L’aggressore dall’interno

Il Movimento socialista russo, nato nel 2011 dalla fusione di diversi gruppi comunisti, socialisti e anticapitalisti, ha organizzato, il 27 marzo, una videoconferenza in inglese, dal titolo L’aggressore dall’interno (Inside the aggressor), cui hanno partecipato alcuni studiosi e giornalisti russi (con l’eccezione di una sociologa francese). L’idea alla base dell’iniziativa era quella di condividere con un pubblico internazionale riflessioni dall’interno, appunto, sulla situazione in Russia, per capire come si è arrivati all’invasione dell’Ucraina, interpretata come risultante dell’involuzione del regime di Putin e insieme come viatico a una sua ulteriore torsione autoritaria, se non peggio.

Il pregio della conferenza è stato quello di abbinare una ferma condanna della guerra in corso ad un’analisi di classe della società russa, rifuggendo così da quelle semplificazioni (diffuse anche a sinistra) che evocano “la Russia” come se fosse un’entità astratta. Di seguito riporto quelli che dal mio punto di vista sono stati gli spunti più interessanti della discussione, lasciando per ultimo l’intervento più stimolante.

Maxim Alyukov, studioso della comunicazione politica, ha presentato i risultati delle sue ricerche sulla propaganda del Cremlino, mettendo in luce come essa penetri facilmente in quella parte di società che, avendo subito un processo di de-mobilitazione (tipico dei regimi autoritari), si aggrappa agli schemi interpretativi confezionati dal regime per dare un senso a un mondo complesso e in perenne trasformazione. Un sistema mediatico ibrido (ossia comprendente sia i media tradizionali sia i social) viene utilizzato – anche attraverso la manipolazione dei motori di ricerca – per veicolare una narrazione che ispira fiducia non perché “vera”, ma perché coerente. In questa propaganda non vi è alcun riferimento a valori o slogan della sinistra; chi in Russia condanna la guerra viene zittito con la domanda: “dove eravate negli ultimi otto anni, quando il Donbass veniva bombardato? Perché parlate solo ora?”. L’effetto della propaganda tuttavia è ambivalente, perché se da un lato alimenta il conformismo, dall’altro, rivelando la manipolazione cui sono soggetti i media, può suscitare sfiducia nell’esistenza stessa dell’obiettività.

Su questo processo si sofferma, da una prospettiva diversa, anche Polina Aronson, giornalista e sociologa delle emozioni, che ha innanzitutto confessato il senso di spaesamento suo e di moltƏ studiosƏ: l’invasione dell’Ucraina lƏ ha coltƏ del tutto impreparatƏ; è perfino difficile, ammette, formulare delle domande che permettano di far luce sulla reazione della gente comune. Aronson osserva come in Russia anche la psicologia abbia contribuito alla depoliticizzazione, solleticando un individualismo esasperato e insistendo sulla neutralità come stato psichico più sano di fronte a un mondo complesso; una posizione che oggi si traduce nell’equidistanza tra aggredito e aggressore. È stata così forgiata una particolare soggettività che rifiuta l’idea dell’interdipendenza degli esseri umani e non è in grado di resistere alle pressioni esterne; una soggettività che si riverbera anche in un linguaggio parimenti depoliticizzato e tutto rivolto all’interno. È importante tenere a mente che la soggettività di cui si parla non è sinonimo di soggetto autonomo, bensì di individuo isolato e succube di processi politici calati dall’alto. Naturalmente, sottolinea Aronson, a immedesimarsi con una soggettività di questo tipo è la borghesia urbana, i ceti colti, molto meno lavoratori e lavoratrici che guadagnano poco e vivono in aree periferiche.

Sulle divisioni di classe riflette anche Karine Clément, studiosa francese che ha vissuto a lungo in Russia finché, nel 2019, non ne è stata bandita. A sua volta disorientata dagli eventi, descrive una società russa in cui, prima della sua partenza forzata, germogliavano forme di mobilitazione dal basso, che davano vita a una politica pragmatica perché orientata ai bisogni delle comunità locali e si sottraevano, con le loro modalità autorganizzate, alla politica moscocentrica e dipendente in tutto e per tutto da Putin. Non era estraneo a questo risveglio un sentimento di orgoglio nazionale non necessariamente sinonimo di nazionalismo, bensì da intendersi come appartenenza a una comunità. In queste esperienza fioriva anche la critica alle politiche sociali di Putin da parte della classe operaia (in senso lato), sia pure espressa in contesti informali o comunque molto circoscritti. Tre sono i gruppi in cui Clément suddivide la società russa: 1) i conformisti, ossia i fautori di un nazionalismo di stato, da amplificare tramite la propaganda; 2) gli elitisti morali o intellettuali, che si sentono superiori alla massa ignorante (tra loro figurano sia sostenitori che oppositori di Putin); 3) il gruppo più interessante, appunto lavoratori e lavoratrici, che nella nazione russa vedono, sì, un valore, ma non primario rispetto a quella che è la loro esperienza di vita, interpretabile piuttosto secondo categorie di classe – diseguaglianza e sfruttamento, ricondotte a quell’oligarchia di cui Putin è capo. Di fronte al regime, era acuto già prima della guerra un sentimento di impotenza, che ora – avverte Clément – è inevitabilmente aumentato e rischia di sgretolare quel senso di “abitare questo mondo” faticosamente conquistato attraverso le pratiche dal basso e di conseguenza accrescere la sfiducia verso concetti astratti come la democrazia.

