La morte degli altri

Trump attacca migranti, “non sono persone, sono animali”. Yoav Gallant, ministro della difesa israe­liano: “Stiamo combattendo gli animali umani”.  Si ripropone il paradigma coloniale sempre più esplicito e violento che consente di distinguere fra “vite degne di lutto” e “vite indegne di lutto”¹. La fame, la vita e la morte: il “doppio standard”.

La mattina, all’inizio della giornata (generalmente tardi), trovo la posta elettronica intasata da una massa di newsletter e “alert”, nazionali e internazionali. Poca posta indesiderata, tutto il resto voluto, per lo più a pagamento. Da un po’ di tempo la tentazione è di non aprire quella posta, o di cancellarla in blocco, di disiscrivermi da tutto. Dalla pandemia in poi, quella posta è ormai un doloroso, ripetitivo bollettino di guerra e di cattive notizie. Negli ultimi tempi sono rimasto colpito da quanto frequentemente ricorra la notizia di morti collettive per fame e sete.

15 marzo.  La Stampa: “Sessanta migranti uccisi dalla fame e dalla sete nel Mediterraneo. Ignorato l’Sos. Alla deriva per giorni senza cibo né acqua, inghiottiti in mare. I 25 superstiti in viaggio verso Ancona sulla Ocean Viking.”  Titolo e sottotitolo dell’articolo di Eleonora Camilli, che scrive:

Morti di fame e di sete dopo una settimana alla deriva ai confini dell’Europa. Sono almeno 60 le vittime dell’ultima tragedia nel Mar Mediterraneo. Nessuno ha risposto all’Sos lanciato dal centralino dell’ong Alarm phone per soccorrere il gommone partito dal porto di Zawija, in Libia, con a bordo circa ottanta persone, tra cui donne e bambini. Quando nella notte tra martedì e mercoledì, la nave umanitaria di

Sos Mediterranée, Ocean Viking, ha individuato il relitto fantasma, con 25 superstiti, si è trovata davanti a una scena mai vista prima, in sette anni di attività. Persone gravemente deperite e disidratate, allo stremo delle forze, sopravvissute bevendo solo acqua di mare. Tra loro anche 12 minori non accompagnati. Tutti sotto choc per aver visto morire ad uno ad uno i compagni di viaggio. E per esser stati costretti a gettare i loro corpi in mare. Un uomo, di origine senegalese, con un filo di voce, ha raccontato ai soccorritori di aver assistito alla morte del figlio e di sua moglie: il piccolo di appena un anno e mezzo non ha superato il secondo giorno, la madre è morta due giorni dopo.(…) Dopo il recupero dei naufraghi, l’ong ha operato due soccorsi, salvando altre duecento persone, tra cui 20 donne e 30 minori, anche piccolissimi, sotto i quattro anni. Che toccheranno terra però solo fra cinque giorni. Alla nave dell’ong è stato infatti assegnato il porto di sbarco di Ancona, nelle Marche, a 1.450 chilometri di distanza. «È una decisione che aggiunge solo sofferenza a una situazione già terribile, alcuni naufraghi sono ancora attaccati all’ossigeno per riprendersi –  afferma Valeria Taurino, direttrice generale di Sos Mediterranée –. Quella dei porti lontani è ormai una prassi, ma spesso è disumana»”.

PS. 16 marzo. Il governo ci ripensa: “Alla fine è arrivato l’ok del Viminale allo sbarco a Catania nella notte, ma solo per i 23 superstiti del naufragio di mercoledì, in condizioni di salute critiche dopo una settimana in mare. Per gli altri 336 migranti a bordo della Ocean Viking la destinazione resta Ancona” (Ansa). 

14  Marzo. Newsletter del Corriere della Sera – Il Mondo Capovolto. Meritoria pubblicazione settimanale online dedicata alle notizie dal Sud del Mondo (generalmente ignorate dai quotidiani). Questo numero è dedicato a Haiti, dove milioni di persone stanno soffrendo la fame.

Scrive Sara Gandolfi: “La perla delle Antille è oggi una nazione disgraziata anche per colpa di noi occidentali. La nuova ondata di violenze è l’ultimo flagello, soprattutto per gli abitanti di Port-au-Prince. Dal terremoto del 2010 ad Haiti non si fa un censimento, ma si stima che nella capitale viva la stragrande maggioranza della popolazione, circa 10 milioni di persone. Sono quasi tutti barricati nelle case, a parte i membri delle gang che spadroneggiano ormai in tutti i quartieri e governano nelle principali bidonville. (…) Gli incessanti attacchi delle gang hanno paralizzato il Paese e lo hanno lasciato con scorte di beni di prima necessità sempre più esigue. A peggiorare la situazione è stata la chiusura del principale porto marittimo di Port-au-Prince, che ha bloccato decine di container pieni di beni critici come cibo e forniture mediche. Secondo le autorità, metà della popolazione non ha abbastanza cibo e 1,4 milioni di persone stanno soffrendo la fame”.

