L’America latina contro il realismo capitalista

In America latina, quest’anno, si commemorano il decennale del decesso di Hugo Chávez, avvenuto il 5 marzo 2013, e il cinquantenario del colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973. Le due ricorrenze segnano il cammino di esperienze democratiche di transizione al socialismo che hanno suscitato la reazione violenta delle classi privilegiate e dell’imperialismo statunitense. Quarant’anni di distanza intercorrono tra i due avvenimenti, ma i metodi della controrivoluzione in America Latina rimangono gli stessi adottati durante la Guerra fredda e a pagarne il prezzo sono i popoli in lotta per la propria autodeterminazione.

Nel secondo dopoguerra, la cortina di ferro tracciò i confini invalicabili della spartizione dell’Europa tra Stati Uniti e Unione Sovietica. La rivoluzione abbandonava il vecchio continente per raggiungere il Terzo Mondo, sposando i movimenti di liberazione nazionale e la lotta antimperialista. In molti paesi dell’America latina, dell’Africa e dell’Asia, il diritto all’autodeterminazione fu difeso con le armi in pugno contro l’imperialismo occidentale: l’Algeria, Cuba, il Vietnam, il Congo, l’Angola furono soltanto gli esempi più memorabili della brutalità del dominio coloniale e neocoloniale e della necessità della lotta armata per la conquista dell’indipendenza nazionale.

In quel contesto, il Cile doveva costituire una parziale eccezione. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, nell’emisfero occidentale, in un paese democratico, con un esercito professionale e una solida economia industriale, il proletariato usava le condizioni nuove della crisi prolungata dell’imperialismo per innestare un processo rivoluzionario. La «via cilena» al socialismo voleva essere il tentativo di trasformare l’economia e modificare dall’interno la struttura dello Stato permanendo nell’ambito della legalità costituzionale, finì per diventare la prima esperienza storica di «rivoluzione ininterrotta» nel quadro della democrazia liberale. I mille giorni del mandato presidenziale di Salvador Allende, cominciato il 4 novembre 1970, furono caratterizzati da politiche di distribuzione delle terre, miglioramento della qualità di vita di lavoratori e nullatenenti, nazionalizzazione delle ricchezze del paese, potenziamento dei diritti universali di abitazione, sanità e istruzione. A partire da un doppio movimento, dall’alto e dal basso, tra riforme di struttura e lotte di popolo, il riformismo allendista suscitò un processo rivoluzionario di tipo nuovo, incentivò l’iniziativa e l’organizzazione delle masse con compiti di autogestione, approvvigionamento e autodifesa, dimostrò che, in una moderna democrazia, un governo popolare non può realizzare le riforme di struttura senza la mobilitazione delle masse, nella stessa misura in cui non può prodursi alcuna crescita dell’iniziativa popolare senza l’appoggio di un governo amico. 

Se c’è, tuttavia, un punto su cui l’esperienza cilena fu perfino archetipica, questo è la realizzazione del colpo di Stato che l’11 settembre 1973 consegnò il Cile ai generali. Durante i tre anni del governo di Unidad Popular, la coalizione di sinistra che appoggiava Allende, il paese andino fu sistematicamente destabilizzato da manovre eversive, atti di sabotaggio, boicottaggio economico e da una poderosa campagna di disinformazione da parte dei mezzi di comunicazione dell’opposizione: un’aggressione multiforme e multilaterale che anticipava le tecniche della «guerra ibrida» dispiegate nell’ultimo quarto di secolo anche in Venezuela. D’altra parte, il golpe cileno fu uno degli eventi della Guerra fredda che ebbero il maggior impatto sul mondo occidentale, interrogando la possibilità stessa di un’alternativa socialista al libero mercato e aprendo la strada a quel There Is No Alternative delle riforme neoliberali (privatizzazioni, deregulation, apertura al capitale straniero) che per primi – e parallelamente – avrebbero imposto, con la violenza della repressione, la dittatura di Augusto Pinochet in Cile e, con la persuasione della legge, il governo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Il «realismo capitalista» doveva edificarsi sul fallimento del socialismo, indotto con ogni mezzo necessario, da repubblicani e democratici, laburisti e conservatori, in America Latina, Europa e Stati Uniti, come nell’ultimo quarto del secolo scorso, così in questo primo quarto di XXI secolo. Tuttavia, se è vero, come scriveva Mark Fisher, che «la cancellazione forzata del ricordo del socialismo democratico ha richiesto in Cile la repressione, il carcere e la tortura di massa», gli insegnamenti dell’esperienza cilena sono stati rimossi dalla falsa coscienza della sinistra europea, non già dalla memoria dei popoli in lotta dell’America Latina.

