La sanità pubblica ridotta a cibo per le iene

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Per una sanità pubblica universale e gratuita

La gestione della pandemia da covid, e intendo in questa sede quella politico sanitaria, è stata disastrosa sotto ogni aspetto, volta ad incamerare processi speculativi ed ad ampliare esiti privatizzatori in questo senso occorre far scorrere alcuni fotogrammi di cosa è stato e cosa era il sistema sanitario nazionale prima del febbraio 2020 al momento in cui siamo stati travolti dalla pandemia, partendo da un dato certo e drammaticamente reale: negli ultimi 10 anni sono stati tagliati alla spesa sanitaria 37 miliardi di euro, frutto di un preciso disegno politico di privatizzazione del sistema, esito da perseguire ed ottenere senza suscitare eccessivi conflitti locali e troppi evidenti violazioni costituzionali.

Il progetto parte da lontano, sin dallo smantellamento della famosa legge 833 del 23 dicembre 1978, che abolì i regimi corporativi mutualistici per istituire il sistema sanitario nazionale ispirato a: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana.”
Questa legge dava finalmente al popolo italiano il diritto alla salute in modo uniforme, universale e al di fuori di una logica speculativa in cui il profitto era davanti alla salute dell’individuo. Questa norma non è mai entrata in vigore a pieno regime anzi sin all’inizio furono chiamati a gestire questa riforma i ministri liberali che manifestamente l’avversavano.

Colpo mortale all’universalità del sistema sanitario nazionale e al diritto alla salute fu la legge 502 del 30 dicembre 1992 quando si trasformò le unità sanitarie locali in aziende sanitarie locali, introducendo l’aberrante logica del profitto aziendale sulla cura delle malattie. Successivamente con la legge costituzionale n 3 del 18 ottobre 2001 fu riformato il Titolo V della Costituzione, in regime legislativo concorrente tra Stato e Regioni, furono affidati a quest’ultime tutte le competenze sulla programmazione e la gestione sanitaria locale regionale dando di fatto l’avvio a modelli di sviluppo differenti, in sostanza 21 sistemi sanitari e spesso anche concorrenti tra loro. Il 23 febbraio 2002 entrarono in vigore i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e si diede avvio ai così detti “patti per la salute” il cui unico scopo era controllare e ridurre la spesa sanitaria indirizzando maggiori risorse pubbliche verso la sanità privata, riducendo drasticamente e drammaticamente i servizi sanitari erogati, avviando tagli ad ospedali e ambulatori territoriali. Questo in estrema sintesi è il processo di smantellamento della rete universale sanitaria, che subisce una impetuosa accelerata in questi ultimi 10 anni.

Il processo di privatizzazione è il punto centrale della politica sanitaria di questi anni, inciso a fuoco con i 37 mld di tagli al finanziamento del sistema sanitario nazionale ( più altri 4 previsti da Draghi) , mediante la riduzione dei servizi, con Lea troppo spesso fasulli, garantiti a parole ma inesigibili nei fatti, sprechi assurdi per lo più facenti parte di appalti scriteriati, inefficienze volute e cercate, per “dirottare i pazienti” verso il sistema privato riducendoli a “clienti”, politiche del personale volte al taglio dei costi, con mancanza persistente di figure mediche e delle professioni sanitarie e persino classista nella formazione, introducendo corsi universitari e specialistici a numero chiuso.

Un disastro annunciato ma perseguito scientemente, per innescare la crescita esponenziale dei profitti sulla salute, un vero e proprio crimine sociale e sull’umanità. Un atteggiamento criminale e non solo perché si è trasformata la salute in merce, ma anche perché l’innovazione tecnologica e farmacologica è figlia di una ricerca sempre più finalizzata alla redditività dei prodotti con costi così elevati da impedirne l’accesso ad un pezzo significativo della popolazione.

Viene imposta una scienza che serve alla cura e al mantenimento della malattia, che produrrà maggiori profitti speculando sulla malattia.
Viene mortificata e inibita la ricerca della prevenzione alle insorgenze patologiche e alle cause che le generano.

Non dimentichiamo che l’intera filiera sanitaria genera un prodotto interno lordo dell’11% e che solo il 6,4% è la spesa sanitaria pubblica, per altro utilizzata in parte come bancomat per le imprese della sanità privata.