Anche nell’intervento di Kirill Medvedev, giornalista e attivista, risuona il tema della depoliticizzazione e demobilitazione, processi finalizzati a produrre un individualismo esasperato e intensificati dalla guerra, che aggrava ulteriormente (con l’inasprirsi della repressione) una situazione già molto problematica dal punto di vista politico e sociale. La lotta contro la vocazione imperialistica della Russia (in certa misura incorporata anche dall’URSS) e insieme contro il neoliberalismo – Putin infatti è espressione di entrambe le tradizioni – richiede la costruzione di una rete transnazionale che unisca la sinistra anticapitalistica russa e quella occidentale. Occorre costruire un nuovo sistema di sicurezza internazionale, ridimensionando i blocchi militari, nella consapevolezza tuttavia che l’imperialismo russo è al momento il più pericoloso. La mobilitazione nei paesi occidentali contro la guerra è importante, come strumento di pressione sul regime, e non solo per fermare l’aggressione, ma anche per cambiare il corso della politica interna: se Putin distrugge l’Ucraina, allora annienta anche la società russa.

L’esortazione di Medvedev – è la Russia che va denazificata! – si lega all’analisi dello storico Ilya Budraitskis, che fornisce elementi preziosi per valutare il rischio di fascistizzazione del paese, un tema molto dibattuto nella sinistra russa come in quella occidentale. Con la guerra, constata Budraitskis, la Russia di Putin ha imboccato una nuova fase storica, contrassegnata da una rapida evoluzione dall’autoritarismo al totalitarismo. Viene meno, infatti, anche lo spazio limitato che prima sussisteva per il dissenso; l’unica libertà di espressione concessa è quella a favore del regime; ogni forma di autorganizzazione (anche quelle dei movimenti ultranazionalisti!) ora è bandita; il pericolo esterno viene sfruttato per rivendicare una totale unità tra leader e popolo.

Alla luce di questi mutamenti, è lecito parlare di fascismo? Budraitskis parte da quelli che sono considerati i tratti distintivi del fenomeno nella sua forma classica: l’ideologia (eclettica, priva di coerenza) e un movimento di massa; l’una e l’altra impiegati in funzione antirivoluzionaria, in uno scenario in cui la borghesia non è in grado di risolvere per altre vie la crisi. Tuttavia lo storico russo ricorda anche interpretazioni del fascismo come quella di Karl Polanyi, in cui decisivo è non il movimento (di massa), bensì la mossa (dall’alto); in tale prospettiva, si guarda al fascismo come risultante di una strategia promossa dalla classe dirigente. In continuità con tale linea interpretativa si pone la categoria di post-fascismo proposta da Enzo Traverso, che Budraitskis ritiene essere molto calzante al regime di Putin; esso ha rappresentato infatti una svolta di segno totalmente antirivoluzionario, tant’è che una componente fondamentale della retorica putiniana è la criminalizzazione di qualsivoglia rivoluzione. A tale proposito, è stata molto significativa la rottura definitiva con Lenin, e con tutta l’eredità bolscevica, operata da Putin nel discorso in cui ha annunciato l’inizio dell’”operazione militare speciale”. Mentre qualche anno fa il leader russo individuava nel crollo dell’Urss una catastrofe, ora la lettura viene ribaltata: non la fine, ma la creazione dell’Urss ha rappresentato una calamità, non ultimo perché ha sancito il principio di autodeterminazione delle diverse repubbliche.

L’aggressione sferrata all’Ucraina si accompagna alla distruzione, in Russia, di tutte le esperienze di autorganizzazione sociale: si punta a “risolvere” la crisi interna con la guerra; una guerra che, per giunta, si prolunga (la blitzkrieg è fallita) e non può essere vinta (anche per l’effetto delle sanzioni occidentali), diventando così un elemento permanente della politica interna.

Ciò che secondo lo studioso contraddistingue la trasformazione fascista della Russia è il suo porsi non come inizio di qualcosa di nuovo, bensì come fine, drammatica ma logica, del regime costruito prima da Eltsin e poi da Putin, caratterizzato dalla conversione dell’economia, della cultura e dell’antropologia al mercato. Fascistizzazione come agonia, insomma. Un capolinea reso possibile dal trionfo dell’individualismo neoliberale e dalla demolizione di ogni forma di autorganizzazione sociale; un quadro che rende poco realistica la speranza di un’opposizione di massa in grado di rovesciare il regime di Putin.

Per chiudere con una nota positiva: Polina Aronson, che vive a Berlino, è rimasta molto colpita dalla mobilitazione della capitale tedesca per accogliere i profughi ucraini (non nascondendosi peraltro che ad altre crisi umanitarie non si è risposto con la stessa generosità…). Si augura che questa “produzione collettiva di supporto” da parte sia dello Stato sia dell’autorganizzazione sociale rimanga come patrimonio da cui partire, per costruire comunità solidali. Costruire le condizioni perché questa speranza diventi realtà è uno dei compiti della sinistra anticapitalista europea.

Monica Quirico

Storica

30/3/2022 https://transform-italia.it

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