Dall’esperienza cilena al socialismo bolivariano

I problemi riscontrati dalla via cilena al socialismo sembrano anticipare le tappe della rivoluzione bolivariana per come questa si è sviluppata tra l’elezione di Chávez nel 1998 e l’insurrezione popolare del 2002. Il golpe cileno dimostrò che il cammino del socialismo nella democrazia è irto di insidie. Come farvi fronte? La sinistra cilena non riuscì a rispondere in tempo al dilemma, lo stesso che il chavismo sta affrontando da un quarto di secolo. Un colpo di Stato attuato in Cile nel 1973, due colpi di Stato tentati in Venezuela, nell’aprile 2002 e nel febbraio 2019. Il copione, in entrambi i casi, è lo stesso: penuria programmata, inflazione indotta, campagne di disinformazione, con il fine di creare malcontento interno e isolamento internazionale. Una destabilizzazione protratta fino alle estreme conseguenze in un caso, ancora in corso nell’altro, a ribadire che, ieri come oggi, il socialismo non può essere un’alternativa, nemmeno nella forma «umanistica e partecipata» del socialismo allendista o di quello bolivariano, che sono andati al governo attraverso le urne. Ben oltre la fine della Guerra fredda, quando si tratta di un paese socialista, viene sempre applicato il paradigma della «guerra sporca» che quel contesto ha prodotto.

In tali circostanze, la scelta più facile, oggi come allora, è quella di voltare le spalle al socialismo, di rinunciare alla rivoluzione. Una scelta che, in Italia, il Pci si affrettò a compiere con il compromesso storico, anticipando la svolta consociativa di gran parte del movimento operaio europeo. Una scelta legittima, purché compiuta e dichiarata in tutta onestà. Il rischio che ne consegue, tuttavia, è quello di dover rinunciare anche alle riforme di struttura, specie in un contesto di crisi prolungata dell’accumulazione capitalistica, tanto negli anni Settanta, dopo la crisi energetica del 1973, quanto oggi, dopo la crisi finanziaria del 2008. 

Ritorniamo al Cile. Nel paese andino, molti decenni dopo l’investitura di Allende, abbiamo visto, nell’estallido social dell’ottobre 2019, il punto in cui convergevano interrogativi che credevamo esauriti da tempo, nel contesto di una insubordinazione generale che preludeva alla possibilità di un’inversione simbolica e politica d’importanza epocale: il passaggio da una sconfitta storica, la cui immagine paradigmatica è stata il bombardamento della Moneda dell’11 settembre 1973, all’emergere di una nuova speranza, con le rivolte popolari e l’inizio del processo costituente che portò all’elezione di una Convenzione composta in larga parte da cittadini e cittadine indipendenti. Non a caso l’immaginario dell’estallido si è nutrito delle immagini, delle parole e dei volti dell’esperienza cilena del 1970-1973. Ne sono alcuni esempi l’associazione dell’ex Presidente Piñera al generale Pinochet, l’effigie di Allende raffigurata nei murales, la musica di Victor Jara suonata nei raduni in Plaza Italia. O, ancora, le parole con cui Gabriel Boric, il giovane Presidente di sinistra eletto dopo la rivolta, concluse il suo primo discorso presidenziale: «come previde quasi cinquant’anni fa Salvador Allende, è giunto il tempo in cui, compatrioti, stiamo di nuovo solcando le grandi vie dove l’uomo libero, l’uomo e la donna liberi, passeranno per costruire una società migliore». 

