La montagna sacra e il terricidio

Mentre il cuore sanguina a fiotti per la gente di Gaza, rinchiusa e intrappolata sotto il diluvio di bombe del furore punitivo israeliano, non possiamo non interrogarci sul perché quella terra-prigione sia, per molti versi, ancora la terra più amata del pianeta. È un’associazione di idee ardita ma una risposta, inaspettata e forse anche un po’ paradossale, ci pare possa arrivare anche da una geografia lontanissima: la steppa patagonica quasi alla fine del mondo. Ce la regala l’eccellente reportage che ci invia Raúl Zibechi. Nella prima tappa del suo viaggio nell’Argentina del sud, Raúl è andato a incontrare i gemelli Moira e Mauro Millán nel lof – una forma comunitaria non antropocentrica essenziale dell’organizzazione sociale mapuche – di Pillán Mahuiza, uno dei mille che esistono nel Puelmapu, la meravigliosa regione a est della cordigliera andina. Si tratta di un territorio di 150 ettari, circondato da cime innevate, recuperato dapprima da Moira, con l’occupazione di una stazione di polizia abbandonata, e poi dalla famiglia allargata intera e dagli amici comuneros. Il legame profondissimo, viscerale quanto politico, con quella terra “che ci parla e ci sceglie” – come spiega la visione spirituale di Moira – ci pare possa entrare in risonanza proprio con quel che tante volte abbiamo sentito raccontare dai Palestinesi che resistono, perfino nella diaspora, all’idea di dover rinunciare alla propria terra che serve ad altri. D’altra parte, anche in quella dei Mapuche che hanno resistito ai colonizzatori spagnoli e alla Conquista del Desierto dell’esercito argentino, le minacce estrattiviste sono devastanti. Dallo sfruttamento che avvelena la terra e l’acqua dell’industria mineraria estrattivista ai capitali del Qatar che oggi stanno comprando le sorgenti dei fiumi, come spiega Mauro. E Mauro noi lo ricordiamo bene, quando vent’anni fa – insieme ai coniugi Curiñanco – venne a Roma, nella redazione di Cartaa raccontarci di come avevano rifiutato – scandalizzando il sindaco Veltroni, il premio Nobel Perez Esquivel e Gianni Minà che avevano promosso un incontro “pacificatore” molto “riservato” – l’offerta indecente della Benetton. Il colosso della maglieria era infatti determinato ad aggiungere al suo milione di ettari patagonici anche il piccolo fazzoletto di terra di quella famiglia mapuche che imbrattava la sua immagine progressista nel mondo intero perché si ostinava a non considerarsi “gente da museo”: non accettava di essere trasferita altrove in cambio di un sostanzioso e oltremodo generoso risarcimento. È assai probabile che le nuvole sui cieli del nostro tempo non siano mai state così nere, eppure c’è poco da fare, in Palestina come in Patagonia, come dice spesso Moira, hanno seminato l’omicidio della terra, ma continuano ancora a raccogliere ribellione

Il disegno di Cizi Sol che raffigura Moira Millán è tratto dalla pagina facebook della stessa Moira, così come la foto di Mauro lo è dalla sua. Tutte le altre foto sono state scattate da Raúl Zibechi nel viaggio che ha dato vita a questo reportage.

“Stavo guevareando per le comunità”, comincia così a raccontare il lonko (l’autorità politica maschile fondamentale nella tradizione del popolo mapuche, così come la machi è quella, più spirituale, femminile, ndtMauro Millán, con il volto appena illuminato dal chiarore del focolare che ci protegge dal freddo intenso, mentre la carne si va cuocendo sulla griglia. Il vento della notte gela i volti nel lof (1) di Pillán Mahuiza, circondato da cime innevate, a pochi chilometri dalla frontiera con il Cile.

La comunità mapuche qui nasce quasi 25 anni fa, quando Moira, la sorella gemella di Mauro, occupò una stazione di polizia abbandonata e recuperò più o meno 150 ettari di territorio, dove oggi vivono figlie, figli e amiche della famiglia.

Per raggiungere il lof si fanno due ore di cammino da Esquel, siamo 1.800 chilometri a sud di Buenos Aires, in piena cordigliera andina. La strada combina l’asfalto e la ghiaia, da cui si staccano colonne di polvere al passaggio delle poche auto che vanno fino a Corcovado, il paese più vicino al lof. La strada si snoda tra montagne e corsi d’acqua torrenziali creati dallo scioglimento dei ghiacci che però, a un certo punto, scendono già verso l’altra parte della cordigliera per andare a riversarsi nel Pacifico.