“Una barca a vela di migranti haitiani, – aggiunge Guido Olimpio – una delle molte che solcano i Caraibi. Partire, andare via, fuggire dalla miseria e ora dal potere selvaggio di orde criminali: è la scelta obbligata per migliaia di cittadini. Dopo il terremoto del 2010 c’è stato un esodo massiccio verso i Paesi sudamericani – ad esempio il Brasile – ma con il peggioramento della situazione economica in tanti hanno dovuto rimettersi in marcia per iniziare una nuova vita. Come per altre nazionalità gli illegali puntano sugli Stati Uniti seguendo itinerari “classici”: via mare oppure attraverso il corridoio “continentale”, più o meno lungo a seconda delle disponibilità”.

8/14 Marzo. N. 1553 di Internazionale. Copertina dedicata a “Gaza. L’arma della fame”, con l’editoriale di Le Monde e cinque articoli tratti da varie fonti.

Quello del Financial Times, firmato da Mehul Srivastava, Neri Zilber e Heba Saleh, s’intitola: Gaza. La fame diventa un’arma.

“Era ancora buio quando una trentina di camion carichi di provviste alimentari hanno raggiunto un posto di blocco israeliano sulla strada Al Rashid, nella città di Gaza, un tratto di strada costiera che quattro mesi fa era costellato di alberghi, sale per ricevimenti e chioschi di gelati. Intorno alle quattro di notte del 29 febbraio, come mostrano i video condivisi da alcuni palestinesi, la strada è diventata un paesaggio distopico, con persone affamate che si arrampicavano sulle macerie degli edifici distrutti dall’esercito israeliano, accendendo fuochi per riscaldarsi e cercando qualcosa da mangiare per le famiglie. Si era diffusa la notizia dell’arrivo di un convoglio di aiuti. Amein Abou al Hassan, 40 anni, aveva camminato due ore per trovare di che sfamare la moglie e i tre figli. Un sacco di farina al mercato nero costa ormai 500 dollari. Da settimane nel nord della Striscia di Gaza circa trecentomila persone soffrono la fame e vivono ai limiti della carestia, avvertono le Nazioni Unite. Le madri usano il mangime per gli asini per fare il pane e i bambini masticano le foglie strappate dagli alberi, raccontano i funzionari dell’Onu che hanno effettuato una rara missione di ricognizione nel territorio devastato dalla campagna militare. L’ordine pubblico è al collasso. La polizia palestinese è scomparsa, dopo che i suoi agenti sono stati uccisi dagli attacchi aerei israeliani. Bande di giovani si aggirano per le strade avventandosi sui più piccoli carichi di cose da mangiare. Alcuni  sono disperatamente affamati, altri rubano per vendere al mercato nero”.

L’evento mostra le conseguenze della decisione d’Israele di ostacolare la consegna di aiuti indispensabili, spingendo milioni di persone verso la carestia –  commenta Le Monde. Non si tratta di un incidente isolato. Al contrario, rivela ciò che lo stato ebraico vorrebbe fare nella Striscia di Gaza dopo un’operazione militare di cui non si intravede la fine, e questo nonostante abbia fallito nel raggiungere i due obiettivi dichiarati: la liberazione degli ostaggi e l’eliminazione di Hamas. Dopo aver trasformato la Striscia in un cumulo di macerie, Israele sembra voler distruggere qualsiasi forma di amministrazione, non solo quella dell’organizzazione islamista. Lo dimostra il tentativo di abolire l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, che svolge un ruolo fondamentale a Gaza. Il piano di Israele è confermato dall’irremovibile rifiuto del primo ministro Benjamin Netanyahu di sostenere il ritorno nella Striscia di un’Autorità nazionale palestinese “rivitalizzata”, come proposto dal presidente statunitense Joe Biden. Tel Aviv preferisce il caos”.

15 Marzo. La Repubblica. La fame, la vita e la morte, e il “doppio standard”. L’intervista con la scrittrice palestinese Suad Amiry. Di Francesca Caferri.

RAMALLAH — Se si vuole capire la rabbia, la delusione, la sfiducia che i palestinesi sentono dopo più di cinque mesi di guerra a Gaza e la morte di 32 mila persone, è fino alla casa di Suad Amiry, nel quartiere Al Bira, che bisogna venire. La scrittrice, 73enne, è da anni una delle voci più amate della letteratura in lingua araba nel mondo.

(…)  Mi sta dicendo che il 7 ottobre è il risultato naturale della crisi fra israeliani e palestinesi?

«Non una continuazione naturale, ma la reazione all’occupazione israeliana e una situazione di apartheid in cui noi palestinesi siamo cittadini di terza classe. Con la seconda classe che è costituita dagli arabi israeliani».

Quindi se io le chiedo se condanna Hamas per il 7 ottobre…

«Io le rispondo che rispetto la legge internazionale che vieta l’uccisione di tutti i civili. Ma anche che mi sembra che l’Occidente dia più valore ad alcune vite rispetto ad altre. Perché non abbiamo sentito condanne per i civili palestinesi uccisi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania prima del 7 di ottobre?». (…)

Riferimenti

¹ Lucia Re. Guerra, diritto, vulnerabilità. Saluteinternazionale del 19 febbraio 2024

Gavino Maciocco

20/3/2024 https://www.saluteinternazionale.info/

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