Così, cinquant’anni dopo la fine dell’esperienza allendista, nel paese che fu il laboratorio del neoliberismo, si poteva individuare la manifestazione più vivida di «uno spettro che poteva tornare a infestare le periferie dell’Occidente, lo spettro del potere popolare». Lo spettro di un’intensità rivoluzionaria che cercava una articolazione politico-istituzionale, senza trovarla, tra le opzioni disponibili nel sistema dei partiti cileno. Spettava alla sinistra cogliere l’occasione che poteva aprire un nuovo orizzonte di possibilità, ma la posta in gioco era troppo alta, forse come sempre in questi casi, quando l’alternativa è netta tra vittoria o disfatta. Ora i partiti del Frente Amplio governano il Cile, ma si trovano in una situazione di impasse. La possibilità di superare il modello neoliberale sembra essersi chiusa definitivamente con il trionfo del «No» al referendum costituzionale dello scorso 4 settembre. Nondimeno, per la maggioranza della popolazione sarebbe forse già sufficiente che il governo riuscisse a realizzare le riforme richieste, come l’aumento delle pensioni e del salario minimo, il rafforzamento del sistema sanitario pubblico, la riforma del sistema tributario in senso progressivo, il condono dei debiti contratti da oltre un milione di studenti. Questo, tuttavia, non è affatto scontato, nella misura in cui l’opposizione detiene la maggioranza dei seggi nel Parlamento, ponendo il veto alla realizzazione delle riforme più osteggiate. Già durante i primi mesi di attività dell’esecutivo, la difficoltà di governare senza la maggioranza parlamentare poteva suggerire un rilancio delle mobilitazioni popolari a sostegno delle riforme sociali e redistributive promesse. Nel governo, invece, ha prevalso la moderazione, nell’intento di evitare una radicalizzazione dello scontro politico e sociale. Il ripiegamento nel quadro del consociativismo era allora inevitabile e ha portato l’esecutivo in un vicolo cieco, dal quale sarà difficile uscire se non con importanti rinunce sul programma proposto in campagna elettorale, con il rischio già molto concreto di una diminuzione dei consensi.

Il Cile di Allende ha mostrato che la politica è ragione e forza e che la ragione soccombe se non c’è la forza. Una lezione che la sinistra cilena sembra aver dimenticato, che la rivoluzione bolivariana, al contrario, ha fatto propria. Il suo perno fondamentale è stato sin dall’inizio l’unità civico-militare, che ha permesso di realizzare un vasto programma di riforme di struttura, sulla base della Costituzione approvata il 15 dicembre 1999, e di sventare il colpo di Stato dell’11 aprile 2002, con cui si tentò di insediare un governo liberista guidato da Pedro Carmona Estanga, presidente della federazione degli industriali venezuelani (Fedecamaras). Già nel Cile di Allende, una parte della sinistra aveva posto il problema dell’insurrezione per la conquista integrale del potere come difesa civico-militare delle conquiste legali della rivoluzione contro il sovversivismo delle classi dominanti. Come testimonia Marta Harnecker, che di quell’esperienza fu testimone diretta, Chávez, memore della lezione cilena, concepì il processo bolivariano come «una rivoluzione pacifica, ma armata». Con il trionfo dell’insurrezione popolare appoggiata dagli ufficiali fedeli al chavismo contro i golpisti e, successivamente, con la vittoria del «no» al referendum revocatorio del 15 agosto 2004, con cui Chávez fu confermato alla guida dello Stato, si stabilizzava la rivoluzione e iniziava la marcia del Venezuela verso il socialismo. I primi passi furono la nazionalizzazione del settore petrolifero e la redistribuzione dei suoi proventi alla popolazione, con 4 miliardi di dollari di investimenti in alloggi, sanità, educazione, borse di studio e microcredito soltanto nel 2004. Il 30 gennaio 2005, in un celebre discorso allo stadio Gigantinho di Porto Alegre,in occasione del quinto Forum Sociale Mondiale, Chávez presentava per la prima volta il programma della rivoluzione bolivariana e, con esso, la sua idea di socialismo del XXI secolo. Il Comandante faceva appello alla lotta contro il neoliberalismo e l’imperialismo nordamericano, si opponeva al latifondo, alle privatizzazioni, ai trattati internazionali di libero scambio, prefigurava la costruzione di un socialismo umanista, partecipativo e antiburocratico, nel quadro di una transizione graduale nella democrazia. Chávez aveva ereditato un paese dilaniato dalla povertà e dalla corruzione, dieci anni dopo, ne aveva fatto il paese del continente che aveva maggiormente ridotto il tasso di povertà, passando dal 57,2% del 2003 al 20,9% del 2012 (dati Cepal).