Il panorama è affascinante quando il sole tinge di rosa le guance ghiacciate delle montagne. In basso, la steppa patagonica, brulla e monotona, si colora anch’essa di sfumature verdi man mano che le acque si moltiplicano. In queste regioni difficilmente si vedono coltivazioni, c’è solo bestiame: pecore, mucche e cavalli.

Attorno al fuoco, che qui si chiama fogón, si riuniscono tre generazioni mapuche: il nonno Luis, il figlio Mauro e il giovane Manke, che vuol dire condor nell’idioma mapudungun, lui è il solo ad avere il nome nella lingua nativa. Circola il vino di cui, secondo la ritualità, si offre alla terra il primo sorso sull’esempio di ciò che fa il lonko.

“A differenza di quanto accaduto in Cile, qui il territorio è stato schiacciato e i nostri fratelli furono internati nei campi di concentramento fino alla fine del secolo”, spiega Mauro. Fu solo nel 1890 che questi campi furono aperti. Le date non sono casuali: la cosiddetta Conquista del Deserto, quando lo Stato argentino occupò territori niente affatto disabitati con la forza delle armi, avvenne tra il 1875 e il 1878.

Le foto di Moira e Mauro Millán sono tratte dalle rispettive pagine facebook, tutte le altre sono state scattate da Raul Zibechi nel viaggio che ha dato vita a questo reportage

“Il cavallo è stato la nostra arma principale nella resistenza agli spagnoli e poi ai creoli”, continua il lonko. “Il nostro popolo non è mai stato sottomesso“, dice, guardando verso il fuoco.

Il nonno Luis ha avuto sei figli e sette fratelli. “Ho sempre saputo di essere mapuche, ma tutto è cambiato intorno al 1992, quando Mauro e Moira hanno iniziato a cercare la propria identità”. Da allora Luis cominciò a sentirsi orgoglioso della sua cultura. “Ho iniziato ad accompagnare i miei figli, sono entrato nella lotta. Ricordo che non è stato facile per il movimento No a la Mina di Esquel, accettare il mondo mapuche, ma poi col tempo sono cambiati», dice Luis ragionando sui rapporti con il mondo “bianco”.

Una riflessione che approfondisce Alejandro Yaniello, dell’Organizzazione Ecologista Piuké di Bariloche, che ci accompagna in questo viaggio. “Piuké, che in Mapudungun significa cuore, è nato perché negli anni Novanta abbiamo iniziato ad ascoltare i Mapuche che cominciavano a parlare. Ed è lì che percepiamo che le loro argomentazioni sono molto potenti”.

Sognare un altro mondo e renderlo realtà

È importante conoscere la storia dei tuoi antenati. Il mio bisnonno era un africano venuto dal Brasile, è rimasto orfano tre volte, perché i suoi genitori sono stati uccisi e poi sono state uccise le famiglie che lo avevano adottato”, Luis racconta la sua storia di vita, che termina sottolineando come sua nonna sia morta in un incendio insieme a diversi dei loro figli.

Più vicino alle concretezze terrene, Mauro mostra grande preoccupazione perché “i capitali del Qatar stanno comprando le sorgenti dei fiumi”. Cosa che non accade solo in Patagonia, dove grandi imprenditori si sono impossessati di gran parte delle terre e delle acque. Benetton, com’è noto, possiede un milione di ettari.

In questo quadro di estrattivismo sfrenato, Moira Millán ha recuperato i 150 ettari dove vive la sua famiglia, nel dicembre 1999. “Vivevo a Esquel ma lì ho passato un brutto periodo”, ricorda. Nel 1992 aderisce al Movimento Mapuche Tehuelche 11 ottobre, la data prima dell’arrivo dei conquistadores, l’ultimo giorno di libertà.

Da quel momento in poi, Moira iniziò a riprendersi da una storia di umiliazioni e molestie sessuali, come abitante di un quartiere di emergenza (una villa miseria) a Bahía Blanca e poi come collaboratrice domestica.

Si lamenta amaramente del razzismo che esiste nella sua città. “Il lavoro di articolazione delle comunità non può essere svolto da una donna”, spiega. Così il fratello Mauro si dedica a “guevarear” per le varie comunità, quel verbo rimanda al Che, personaggio ammirato per anni. “Le donne, mia madre, mio ​​fratello ed io abbiamo recuperato questa terra”.

