsato a prestazione, che è una follia razionale, scientifica ed etica. Si mette il medico in condizioni di dover fare o di ambire a fare più prestazioni perché così si guadagna e quindi si inventano nuove malattie e cure, oppure si fanno interventi chirurgici inutili”. Gino Strada

La Lombardia è la regione che più di tutte ha privatizzato la sanità

L’indebolimento degli investi-menti nel pubblico sta portando a disservizi e a disagi crescenti: mancano medici, in sofferenza i servizi di prevenzione, code e ritardi spaventosi per i malati, persone che rinunciano alle cure perché non ne hanno i mezzi.

I tre principali schieramenti che si sono contesi la guida della Lombardia nelle elezioni regionali non intendono discostarsi da questo quadro particolarmente desolante, che in Lombardia è l’esito di un processo che perdura da decenni e che l’ultima legge regionale (2021) ha perfino peggiorato.

Il centro-destra intende gestire la sanità Lombarda secondo i medesimi indirizzi che hanno portato alla tremenda catastrofe del Covid, di cui si è autoassolto

Moratti, con la sua lista sostenuta dal centro confindustriale di Calenda e Renzi, ha inaugurato nuove strutture realizzate con i fondi del Pnrr senza prevedere assunzioni pubbliche di medici e infermieri: privatizzare è la sua mission (Confindustria privatizzerebbe anche l’aria, se fosse possibile)

Il centrosinistra, silente nella crisi Covid e impegnato con la destra ad impedire la Commissione Parlamentare d’ Inchiesta, ha scelto di garantire gli interessi della sanità privata candidando una figura di primo piano di un grande gruppo della sanità privata milanese.

È questo il quadro desolante che si presenta oggi ai cittadini lombardi. In questo contesto emergono le contradizioni politiche che hanno portato la bergamasca ad essere il lazzaretto d’Europa con più di 4.000 vittime ufficiali del Covid (ma in realtà molte di più), su 1.100.000 abitanti, nei primi tre mesi della pandemia.

A fronte di questo dramma sociale e personale il quesito che oggi molti si pongono non è se la medicina territoriale bergamasca ha tenuto o meno, ma piuttosto di quali e di quante risorse avrebbe dovuto disporre la medicina territoriale per poter far fronte all’onda sciagurata della pandemia?

Nella narrazione della pandemia da Sars-Cov2, la medicina territoriale è stata definita da molti “l’anello debole” del sistema sanitario, la componente “che non avrebbe tenuto” nella prima ondata pandemica e in particolare in quel terribile marzo 2020. Ma questa spiegazione semplicistica appare però una narrazione di comodo, utile soprattutto a chi, responsabile dell’impoverimento delle Cure Primarie e della Sanità Pubblica, vuol negare il fallimento, forse anche inevitabile di fronte a una catastrofe pandemica, di un sistema che per decenni ha concentrato ogni investimento sanitario quasi esclusivamente sull’assistenza ospedaliera. Una narrazione che forse fa comodo anche a coloro che, se si decretasse il fallimento del sistema della Medicina Generale, sarebbero pronti a prenderne il posto.

Ma analizziamo il contesto reale. Poniamoci la domanda di quanti erano i soldati in forza alla Medicina Generale che – in una visione ancillare delle Cure Primarie – avrebbero dovuto difendere i Pronto Soccorso dall’assalto dei malati di Covid19? A Bergamo in quel marzo 2020 parliamo di 700 Medici di Medicina Generale, con qualche decina di infermieri di studio part time e 150 pediatri. Aggiungendo i Medici di Continuità Assistenziale e i Medici delle USCA non arriviamo 1000 unità. Circa un decimo dei sanitari presenti negli ospedali. Questi inizialmente erano anche privi di adeguati DPI, inacquistabili perché scomparsi praticamente dal mercato: 150 di loro si sono ammalati subito in quel mese di marzo, in 9 hanno perso la vita.

In pratica questi 700 medici (senza voler dimenticare pediatri e MCA e USCA) hanno gestito la maggior parte dei casi di Covid19 dell’intera pandemia. Cioè circa il 90% dei malati, che sono rimasti al domicilio e non hanno mai visto l’ospedale neanche da lontano.

