LAVORO O SCHIAVITU’? LA DERIVA 40NNALE

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Lavori presenti e scomparsi tra licenziamenti e delocalizzazioni

Da quaran’anni anni sono progressivamente peggiorate le condizioni di vita e di lavoro. Imprese, governo e padronato hanno utilizzato le varie crisi dell’economia capitalista per tagliare i salari, ridurre i diritti, aumentare i ritmi e smantellare lo stato sociale (servizi pubblici e beni comuni). Dal Jobs act, all’automatismo degli scatti della “Fornero”, dalla Buonascuola ai decreti Madia sul pubblico impiego, dai tagli alla spesa pubblica fino alla cancellazione della mobilità e della cassa per cessazione (aggravando le condizioni di centinaia di migliaia di licenziati). La traccia riconosce esplicitamente che questi sono “punti di rottura con i lavoratori e le lavoratrici”: “ferite aperte e non rimarginate”. Ma il punto è: come si è combattuto contro questi provvedimenti, e come si propone ora di continuare a combattere?

In quarant’anni il paese che produce è cambiato: ha visto la crescita a dismisura del terziario (commercio e servizi) con il ridimensionamento del manifatturiero (oggi produttore 25% del PIL con il 20% dell’occupazione), sono scomparse le grandi concentrazioni produttive, si sono polverizzati i luoghi di lavoro, sono cresciuti i lavori precari, gli aumenti contrattuali si sono fatti sempre più modesti e dilazionati nel tempo, è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e del part-time non volontario, cresce la popolazione inattiva, al disopra delle medie europee.
dagli anni ottanta del novecento lo smantellamento delle politiche di welfare sono procedute di pari passo con quelle di deregolamentazione del mercato del lavoro favorendo la proliferazione di forme alternative sempre più spinte di flessibilità di ingaggio e gestione del lavoro (contratti, orari, sono i principali obbiettivi).

Questo dato strutturale, unito alla deregolamentazione del mercato del lavoro e alla legislazione sui licenziamenti, spiega le ragioni della desertificazione sindacale in Italia più che in altri Paesi europei.
I salari sono bassi, vergognosamente bassi. Anche quei pochi rimasti stabile. Per precari e discontinui, invece, la dinamica è addirittura discendente, quando si passa da un lavoro all’altro. In molti comparti, specie nella grande distribuzione, i 600 euro al mese per orari settimanali decisi arbitrariamente dalle aziende, sono diventati quasi la normalità.

La tendenza evolutiva della società richiede risposte diverse e soprattutto nuove forme organizzative della rappresentanza dei lavoratori, partendo dall’urgenza della ricomposizione politica immediata del lavoro precario. E’ una sfida per tutto il mondo sindacale che comporta una mutazione radicale di forma e contenuto, pena l’estinzione o la banale riduzione a semplice residuo preistorico.

Oggi con la nuova spinta inflazionistica globale quel modello farà la fine del guscio di noce nella tempesta.

In questo quadro parlare di salario minimo è comprensibile, ma rischia di avere l’efficacia di un pannicello caldo che non risolve il problema del modello contrattuale, del recupero contrattuale, della necessità di reintrodurre automatismi salariali legati all’andamento dei prezzi, visto che una politica dei prezzi e dei redditti centralizzata non si è mai voluta fare negli accordi del 1993.

Pubblico Impiego

Salari pubblici: in 20 anni si è perso il potere di acquisto e i futuri aumenti saranno insufficienti e va confutato l’ultimo rapporto Aran gli stipendi pubblici aumenterebbero più della inflazione con il recupero pressoché totale del potere di acquisto.
Dora in poi si spera che prima di firmare i sindacati si ricordino che con le ultime due tornate contrattuali hanno visto aumenti di molto inferiori al reale costo della vita: il 3,5% nel 2016-2018 e il 4% nel 2019-2021. E quale sarà nel biennio 2022-24 con i costi energetici e dei prodotti di prima necessità aumentati senza freni decretando un ulteriore impoverimento dei lavoratori?

Esiste dunque un’emergenza salariale nella Pubblica Amministrazione? Sì, se confrontiamo gli stipendi della Pa con quelli degli appalti nei quali si applicano i Ccnl delle cooperative sociali e multiservizi, ove il contratto individuale di riferimento è quello part time con paghe irrisorie e contributi che non permetteranno una pensione dignitosa. La tendenza dei sindacati complici è quella di raccontare una lieta, che poi lieta non è, novella, secondo la quale gli aumenti accordati siano sufficienti e a loro volta incrementati dalla contrattazione aziendale.

