La sporca questione delle supplenze

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Non so se avete mai lavorato in un asilo nido o in una scuola materna. In passato sono stato per un anno supplente nei nidi bolognesi e mi ricordo la facilità con cui ci si prendono le malattie tipiche di quei bambini: diarrea, virus intestinali… alla materna era quasi la stessa storia, mentre ora che insegno nella scuola elementare il rischio è diminuito drasticamente, anche se ogni tanto il periodo delle influenze o del vomito arriva. Ora però le mie assenze da scuola sono dovute più spesso ad altre ragioni, ogni tanto il mal di schiena (il tempo passa, anche se la pensione è lontana), ogni anno quattro o cinque giorni a seguire convegni o attività di formazione come garantisce il contratto; mi piace molto partecipare a queste iniziative – che però negli ultimi tempi costano salate – perché quando torno in classe mi sembra sempre di portare qualcosa di diverso nella pratica didattica.

Da almeno una quindicina di anni però è difficile ammalarsi in serenità, e raramente sono tranquillo quando partecipo a un convegno di aggiornamento. Lo si fa con un certo senso di colpa, con l’idea di stare rubando qualcosa. Lo si fa con dispiacere, perché si pensa ai bambini della classe, e rincresce lasciarli. All’inizio della mia carriera ricordo che è stato piacevole per un certo periodo fare il supplente. Mi chiamavano nelle classi per pochi giorni, a volte anche solo un giorno, mi ero preparato un certo numero di attività – divertenti per me e facili da fare con bambini appena incontrati – con cui iniziare e terminare una didattica nel giro di poche ore. Quindi quando sono entrato in ruolo – era il 1996 – non avevo questo senso di colpa, pensavo che la mia assenza fosse un’occasione in più per le bambine e i bambini della classe di fare una nuova esperienza, di conoscere qualche figura che portasse stimoli differenti. Ora è tutto molto diverso.

Almeno da quindici anni i tagliatori di bilanci della scuola pubblica hanno individuato nel pagamento dei supplenti un target su cui agire con efficacia. Il primo meccanismo, nella scuola primaria, è stato quello di intervenire sulle compresenze, cioè su quelle due ore che gli insegnanti settimanalmente usano per lavorare insieme al collega approfondendo attività o sostenendo bambini in difficoltà. Ai burocrati del bilancio quelle ore apparivano inutili e quindi si sono dati da fare per trasformarle in ore di supplenza da far fare ad uno dei due insegnanti in una “classe scoperta”, magari nella classe a fianco. Poiché però quelle ore non erano distribuite negli orari pensando alla possibilità di trasformarle in supplenze, ma articolate in funzione della didattica, al burocrate del bilancio si aggiungeva il dirigente zelante o il vicario volonteroso che riorganizzava l’orario in funzione del risparmio di supplenti. Spesso infine si trovavano e si trovano molti insegnanti che, in virtù di quello strano senso di colpa che citavo all’inizio, si auto-organizzano l’orario per coprire le assenze dei colleghi, subordinando a questa preoccupazione quella della didattica nella propria classe.

Più recentemente il legislatore ha scelto di fornire un altro tassello importante in questa lotta per la riduzione delle supplenze. Dalla legge di stabilità del 2014 risulta addirittura proibito chiamare supplenti nel primo giorno di assenza di un insegnante: come rubare, o passare col rosso. La norma probabilmente è stata varata pensando all’introduzione nella scuola dei docenti del cosiddetto “potenziato”, insegnanti aggiuntivi che avrebbero dovuto intervenire per coprire internamente le supplenze brevi. Peccato che le influenze e i virus intestinali non abbiano l’abitudine di agire uno alla volta a staffetta, magari collocandosi magicamente seguendo gli spezzoni orari della povera maestra di potenziamento – quando c’è. L’effetto finale quindi, oltre alla nascita della figura della “supplente di ruolo”, è la sempre più frequente divisione dei bambini tra le classi, e la crescita di un know-how di noi maestri e maestre sia nella ingegneria della disposizione dei banchi e delle seggiole aggiuntivi, sia nella modifica just in time della didattica in funzione dei poveri piccoli ospiti.

Ricordo che una dozzina di anni fa, a Trieste, con un bel gruppo di genitori motivati, decidemmo di fare un’iniziativa insieme contro la mancata chiamata dei supplenti. Visto che il ministero predicava miseria per spiegare le proprie scelte, decidemmo di organizzare un mercatino in piazza in cui i bambini scambiavano e vendevano a prezzo simbolico i propri vecchi giocattoli, ed il piccolo ricavato fu inviato al ministro, come nostro sarcastico contributo al mantenimento della chiamata dei supplenti. Qualche mese dopo – tempi ministeriali – dall’Ufficio scolastico ci restituirono il denaro, da qualche parte devo avere conservato la lettera. La ricordo come una bella iniziativa, gioiosa e divertente, ancora piena di tanta fiducia nella possibilità di cambiare le cose anche dal basso e con ironia, di far sapere i problemi della scuola come primo passo per trovarne la soluzione.

Oggi gran parte di quella fiducia se n’è andata. Soprattutto appare difficilissimo credere che man mano che si sale nella scala gerarchica ci possa essere una reale conoscenza o curiosità rivolta alle quotidiane questioni che si vivono nelle classi.

Questo delle supplenze, ad esempio, è un problema che esiste da lustri che sono certo nessun ministro ha mai conosciuto nel dettaglio. Magari gli è stato raccontato, ma figurati cosa può aver compreso: credo che solo rimanendo una settimana a fare la maestra avrebbe potuto rendersi conto di quanto questa semplice disfunzione mette a soqquadro la vita in una scuola primaria. Mi viene in mente una poesia di Brecht, in cui l’imperatore è in visita alla città, ma il bambino è sporco e quindi l’incontro, l’incrocio di sguardi, non può avvenire: il bambino che non si lavava – chiude Brecht con ironia – non poteva pretenderlo. Come scriveva un commentatore, “un imperatore che vuole vedere soltanto bambini puliti non rappresenta altro che l’insieme dei suoi sudditi più meschini”.

Gianluca Gabrielli

Storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna di sostegno di Comune “Ricominciamo da tre.”

8/9/2019 https://comune-info.net

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