Lavoratrici agricole tra ricatti e disparità

Gli ultimi dati diffusi dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ci dicono che la presenza delle donne nel lavoro agricolo è rilevante, anche se finora poco visibile e studiata.[1] Le loro condizioni di vita e di lavoro sono spesso caratterizzate da gravi forme di sfruttamento, soprattutto nel segmento più vulnerabile costituito dalle lavoratrici migranti, specie se irregolari. Tali vulnerabilità devono essere apprezzate secondo un’ottica di genere e in relazione a vari fattori di discriminazione intersezionale tra cui la discriminazione razziale o per età, nazionalità, provenienza geografica, status di soggiorno, situazione familiare e reddituale. L’irregolarità del soggiorno è un fattore di vulnerabilità che comporta, fra l’altro, la ricattabilità permanente sia da parte dei datori di lavoro sia da parte dei caporali. Tuttavia il grave sfruttamento non è limitato alle lavoratrici irregolari, poiché coinvolge in modo pesante anche le cittadine comunitarie di Romania e Bulgaria, e talvolta anche le italiane.

In Italia si registra una cronica mancanza di dati sull’economia informale. Le rilevazioni Inps riguardano i rapporti “regolari” in senso debole, vale a dire le posizioni contrattualizzate e perciò note all’amministrazione, anche se irregolari dal punto di vista, ad esempio, delle ore dichiarate. Da tali dati emerge che i lavoratori agricoli erano 1,07 milioni nel 2019, e si evince una tendenza in aumento dei maschi, e in diminuzione delle femmine.[2] Tale ultimo trend tuttavia assai probabilmente dissimula lo scivolamento delle lavoratrici agricole più vulnerabili verso un’area di totale irregolarità. Alcuni studi infatti hanno stimato che al livello locale la presenza delle donne braccianti è tre volte superiore alle quantità risultanti dai dati Inps.[3] La dichiarazione di un numero di ore assai inferiore a quello delle ore realmente lavorate è endemica in agricoltura. In moltissimi casi, e quasi sempre quando si tratta di straniere/i, le ore dichiarate sono inferiori a 50 giornate l’anno, con la conseguenza che queste/i braccianti non hanno accesso alle indennità di disoccupazione agricola, malattia, infortunio e maternità.

La quantità delle donne soggette a grave sfruttamento in agricoltura è certamente significativa.[4] Se si assume come parametro generale la stima dell’Osservatorio Placido Rizzotto di 180.000 lavoratori/trici soggetti/e a grave sfruttamento, e si considera che la percentuale delle donne lavoratrici agricole è di circa il 32% del totale, le donne gravemente sfruttate sono almeno 51-57.000 unità.[5] Benché le situazioni di sfruttamento nel Centro-Sud siano più conosciute, lavoratori e lavoratrici in condizioni di grave sfruttamento sono stati registrate/i anche nel Centro-Nord, soprattutto laddove, come in Veneto e nell’Emilia-Romagna, sono state messe in atto buone pratiche di ispezioni del lavoro realizzate attraverso la cooperazione con enti anti-tratta e con la partecipazione di mediatori/trici culturali.

La presenza del caporalato è pervasiva, e sovente le condizioni di lavoro dei/delle braccianti dipendono sia dalla capacità di contrattazione dei caporali sia dalle convenienze di questi ultimi. In genere i caporali trovano per i/le braccianti sistemazioni di alloggio isolate, ad esempio in casolari diroccati e senza servizi, per poter lucrare sulle spese di vitto e di trasporto. In generale, le donne braccianti hanno una limitata capacità negoziale, non solo a causa della dipendenza dai caporali ma anche a causa della dipendenza dai componenti maschi del nucleo familiare.

Il grave sfruttamento si basa sui bassi salari, sul divario tra previsioni contrattuali, ore dichiarate e ore lavorate, su un orario di lavoro che spesso è di 10-12 ore al giorno, nonché su condizioni di lavoro insicure e condizioni abitative malsane se non degradanti. In molte zone è stata inoltre registrata una notevole disparità salariale tra donne e uomini. Ad esempio, in molte zone del Sud Italia, mentre un uomo percepisce 40-42 euro al giorno, una donna non arriva a 30 euro.

La disparità salariale viene giustificata in base alla differenziazione delle mansioni, poiché le donne vengono impiegate quasi esclusivamente nella raccolta e nelle attività di magazzino, considerate meno “pesanti” di altre attività svolte dagli uomini. In verità le donne – soprattutto in Sicilia nella zona “trasformata” – sono massicciamente impiegate nelle serre, poiché ciò consente loro di tenere con sé i/le figli/e. Orbene, il lavoro in serra è considerato uno dei più pesanti oltre che uno dei più nocivi. Questo e altri esempi mostrano che la segregazione delle mansioni è frutto più di stereotipi di genere che di effettiva diversità di rendimento, e dissimula in realtà la discriminazione di genere.

