L’abbraccio tra privato sociale e finanza immobiliare. Il “nuovo” corso della casa a Milano

Da qualche anno emerge con sempre maggiore urgenza, e a intervalli ravvicinati, il tema del disagio abitativo a Milano. Un tema che attraversa fasce sempre più ampie della popolazione, che non riguarda più solamente i più fragili, che viene inevitabilmente percepito anche dai testimonial più mondani della “classe creativa”, mandando in pezzi la narrazione win-win secondo la quale i milioni di metri cubi di case e uffici di lusso calati sulla città portano benefici a tutti gli abitanti. A Milano bisogna essere molto benestanti non più solo per abitare in centro, ma anche per potere studiare qualche anno nelle università, per potere accettare un lavoro, per abitare in un bilocale striminzito ai margini della città.

Un fiorire di pubblicazioni universitarie, articoli sensazionalisti, convegni promossi da associazioni e fondazioni, cerca però di imporre una teoria irricevibile, fondata su premesse faziose e orientata a soluzioni che sono peggiori del male: le ragioni di questo rincaro folle dei prezzi delle case sull’intero territorio urbano non sarebbero ascrivibili al modello di sviluppo immobiliare finanziarizzato che le giunte di centrodestra e centrosinistra continuano a promuovere senza sosta sul suolo urbano, ma un semplice effetto naturale dell’attrattività di Milano. Una “sana competizione” tra le migliaia di persone che desiderano godere di questa nuova bellezza diffusa. Come rimedio, secondo questa visione, sarebbe sufficiente lanciare sul mercato non calmierato qualche scarso migliaio di appartamenti in vendita o in affitto a prezzi di sottomercato.

Di fronte a una situazione in cui il valore immobiliare è aumentato in media del quaranta per cento in dieci anni – mentre i redditi, nello stesso periodo, di appena poco più del cinque per cento – si continua a definire il disastro sociale come una pura “esternalità negativa” di un modello eccellente. Secondo la classe dirigente milanese questo modello di crescita, fondato su una densificazione virtualmente infinita, non va cambiato, ma bisogna compensarlo con dei piccoli correttivi, tutti esclusivamente fondati sull’housing sociale.

L’housing sociale è un universo complesso e variegato che in altri paesi, ancora interessati a garantire – seppure in forme sempre più esili – il diritto alla casa ai propri abitanti, utilizza le più varie forme di partnership pubblico-privato per affiancare all’offerta di alloggi di edilizia pubblica per i più poveri uno stock immobiliare accessibile alla cosiddetta fascia grigia, quella cioè che non è in grado di affrontare il mercato libero ma non è abbastanza fragile per avere diritto a una casa pubblica.

In Italia, e a Milano in particolare, l’housing sociale invece è pensato non per implementare l’offerta pubblica, ma per sostituirla. Il patrimonio di edilizia residenziale pubblica (Erp) si assottiglia di anno in anno: viene “valorizzato” (ovvero venduto) oppure lasciato vuoto per mancanza di manutenzione, poi affidato in gestione a enti del cosiddetto privato sociale e a cooperative, e trasformato per l’appunto in “housing sociale”. Dagli anni Settanta a oggi Milano è passata da centomila a sessantasettemila alloggi Erp, di cui quasi tredicimila vuoti.

Le politiche abitative dell’ultimo decennio, da Pisapia a Sala, sono state integralmente dedicate a questa opera di erosione fisica e ideologica del diritto alla casa, soprattutto per i più fragili: i grandi quartieri di case popolari sono stati oggetto di un vero e proprio accerchiamento urbanistico, attraversati da piani di rigenerazione dall’alto e dal basso. Circondati da grandi e piccoli interventi (per esempio le torri Citylife e il nuovo stadio intorno a San Siro, lo scalo San Cristoforo e la metropolitana a Giambellino, lo scalo Romana e gli interventi olimpici a Corvetto) che li incalzano sul fronte della gentrificazione, vengono frammentariamente svuotati dall’interno per mezzo di ristrutturazioni lasciate a metà, appartamenti non assegnati, usi misti.

Nel frattempo un rilievo enorme è stato attribuito a ogni più minuscola operazione di housing sociale: piccoli quartieri sperimentali come Figino Borgo sostenibile o Cenni di Cambiamento, destinati a poche decine di famiglie dotate di un reddito non insignificante (l’accesso all’housing sociale prevede un reddito massimo piuttosto alto, ma anche una soglia minima che non tutti possono garantire), sono stati rappresentati come la panacea per tutti i mali dell’abitare.