Le modifiche al Titolo V della Costituzione, volute dal PD (e sui precedenti), hanno di fatto smantellato l’unitarietà del sistema sanitario nazionale, allargando la forbice tra una buona sanità diffusa territorialmente nel centro nord del paese e una sanità del tutto inadeguata nel centro sud e sud, inoltre alcune aree hanno sviluppato processi importanti di adeguamento tecnologico e operativo, mentre altre zone sprofondavano sempre più con strutture fatiscenti, nessuna programmazione che incrementasse i servizi sanitari necessari, progressivo allontanamento dei livelli qualitativi rivolti alle popolazioni locali . Un disastro pazzesco, innescato da questa modifica costituzionale inserita dentro ad un cambio sostanziale lella logica di sistema che aveva trasformato quelle che erano unità sanitarie locali, ossia una rete di servizi territoriali di base, in una azienda sanitaria locale il cui scopo, come per ogni azienda, è la ricerca del profitto a tutti i costi, con buona pace all’art. 32 della Costituzione .

Una politica assurda e scellerata, con enormi risparmi fatti sulla pelle della gente, dai tagli di posti letto, alla chiusura dei reparti e degli ospedali, dalla distruzione della rete delle emergenze (poi drammaticamente emersa con la pandemia) alla riduzione del personale sino alla umiliazione di molte delle figure professionali sanitarie. Una sola forza politica si oppose alla Modifica del titolo V e alla aziendalizzazione della sanità, e fu Rifondazione Comunista, ovviamente descritta come ideologica e vecchia forza di opposizione alla meraviglia del progresso, che vedeva nel “meno stato e più mercato” la soluzione di problemi. Peccato che quella soluzione dei problemi cancellava dei diritti fondamentali.

Non paghi dello smembramento del diritto alla salute oggi non solo si insiste con la follia delle regionalizzazioni dei sistemi sanitari, ma anzi si rincara la dose chiedendo per regioni governate dal centrodestra e dal centrosinistra un ulteriore autonomia differenziata, che produrrà inevitabilmente qualità sanitarie differenti sia in termini di strutture adeguate sia in termini di accessibilità alle prestazioni e quindi maggiori e definitive privatizzazioni del sistema.

Come già detto il pessimo giudizio sulla gestione politica dell’emergenza sanitaria durante il covid, anziché produrre riflessioni e ripensamenti sullo stato del SSN pubblico, oltre a produrre la più grande speculazione mai avvenuta sulla pelle dei cittadini, diviene addirittura motivo di crescita di processi di Come già detto il pessimo giudizio sulla gestione politica dell’emergenza sanitaria durante il covid, anziché produrre riflessioni e ripensamenti sullo stato del SSN pubblico, oltre a produrre la più grande speculazione mai avvenuta sulla pelle dei cittadini, diviene addirittura motivo di crescita di processi di privatizzazione. Gli elementi di criticità emersi durante la pandemia, ossia la mancanza di posti letto ordinari e di terapia intensiva e subintensiva, le chiusure di reparti e dipartimenti, la carenza di medicina territoriale, la drastica riduzione del personale sanitario in questi decenni, sono il frutto di scelte politiche mirate ad implementare non la risposta pubblica e universale del diritto alla salute, ma quella del passaggio di consegne per la presa in carico dei pazienti alle strutture sanitarie private, che ovviamente trasformano il paziente in cliente. Quando il ministro Speranza annuncia l’intensificazione dell’integrazione pubblico/privato dice esattamente questa cosa.

Del resto basta guardare agli ultimi dati disponibili e post covid per capire lo spostamento verso il privato del sistema sanitario nazionale : l’assistenza ospedaliera ha 516 strutture pubbliche e 488 strutture private accreditate, 3527 strutture ambulatoriali specialistiche pubbliche e ben 5276 private convenzionate, 1318 di assistenza territoriale residenziale pubbliche a fronte di 6540 strutture private convenzionate, 251 strutture di assistenza riabilitativa pubbliche e 900 strutture private accreditate . Numeri sbalorditivi che mettono in evidenza come la sanità pubblica sia oramai quasi residuale e subalterna alla totale mercificazione della salute.