Le responsabilità di cura costituiscono un fattore permanente di difficoltà quotidiane per le lavoratrici, sulle quali il lavoro di cura grava quasi per intero, essendo generalmente i rapporti intra-familiari di tipo molto tradizionale. I lunghi orari di lavoro non consentono alle braccianti di dedicare tempo ai/alle figli/e, e perciò provocano in loro sensi di colpa e stress. Quando i bambini sono stati lasciati in patria, affidati alle cure dei nonni o di altri parenti, è difficile per le lavoratrici mantenere con loro un rapporto costante e vitale. D’altra parte le responsabilità di cura sono anche un fattore di resilienza, ovvero di rottura con l’ambiente omertoso dello sfruttamento quando le prospettive per i/le figli/e diventano rischiose o troppo negative o problematiche.

Un aspetto che caratterizza il grave sfruttamento delle lavoratrici agricole è il fatto di subire sistematicamente molestie e ricatti sessuali – esercitati dai caporali e talvolta dai datori di lavoro – soprattutto in occasione del pagamento dei salari. Infatti accade di frequente che alla lavoratrice il caporale richieda prestazioni sessuali sotto minaccia di non pagarle il salario dovuto. Non mancano purtroppo anche casi di violenze sessuali. La ricorrenza sistematica di minacce e molestie sessuali, nelle narrazioni dei testimoni privilegiati intervistati, denuncia una sorta di controllo non solo sulla prestazione lavorativa ma – secondo un tipico schema patriarcale – anche sul corpo e sulla sessualità della donna soggetta all’autorità maschile.

Sono stati riscontrati anche casi di transito da una forma di sfruttamento all’altra, a seconda delle convenienze degli intermediari, ovvero di doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo. Si tratta tipicamente delle donne nigeriane che si prostituiscono sotto il controllo di una maman nei cosiddetti ‘ghetti’, e che di giorno vanno a lavorare nel campo per ripagare più rapidamente il debito.

Nonostante le loro vulnerabilità, le donne braccianti hanno sempre manifestato una agency, vale a dire una capacità di assumere decisioni consapevoli sulla propria vita e su quella delle persone che da loro dipendono. Solo quando la gamma delle scelte si restringe fino a diventare costrizione assoluta, o quando a loro si prospetta una reale alternativa di vita e di lavoro, le donne decidono di parlare delle loro condizioni di sfruttamento.

La prospettiva di genere deve dunque essere una priorità dell’attuazione del Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura in tutti i suoi aspetti, dalla prevenzione alla vigilanza e al contrasto, alla protezione e assistenza, fino al reinserimento socio-lavorativo.[6] Il piano deve istituire percorsi certi, flessibili e individualizzati, che offrano risposte concrete alle lavoratrici: un lavoro regolare, previa eventuale formazione o tirocinio, un alloggio decoroso, servizi per la cura dei/delle figli/e, la scolarizzazione e i trasporti, la regolarizzazione dello status di soggiorno laddove necessaria, e un accesso immediato e gratuito ai rimedi, ivi compreso il recupero dei salari non pagati, la tutela in caso di molestie sessuali, e il risarcimento del danno.  

Note

[1] Lo studio Analisi di genere delle politiche di prevenzione e di contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura pubblicato a gennaio 2022 è stato da me realizzato per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – Ufficio per l’Italia e San Marino, in base a dati ufficiali di fonte Inps e Istat, e mediante 23 interviste a testimoni privilegiati, prevalentemente operatori/trici degli enti anti-tratta, ricercatori/trici e sindacaliste/i della Flai-Cgil. 

[2] Inps, Tra emergenza e rilancio, XIX Rapporto Annuale, ottobre 2020.

[3] G.Moschetti, G.Valentino, “L’impiego delle donne straniere in agricoltura: i dati INPS e i risultati dell’indagine diretta in Puglia, nelle aree di Cerignola (FG) e Ginosa (TA)“, in CREA, Il contributo dei lavoratori stranieri all’agricoltura italiana, luglio 2019.

[4] Osservatorio Placido Rizzotto/Flai-Cgil: V Rapporto agromafie e caporalato, 2020.

[5] M.G. Giammarinaro, Analisi di genere delle politiche di prevenzione e di contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura, cit., p. 12.

[6] Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato, 2020-2022. 

Maria Grazia Giammarinaro

11/5/2022 https://www.ingenere.it

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