Mauro e Moira interpretano ruoli diversi a causa del loro diverso status di genere. “Qui non c’era né un re né una struttura piramidale”, dice Mauro, ma piuttosto migliaia di lof. “Non potevano tagliare la testa come fecero con l’impero Inca, perché non c’era una testa“.

Il racconto di Moira mostra un tratto più spirituale ed è molto interessante la sua visione di come è arrivata nel territorio sulle rive del torrente Corcovado. “Feci un sogno. Ero ad una cerimonia mapuche, avevo tra le mani un kultrun (tamburo cerimoniale) e nel mio sogno è apparso questo luogo, quello dove vivo oggi. La terra ci parla. “Il territorio ci sceglie”, conclude. Ora dedica la sua vita al coordinamento di collettivi di donne indigene, sia in Argentina che nella regione patagonica.

È la storia di coloro che, pur essendo mapuche, sono nati nelle città, vi vagano smarriti e, a un certo momento, per motivi quasi più spirituali che materiali, intraprendono il lungo cammino del ritorno alla terra, alla ricerca della propria identità e della propria cultura, fino a trasformare un pezzo di campagna in un territorio di resistenza.

La lof-comunidad, come concetto e modo di vivere, è stata recuperata in quel lungo processo di ritorno al territorioracconta Mauro. Ma il recupero della spiritualità è stato fondamentale per raggiungere la terra, dice Moira. Recuperarono i luoghi cerimoniali, i rewe, ma anche i sogni, le visioni e le parole, cioè reimpararono a essere mapuche.

Mauro Millan con la nipotina Guillermina

“I lof sono un patrimonio affinché le generazioni future possano camminare su un suolo più libero”, aggiunge Mauro. Lui stima che nel Puelmapu (il territorio mapuche a est della cordigliera andina) esistano circa mille lof , è un calcolo che si riferisce anche alle affermazioni del giornalista Darío Aranda, il quale sostiene che il popolo mapuche ha recuperato 100mila ettari negli ultimi 30 anni.

Gabriel e Javier, due giovani comuneros della comunità Nahuelpan, a 15 chilometri da Esquel, partecipano al nostro cerchio intorno al fuoco. Dicono che “la società mapuche sfida la proprietà privata”, mentre la società bianca o coloniale “ha recintato l’intera regione con i soldati tra il 1937 e il 1948”. Raccontano una lunga storia di espropriazione, evidenziando la perdita della lingua che hanno studiato “per poter raccontare la storia”.

I ceppi di legno continuano ad ardere, illuminando la notte. Poi, a poco a poco, si vanno spegnendo perché Mauro ha smesso di alimentare il fogón, segno che è ora di cominciare a disperdere il nostro cerchio. Un sollievo e una pena, allo stesso tempo. Sfuggire al freddo tremendo e però abbandonare il calore delle parole, dei gesti e degli sguardi. Fino al prossimo lof, costeggiando nel cammino le nevi della cordigliera.

Nota

(1) Nella nostra lingua, il Lof è una comunità, una delle basi dell’organizzazione sociale del popolo mapuche, ma anche in questo caso il concetto di comunità differisce radicalmente da quello cui siamo abituati in Occidente. Ed è curioso, e allo stesso tempo poetico, che fosse proprio l’idea di comunità una delle prime che abbiamo dovuto reimparare. Perché è in questo concetto tanto familiare e imprescindibile nel mondo Occidentale contemporaneo, base di tante rivendicazioni sociali e culturali nate all’insegna della lotta al sistema capitalistico, che il popolo mapuche riconosce una delle prime grandi differenze. È diverso dal concetto occidentale di comunità come gruppo di esseri umani che condividono alcuni elementi, come un luogo geografico, una lingua, dei costumi e dei valori.

mapuche riconoscono come membri del Lof tutti gli esseri che abitano il territorio. Anche quelli che secondo la nostra visione occidentale del cosmo cataloghiamo come inanimati, come privi di vita: dai fiumi alle cascate, dai boschi alle montagne, dagli animali alle pietre, annullando così la visione antropocentrica che separa l’essere umano, sempre superiore e sempre perfetto, dagli elementi che in Occidente chiamiamo natura. Una serie di elementi, a noi estranei, a cui non riconosciamo il diritto all’esistenza senza la mediazione umana (tratto da www.tbqvoices.com/anche-le-pietre).

Raúl Zibechi

19/19/2023 https://comune-info.net/


La versione originale di questo reportage in spagnolo è uscita su Desinformémonos

La traduzione per Comune-info è di marco calabria

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