Ma non basta, attraverso la gestione covid, la spinta ad ulteriori privatizzazioni si materializza in diversi atti da parte di giunte regionali, mediante appalti per la gestione a privati di pezzi e reparti ospedalieri se non addirittura interi dipartimenti con relative strutture.
E’ stata creata ad arte durante l’emergenza la chiusura delle prestazioni di ricezione e di cura di gran parte delle patologie non covid, nonché l’accertamento diagnostico, il tutto per poi dirottare all’esterno verso il privato convenzionato le prestazioni. Anziché coprire la carenza di personale e di strumenti tecnologici, per dare adeguate fondamenta strutturali anche future si esternalizza quel che resta e spesso si costringe chi ha necessità impellenti a rivolgersi al privato/privato con costi spesso insopportabili per comuni mortali.
Politiche mirate e criminali, politiche neoliberiste che guardano alla salute come una qualsiasi merce da cui ricavare profitto. Unione popolare chiede una commissione parlamentare d’inchiesta su tutti gli aspetti della gestione dell’emergenza pandemica, troppe, praticamente tutte le decisioni assunte avevano e hanno un tornaconto economico a scapito della salute pubblica.

Proprio perché occorre davvero rovesciare completamente il sistema, Unione popolare nella sua sintesi programmatica sulla sanità afferma cose possibili e condivisibili a cui mi permetto di aggiungere i seguenti approfondimenti:

Il primo punto è quindi quello di tornare ad un sistema sanitario unico, centrale, gratuito in cui il ruolo dei territori sia di studio e programmazione delle esigenze popolari, di applicazione e gestione dal basso con un controllo attivo da parte dei cittadini.

La salute va posta al centro della politica e delle sue decisioni, non solo quelle sanitarie, ma anche ambientali, industriali, sociali, economiche e fiscali

Cancellazione delle Aziende sanitarie locali, ossia superamento di ogni logica aziendalistica, per introdurre parametri completamente rovesciati da quelli attuali della ricerca del profitto. I parametri da assumere sono quelli della qualità della vita, della ricerca per superare le cause della insorgenza delle patologie, premiando questo percorso e non la stabilizzazione e cronicizzazione delle malattie, lo sviluppo di una politica di prevenzione reale e di massa.

La cura deve essere l’ultima delle opzioni di un sistema che funziona e naturalmente deve essere efficace, di qualità e svincolata da costi elevati che ne rendono inapplicabile la diffusione universale. Per capirci, i farmaci tecnologicamente più avanzati, ad esempio gli antitumorali, i cui costi sono oggi esorbitanti, devono essere disponibili ad ogni necessità di cura e non sulla base di una scelta economicista, che alla fine diventa classista e per censo.

In questo senso occorre un vero piano di investimenti sia per riorganizzare il servizio sanitario nazionale sia per l’adeguamento strutturale e strumentale. Raddoppiando il fondo sanitario nazionale dall’attuale 6% al 12% del prodotto interno lordo. Siccome so bene l’obiezione che viene mossa ogni qualvolta si parla di spesa sociale, cioè dove si prendono le risorse?
Sottolineo che i capitoli di spesa ed entrate possono essere completamente rivisti: ad esempio si deve smettere di buttare centinaia di miliardi in spese militari e armamenti, bisogna combattere corruzione e sprechi nei servizi pubblici, fare una vera lotta all’evasione fiscale, mettere una patrimoniale. Di sicuro in questo modo avremmo le risorse sia per la sanità, che per gli altri servizi sociali e previdenziali.

Il piano sanitario va integrato con un servizio socio-sanitario nazionale, per l’evidente intreccio tra i bisogni sociali e il benessere delle persone. Una rete di protezione sociale che prevenga e curi le fragilità, è essenziale nel percorso di prevenzione alle malattie e nella cura al momento della insorgenza patologica, riducendo non solo i costi sanitari ma quelli più generali al malessere di vivere.

Occorre rivedere completamente la rete territoriale di base, a partire dal medico di famiglia, che nel recuperare un rapporto più diretto con i pazienti anche a domicilio, deve avere le condizioni per essere davvero il primo filtro sulle prestazioni sanitarie. Servono in ogni quartiere dei poliambulatori pubblici di primo soccorso, in cui gruppi associati di medici di famiglia garantiscono oltre alle visite al proprio assistito, anche il soccorso in codice bianco in H24, ciò favorirebbe un decongestionamento del pronto soccorso ospedaliero e una più efficace risposta sanitaria ai cittadini. Una medicina territoriale dotata delle principali strumentazioni diagnostiche necessarie alle prime cure, superando convenzioni con i privati per una sanità totalmente pubblica.