Milano abitano un milione e quattrocentomila persone, di cui quasi due terzi guadagnano meno di ventiseimila euro all’anno e un terzo meno di quindicimila. Un bilocale in periferia non costa meno di mille euro. Eppure non sono state prese in considerazione comuni misure di calmieramento del mercato come il rent control (tetto agli affitti), la tassazione delle case vuote, la regolamentazione di Airbnb e delle altre piattaforme di affitti brevi, l’acquisizione pubblica di edifici e terreni vuoti, l’espansione del patrimonio Erp, mentre si è esaltato il ruolo di appena seimila appartamenti di housing sociale, di cui solo un terzo in affitto, che da soli non hanno la minima influenza sui prezzi generali.

Da quando Pierfrancesco Maran, ex assessore ai trasporti e all’urbanistica nelle precedenti giunte, ha preso su di sé le deleghe alla casa, la situazione abitativa è diventata ancora più esplosiva. La sua “Nuova strategia per la casa”, annunciata in gran pompa nel corso di un Forum dell’Abitare (20-22 marzo 2023) che coinvolgeva gran parte del terzo settore abitativo, è un’ulteriore massiccio spostamento dal pubblico al privato¹. Immerse in un mare di vaghezza e dati contraddittori, le due proposte più chiare sono la creazione di una società mista pubblico-privata per gestire il patrimonio di case pubbliche esistenti, e la concessione delle duemila cinquecento case popolari sfitte del Comune (non ristrutturate) ad aziende ed enti del terzo settore che se ne accollino la ristrutturazione e subaffittino poi ai lavoratori “con una posizione solida” (ovvero: che possono pagare affitti a canone non sociale). Nel pieno di una crisi che non dà segni di tregua, l’assessore alla casa dà avvio a un programma che toglie case ai fragilissimi per darle a categorie più capaci di pagare, in nome della sostenibilità economica e dell’ambigua mixité.

Ma il vero scopo di Maran e degli interessi che rappresenta è un altro: la saldatura tra privato sociale e grande finanza immobiliare, che ormai è allineata alle regole della finanza a impatto sociale.

Il 28 marzo 2023 Coima – protagonista indiscussa della scena immobiliare milanese con i progetti Porta Nuova e Scalo Porta Romana – e CCL, il Consorzio Cooperative Lavoratori, hanno avviato una partnership “per la realizzazione di fair e social housing secondo il principio mutualistico cooperativo”. Il massimo promotore del luxury-green, che ha portato i fondi del Qatar ad acquisire pezzi del tessuto urbano milanese, mette le mani sulla gestione dell’edilizia pubblica e sociale grazie all’alleanza con le cooperative storiche, con quello stesso CCL che ha fondato e finanziato – proprio mentre il progetto prendeva corpo – insieme al DASTU (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani) del Politecnico di Milano, l’Osservatorio Casa Affordable. Da mesi i membri di questo Osservatorio tuonano dalle pagine dei giornali denunciando “la Milano a due velocità”, dove i ricchi lasciano indietro i fragili, ed ecco che la soluzione improvvisamente appare quella di fagocitare l’intera gestione del problema casa stringendo un patto di ferro con il motore primo di questa dinamica estrattiva, esclusiva ed espulsiva.

Il progetto pilota è una classica operazione di housing sociale, quella che a New York chiamano inclusionary zoning: una quota di alloggi di edilizia convenzionata (duecentoventicinque) e persino una a canone sociale (novantacinque) nel sito olimpico dello Scalo di Porta Romana, di fronte alla Fondazione Prada, affianco al parco sospeso e ai moltissimi palazzoni di lusso previsti dopo le Olimpiadi. Ma l’obbiettivo è una piattaforma per la progettazione di migliaia di alloggi, con il concorso di fondi pubblici e privati, in primis l’appena fondato Coima Housing Fund, il Coima ESG City Impact Fund (quello di Porta Romana) e Banca Intesa. L’obiettivo è “la creazione di un nuovo modello di sviluppo immobiliare misto, fondato su società cooperative compartecipate da fondi con un effetto moltiplicatore grazie al modello mutualistico, con la partecipazione sin dal principio degli acquirenti finali, per iniziative replicabili e scalabili sul territorio nazionale”.

Milano non gli basta. Vogliono tutto. Quanta parte del mondo no profit seguirà questo nuovo modello di “mutualismo” finanziario, per finire come nella parabola dei ciechi? (lucia tozzi)

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¹ Sull’argomento vale la pena leggere l’articolo di Veronica Pujia, il commento di Offtopic, e quello di Gianni Barbacetto.

30/3/2023 https://napolimonitor.it

In home page (disegno di daniele nitti)

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