Ma approfondiamo la situazione reale, e non le sciocchezze ufficiali che parlano ancora oggi di poco più di 4.000 morti nei tre mesi più critici. A marzo 2020 a Bergamo furono accertati un numero di casi dell’ordine di 10.000 tutti presso gli ospedali, dove i tamponi diagnostici erano disponibili, e si è registrato un numero di decessi per Covid19 di circa 3500 (l’eccesso di morti rispetto solo al marzo dell’anno precedente è calcolato statisticamente più vicino a 5000).

Se i casi reali fossero stati solo i 10.000 accertati con tampone, la malattia avrebbe dovuto avere una letalità impossibile, superiore al 35%. In realtà si sapeva già allora che la letalità generale della malattia era tra l’1 e il 2%. Questo significa che il numero reale dei casi superava, stando ai discutibili dati ufficiali, di oltre 10 volte quello degli accertati con tampone molecolare (i soli che comparivano nelle statistiche). In pratica nel mese di marzo 2020 nella provincia di Bergamo possiamo stimare un numero ufficiale di casi dell’ordine di 100.000 – 150.000 (in realtà probabilmente molti di più). Tolti i 10.000 assistiti in ospedale, questo significa che a marzo ognuno di quei 700 medici ha avuto più di 200 casi di Covid tra i suoi assistiti.

Considerando una durata media della malattia di 8 giorni, per ogni medico c’erano ogni giorno più di 50 malati di Covid19 da seguire a domicilio. Tra quei pazienti ve n’erano molti che, secondo tutte le linee guida del mondo, avrebbero dovuto essere ricoverati in ospedale, perché già con insufficienza respiratoria grave. Ma il numero 112 dell’emergenza non rispondeva, le ambulanze non arrivavano (soprattutto se il malato era ultrasessantenne), i Pronto Soccorso erano saturi con lunghe code di lettighe all’esterno e i posti letto dei reparti ospedalieri erano tutti occupati. Perché, bisogna ammetterlo, in quello sciagurato marzo 2020 a Bergamo culla dell’eccellenza lombarda anche gli ospedali non hanno tenuto. Questa è la verità.

Nel marzo 2020 le strutture ospedaliere provinciali nel loro insieme hanno diagnosticato e seguito 10.000 casi di Covid. In media 320 nuovi casi al giorno. Hanno svolto un lavoro titanico, hanno riconvertito in brevissimo tempo interi reparti alla gestione dei pazienti Covid19. Hanno trattato i casi che necessitavano di maggior intensità di cure e, nonostante la disponibilità di risorse umane, hanno subito uno stress che nessun operatore potrà mai dimenticare. Il paragone è scorretto per tanti motivi, ma se, nonostante gli sforzi eroici, queste strutture sanitarie che potevano contare su 10.000 operatori sanitari sono andate in crisi con 320 nuovi pazienti Covid19 al giorno, come si poteva pensare che il sistema delle Cure Primarie, con 1000 operatori, praticamente senza strumenti né personale di supporto, avrebbe potuto gestire più di 4.000 nuovi casi al giorno (alcuni dei quali con necessità di cure ospedaliere)?

La questione che questa situazione ha evidenziato non è se la medicina territoriale ha tenuto o meno, ma piuttosto di quali e di quante risorse avrebbe dovuto disporre la medicina territoriale per poter far fronte all’onda della pandemia. Bisognerebbe quindi farsi la domanda corretta e rispondere con investimenti conseguenti è questa l’unica possibilità per evitare che la prossima pandemia ci trovi ancora nelle stesse condizioni. Ma la Lombardia, e l’Italia, si appresta a fare esattamente il contrario procedendo a privatizzare in prospettiva anche la medicina territoriale, e non è difficile vedere le nuove sciagure che si accavallano all’orizzonte.

Francesco Macario

Segretario del PRC/SE della federazione di Bergamo

Borgo di Terzo 26 marzo 2023

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