Tuttavia, la sua morte nel 2013 segnava l’inizio di una nuova e violenta controffensiva da parte della borghesia venezuelana e dell’imperialismo statunitense che si protrae tutt’oggi. Un’aggressione multiforme, condotta con modalità non convenzionali, che Geraldina Colotti, giornalista e analista internazionale, ha costantemente documentato in Italia. Nel suo ultimo libro, Assedio al Venezuela (Mimesis 2022), Colotti raccoglie dodici interviste ad altrettanti esponenti del socialismo bolivariano: attivisti, giornalisti, politici, economisti e ambasciatori venezuelani. Un libro di parte, ma non di certo privo di interesse nei termini in cui, restituendoci le voci di uomini e donne impegnati nella costruzione del socialismo in Venezuela, ci permette di conoscere un diverso punto di vista sulla storia recente del paese, ovvero di guardare l’altra faccia della medaglia rispetto a una narrazione troppo spesso a senso unico imposta dai medianostrani e attinta, il più delle volte, dai canali d’informazione dell’opposizione antichavista. Dalle interviste possiamo ricostruire le vicende più recenti di questo «assedio».

Assedio al Venezuela

Dopo la morte di Chávez, Barack Obama dichiarava il Venezuela una minaccia «inusuale e straordinaria» per gli Stati Uniti, dando inizio a sanzioni finanziarie, commerciali ed economiche unilaterali e al boicottaggio diplomatico internazionale del governo di Nicolas Maduro. Alcune di queste misure consistono nel blocco totale delle attività finanziarie della Banca Centrale del Venezuela (Bcv) e nel divieto di ogni operazione all’impresa Petróleos de Venezuela (Pdvsa), il monopolio petrolífero nazionale, la cui produzione è crollata da 2 milioni di barili al giorno a 50 mila barili dopo le sanzioni di Donald Trump del 2017, determinando la paralisi dell’intero apparato produttivo del paese. Le «misure coercitive unilaterali» hanno sortito rapidamente gli effetti desiderati, inferendo un colpo durissimo all’economia nazionale, le cui entrate dipendevano per il 70% dalle esportazioni di petrolio: in pochi anni, infatti, il Venezuela è passato da 56 miliardi di dollari di proventi petroliferi nel 2013 ad appena 740 milioni nel 2020. Come se non bastasse, il paese è stato sottoposto al congelamento di conti e titoli azionari all’estero per diversi miliardi di dollari e a misure tese a impedire l’ottenimento di crediti internazionali e l’investimento di capitali stranieri, l’ingresso di valuta estera e il commercio internazionale. Il governo nordamericano ha bloccato 342 milioni di dollari che la Bcv aveva depositato presso la Citibank, trasferendoli alla Federal Reserve, e confiscato la Citgo, la più grande filiale estera della Pdvsa, situata in territorio statunitense e valutata in diversi miliardi di dollari. A ciò si sono aggiunti il sabotaggio delle infrastrutture elettriche nazionali e delle installazioni petrolifere da parte di gruppi paramilitari legati all’opposizione e supportati dagli Usa, il tentativo di occupazione militare della provincia del Táchira nel febbraio 2019, la creazione del governo parallelo di Juan Guaidó e l’isolamento diplomatico internazionale. Il bloqueo nordamericano ha gettato nel baratro l’economia venezuelana, comportando un costo economico complessivo che supera i 120 miliardi di dollari in pochi anni, secondo le stime dell’economista Jesus Farías. Le conseguenze sociali sono state disastrose. Dal 2017 a oggi, il paese ha contato sette milioni di emigrati in fuga dalla povertà e dalla fame.