Fermiamoci sui contenuti di questa informazione falsa e tendenziosa (a nostro avviso): Gli aumenti medi negli enti locali se tradotti in cifre nette si traducono in poche decine di euro per la stragrande maggioranza della forza lavoro, da questi aumenti dovranno trarre quanto già erogato con la indennità di vacanza contrattuale,

un’altra pensata di inizio secolo per scongiurare l’erogazione degli arretrati contrattuali. Seconda considerazione riguarda i fondi destinati alla contrattazione decentrata, o di secondo livello a seconda di come la si voglia definire, ebbene il fondo della produttività se accresciuto dovrà sempre rispettare dei tetti di spesa che non consentono incrementi reali del fondo stesso senza dimenticare che parte di questi soldi è già destinata al pagamento di istituti contrattuali erogati in termini divisori e conflittuali all’interno della forza lavoro.
Se stanzio, è solo un esempio, 10 euro in più a dipendente, non è detto che quei 10 euro si ritrovino in busta paga perché la loro distribuzione è soggetta alle forche caudine della contrattazione decentrata e a regole sovente costruite ad arte per creare diversità di trattamento economico tra lavoratore\trice e lavoratore\trice. La tendenza degli ultimi contratti pubblici è stata quella di demandare alla contrattazione di secondo livello la gestione di alcune patate bollenti con una prassi analoga al settore privato dove dominano le deroghe al contratto nazionale.

Ovviamente per questo governo nel “Decreto lavoro” a ben guardare, di lavoro si parla molto poco in questo decreto, mentre si parla molto di sussidi, sgravi, crediti d’imposta, benefits; agendo di fatto senza trasformare di una virgola l’impianto normativo del mercato del lavoro. La misura simbolo del modo con cui questo governo intende punire e riportare all’ordine qualche milione di lavoratrici e di lavoratori, migranti e non, è infatti la cancellazione dell’odiatissimo Reddito di cittadinanza (Rdc).

Da tempo nella Pa hanno incrementato le misure disciplinari che poi si traducono in una doppia penalità ossia in valutazioni inferiori che determinano riduzione della produttività, da qui la storica richiesta della quattordicesima che manca nella Pa, e impediscono le progressioni di carriera. L’obbligo di fedeltà aziendale resta un vulnus democratico e uno strumento repressivo che inficia il diritto di critica e la stessa azione dei delegati sindacali. Una campagna nazionale dei sindacati, per rimuovere l’obbligo di fedeltà aziendale è sempre più urgente e necessaria, di fronte agli incubi che si prospettano per le nuove generazioni.

Altrimenti, come già constatiamo quotidianamente, sarè sempre più radicalizzata negli animi e nei comportamenti sul lavoro il disincanto, e la disperazione.

Si tocca con le mani, è il conseguente imbarbarimento delle stesse relazioni sociali, fatte di indifferenza verso chi sta peggio, fino all’odio verso gli altri considerati diversi, il processo di distruzione degli ideali, dei valori di comunità per sostituirli con presunti nuovi valori impregnati di individualismo e di appartenenza a singole tribù con a capo personaggi paradossali.

La sconfessione del conflitto e mobilitazioni collettive da parte dei poveri, siano essi lavoratori o pensionati, giovani e disoccupati storici – questa e la narrazione dominante, con i media nelle mani dei poteri finanziari – giustifica l’impotenza dei grossi sindacati? Se invece di commentare i drammi sulla riduzione del 15% dei salari dal 2007, (i più bassi d’Europa da decenni) e fare inutili scioperi formali, combattessero questa lotta di classe ora solo unilaterale, il Paese non starebbe così malmesso. La sfiducia è tanta, ma se non si ricomincia a lottare duramente sarà incurabile.

Si è consapevoli che alla fine di questa strada c’è il dirupo e la paventata secessione del nord dal sud Italia, e dell’aumento delle disuguaglianze ricchi e poveri ricchi del nord, sarà la catastrofe e ci sarà anche tra i lavoratori chi maledirà il sindacato che non ha fermato in tempo la mannaia sulla loro testa?

Un dirupo forse evitabile anche con i referendum sul lavoro decisi dalla Cgil. Lodevole tentativo di frenare la progressiva sconfitta dei lavoratori in atto da decenni, ma siamo da sempre convinti che senza il conflitto contrattuale con una rifondazione del sindacalismo che ridia rapporti di forza ai lavoratori questa veste politica della Cgil poco inciderà nei posti di lavoro.

Redazione di Lavoro e Salute

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