La salute e la pace

Di fronte alle guerre combattute con moderni armamenti ed eserciti, la scelta pacifista risulta obbligata anche per chi non parte da una posizione di rifiuto categorico della violenza. L’unica opzione a disposizione, soprattutto per chi svolge una professione sanitaria è quindi quella dell’opposizione alle guerre, della prevenzione dei conflitti e della promozione della pace. La guerra è una catastrofe di sanità pubblica che va prevenuta o fermata il prima possibile nel caso sia già in atto.

L’Associazione italiana di epidemiologia (Aie) insieme alla rivista Epidemiologia&Prevenzione (E&P) da luglio di quest’anno ha lanciato una iniziativa rivolta all’intero mondo scientifico di area biomedica a favore della stesura di una dichiarazione congiunta che difenda le ragioni della promozione della pace come compito professionale di chi è impegnato nella tutela e nella promozione della salute, nelle università e centri di ricerca, negli ospedali, sul territorio e nei diversi dipartimenti delle ASL. Questa iniziativa si inserisce in un filone di attività promosse da un gruppo di lavoro all’interno dell’Aie, attivo sin dal 2004, che si dedica all’analisi dei conflitti armati e del militarismo come determinante della salute.

Come ho cercato di documentare nel mio libro “Guerra o salute: dalle evidenze scientifiche alla promozione della pace”, appena pubblicato da Il Pensiero scientifico editore[1], dall’analisi delle guerre emergono alcune caratteristiche che si ripetono con deprimente monotonia in tutti conflitti armati che impiegano tecnologie ed eserciti moderni. Le caratteristiche degli armamenti e tecnologie oggigiorno disponibili fanno sì che ogni guerra sia caratterizzata, per sua intrinseca natura, dalla mancanza di limiti spaziali, temporali e giuridici; dalla impossibilità di discriminare tra obiettivi militari e civili (compresi ospedali e strutture sanitarie); dalla costante violazione delle leggi umanitarie internazionali; da effetti indiretti e a lungo periodo, dovuti anche agli enormi danni ambientali, che provocano sofferenze che tipicamente si estendono molto oltre la durata dei combattimenti; e dalla sempre possibile evoluzione in guerra nucleare, anche per errore.

In una guerra da manuale tutto diventa un bersaglio: le infrastrutture di approvvigionamento elettrico, idrico e di smaltimento dei liquami; le strutture sanitarie; le industrie chimiche con conseguente rilascio di sostanze tossiche nell’ambiente; le industrie che garantiscono la produzione di merci essenziali; i campi destinati all’agricoltura; strade, ponti, dighe e la rete ferroviaria, persino le scuole e le abitazioni civili. Le armi e tecnologie utilizzate non hanno solo effetti immediati, ma provocano direttamente e indirettamente anche effetti a lunga latenza. A questi vanno aggiunti altri effetti più generici e trasversali, come l’aumento delle disuguaglianze sociali, il caos generale, l’interruzione delle attività scolastiche, universitarie e culturali, la distruzione di posti di lavoro, l’emigrazione di massa. Il risultato finale, al di là degli obbiettivi dichiarati, è sempre quello della distruzione dell’ambiente fisico e della fibra sociale di un intero Paese o territorio. Sempre, l’esito è la devastazione e un trauma che raramente trova una sua ricomposizione. Come spero di aver evidenziato in maniera convincente in Guerra o salute, di fronte alle guerre combattute con moderni armamenti ed eserciti, la scelta pacifista risulta obbligata anche per chi non parte da una posizione di rifiuto categorico della violenza. L’unica opzione a disposizione, soprattutto per chi svolge una professione sanitaria è quindi quella dell’opposizione alle guerre, della prevenzione dei conflitti e della promozione della pace. La guerra è una catastrofe di sanità pubblica che va prevenuta o fermata il prima possibile nel caso sia già in atto.

Pirous Fateh-Moghadam

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23/10/2023

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