Ci si potrebbe chiedere se la tragedia in cui è incorso il popolo venezuelano sia soltanto il risultato dell’assedio a cui gli Stati Uniti hanno sottoposto il paese o non anche il prodotto di qualcosa che non ha funzionato nel socialismo bolivariano. Non fu ad esempio un errore del chavismo,quando il Venezuela viveva un periodo di grande prosperità economica e di solidità politica tra il 2005 e il 2012, mancare l’occasione per superare il modello estrattivista, tra le principali cause della fragilità e della dipendenza delle economie della regione, e sviluppare e diversificare la struttura produttiva del paese? Non abbiamo elementi sufficienti per rispondere a questa domanda e, tuttavia, possiamo avanzare qualche dubbio. Il ritardo delle economie latinoamericane ha radici storiche e ragioni strutturali dovute in buona parte alla condizione di secolare subalternità all’imperialismo nordamericano. Superare il modello «estrattivista» avrebbe significato accumulare con la forza il capitale necessario allo sviluppo della struttura produttiva, estendere le nazionalizzazioni, espropriare i capitali privati, passare a un’economia di piano. Si trattava di sovietizzare il paese, acuire lo scontro con la borghesia, con conseguenze difficilmente prevedibili per l’ordinamento democratico del paese. Il chavismo considerò che non ce ne fossero le condizioni e scelse la via dell’economia sociale come progressiva transizione a un modello basato sul soddisfacimento dei bisogni collettivi invece che sulla realizzazione del profitto privato.

Che dire, invece, dell’elezione dell’Assemblea nazionale costituente, che sostituì il Parlamento, nelle mani dell’opposizione, nel luglio 2017, in una situazione di scontro tra i poteri dello Stato e di guerra civile strisciante? Una svolta in senso autoritario del governo bolivariano o l’approfondimento inevitabile della lotta di classe di fronte al sovversivismo della borghesia? Di certo, dovremmo domandarci se le forzature operate dal Psuv in questi ultimi anni, in deroga alle procedure della democrazia rappresentativa, siano compensate o meno dall’effettiva costruzione di quella democrazia «participativa y protagónica» sancita dalla Costituzione del 1999, e quale sia, eventualmente, il ruolo assunto dagli organismi di potere popolare sui territori nella difficile fase che sta attraversando il paese. La scelta in questo caso sarebbe tra le Comunas, i consigli comunali, le Misiones, i Comitati Locali di Rifornimento e Produzione (Clap), la Milizia Bolivariana, attraverso cui il demos, la parte più attiva e cosciente del popolo, esercita funzioni di autogoverno, autogestione, autodifesa, approvvigionamento e distribuzione alimentare, e il Parlamento, suprema istanza della democrazia rappresentativa, attraverso cui una parte privilegiata della popolazione vorrebbe restaurare l’ordine del libero mercato, delle privatizzazioni e delle multinazionali.

A quasi vent’anni di distanza dal discorso di Chávez allo stadio Gigantinho di Porto Alegre, bisogna certamente chiedersi, cosa è stato realizzato di quel progetto, cosa resta da realizzare. Un bilancio degli errori e dei successi, dei limiti e delle prospettive del «socialismo del XXI secolo» si impone come necessario, purché il rigore della critica si accompagni al coraggio di schierarsi con realismo politico e senza moralismi. Ovvero purché si abbia l’onestà di riconoscere che in un simile contesto di polarizzazione, al pari della rivoluzione, anche la controrivoluzione mobilita il suo popolo, restringendo gravemente lo spettro delle possibili alternative allo scontro frontale.

Marco Morra è dottorando in Studi Internazionali. Le sue ricerche vertono sull’esperienza cilena del 1970-1973 e sulle connessioni tra i movimenti rivoluzionari dell’America Latina e la nuova sinistra italiana e francese negli anni Sessanta e Settanta.

1/3/2023 https://jacobinitalia.it

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