In questo modo la rete delle emergenze potrebbe essere davvero riorganizzata su base provinciale con DEA (dipartimento emergenza accettazione) di primo e secondo livello, in cui il secondo livello, quello con le maggiori complessità, deve essere presente in ogni provincia. Questo significa una maggiore e adeguata presenza di posti letto in terapia intensiva e di posti letto in pronto soccorso, avvicinandosi ai parametri vigenti oggi in Germania (quattro volte quella nostra attuale).

La rete ospedaliera va rimodulata aumentando i posti letto di degenza e ripristinando i dipartimenti cancellati o pesantemente tagliati, Ogni provincia, in ogni caso, deve avere nella rete ospedaliera territoriale una ampia specializzazione diffusa capace di rispondere alle emergenze e alla specificità emidemiologica locale.

Questo comporta una massiccia assunzione in tutte le professioni sanitarie. Va posto fine al numero chiuso nelle facoltà, Servono almeno il 30% di medici in più e il raddoppio degli infermieri ed almeno il 50% in più di tecnici di ogni specializzazione. Queste professioni, oltre ad essere essenziali per lo sviluppo di una adeguata rete sanitaria devono essere poste nelle condizioni di operare al meglio in tutela della salute dei cittadini e ciò comporta assunzioni a tempo indeterminato e anche un adeguamento salariale almeno ai livelli medi europei. Identico percorso va fatto nella rete integrativa socio-sanitaria nazionale.

La pandemia ha messo in evidenza come sia urgente e necessario dotarsi di piani di intervento in casi analoghi, dove ogni unità sanitaria locale abbia la possibilità di mettere a rete una presenza territoriale fatta di strutture (residenze sanitarie protette) per la quarantena in sicurezza e comunque utilizzabili per contagi da virus e di una strumentazione diagnostica efficace per un controllo di massa sulla positività al virus, il tutto anche per facilitare il trattamento di cura farmacologica adeguate senza passività assurde e dannose come quella della tachipirina e vigile attesa.

Va superato il sistema del DRG e introdotto un sistema di finanziamento basato sullo storico opportunamente adeguato e corretto alle esigenze specifiche territoriali tratte da situazioni analoghe già in essere. Così come vanno cancellati i ticket di qualsiasi natura e centralizzata la principale produzione farmacologica in struttura pubblica in particolare per vaccini, farmaci oncologici e salvavita. Va rivisto completamente il prontuario farmaceutico riducendo drasticamente i farmaci con lo stesso principio attivo e posto un tetto non superiore ai 10 anni per i brevetti delle case farmaceutiche.

Superare anche il concetto, tutto economicista, dei livelli essenziali di assistenza delle prestazioni sanitarie.
Il diritto alla salute è un diritto pieno, non ha un livello essenziale e un altro non strettamente necessario.
Possiamo e dobbiamo dare un senso logico e sociale alla appropriatezza della prestazione ma non si può rinunciare ad una prestazione solo perché questa ha aspetti di diseconomicità. Ad esempio non si può decidere di non fare una TAC o una RM, perché il soggetto presenta una età avanzata o un panorama compromesso da altre manifestazioni patologiche.

La ricerca deve essere pubblica e con almeno il triplo dell’attuale finanziamento in essere. Una ricerca svincolata da meccanismi di “direzione” ai fini commerciali è il principio fondamentale per garantire una qualità della vita che cresce in meglio e non legata al puro consumo. Una ricerca con fini sociali e non profittuali non può che essere pubblica e ogni risorsa pubblica destinata alla ricerca non può non avere tale finalità, ciò significa ad esempio che la produzione e la somministrazione di farmaci salvavita vaccini compresi, devono essere pubblici e fuori da ogni logica speculativa.

Infine, ma non per ultimo in ordine di importanza, va attuato un vero piano di riduzione degli infortuni sul lavoro, per tendere ad eliminare definitivamente la morte nei luoghi di lavoro. Il sistema sanitario dovrebbe istituire uno specifico settore, nel dipartimento della medicina del lavoro, affinché con INPS e INAIL, non solo si esercitano i controlli necessari al rispetto delle norme sulla sicurezza negli ambienti di lavoro, mediante l’assunzione del personale necessario, ma si introduca penalizzazioni significative per quelle aziende che non le rispettano.

Marco Nesci
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

già responsabile nazionale delle politiche sanitarie del PRC

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