Lo strabismo sindacale

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La formazione del governo Draghi è stata ovviamente al centro dei commenti più disparati.
Per il cosiddetto “mainstream” non ci sono stati dubbi: si tratta di un’occasione unica, Draghi è l’autorevolezza fatta persona, ha salvato l’Europa con l’ormai famoso “wathever it takes”, è un politico raffinato, nascosto sotto le parvenze dell’algido banchiere…e così via.
Nell’area del centro-sinistra si è dipinto il neo Presidente del Consiglio come un economista progressista e keynesiano, il solo in grado di trasformare la pandemia in un progetto di “grande trasformazione” del Paese.

Ma Draghi è’ davvero così? Tralasciamo la nomina, come suo consigliere economico, dell’ultraliberista Giavazzi, del quale ha pensato bene di copiare anche qualche pezzo di discorso alle Camere. Ma si dimentica, ad esempio, che Draghi è stato il coautore, insieme a Trichet, della famosa lettera d’intenti che ha imposto all’Italia l’applicazione di pesanti controriforme; che è stato protagonista, a suo tempo, del soffocamento della Grecia di Tsipras e Varoufakis? che lo stesso intervento monetario della BCE si è tradotto soprattutto in un grande finanziamento al sistema bancario in difficoltà. Il nostro, si sa, è un Paese che soffre spesso di amnesie.

In realtà, sul significato della nascita del nuovo governo non dovrebbero esserci dubbi . Lo stesso percorso personale di Mario Draghi, come già accennato, parla da solo (per tacere della lista dei ministri e sottosegretari). Si tratta in sostanza di affidare i miliardi del Recovery Plan alle mani sicure del garante per eccellenza dell’establishment europeo, ritenuto in grado di gestire al meglio le sorti del Capitalismo italiano colpito, come tutto il sistema della globalizzazione, da una grave crisi sanitaria tendente alla crisi economica.
Confidando che, attraverso l’unità, più o meno fittizia, di tutte le forze politiche, esso sia anche in grado di mettere in campo quelle riforme di accompagnamento che l’Europa, come all’epoca di Monti, ci chiede.
Perciò abbiamo avuto il privilegio di assistere, in questi giorni, alla pressochè unanime esaltazione e gloria di Mario Draghi: persona autorevole, certo, ma la cui autorevolezza viene messa al servizio di un progetto ben preciso, che non ci è certo favorevole.

A questo clima osannante non si è sottratto neppure lo schieramento di centrosinistra. A partire dal PD, ovviamente, ma anche LeU è riuscita ad adattarsi alla compagnia di giro del maestro Draghi e Sinistra Italiana, che ha assunto, pur dividendosi, una posizione lodevolmente critica, non lo ha fatto a causa del significato intrinseco della formazione del governo, ma perché stare insieme a Salvini e Berlusconi è davvero troppo.
Non parliamo, poi, della capacità camaleontica del M5S, fulmineamente in grado di entrare in un governo con l’antico nemico Berlusconi, e della Lega, già padana e sovranista, pronta ora ad indossare la felpa europeista.
In questo contesto di grande confusione, molto importante diventa capire come intendono rapportarsi al nuovo governo quelle che, senza nulla togliere alle forze della Sinistra (come Rifondazione) che si oppongono al governo Draghi, sono rimaste, ormai, le sole aggregazioni di massa in grado di rappresentare, almeno potenzialmente, i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici: si tratta, ovviamente, delle organizzazioni sindacali.

Purtroppo, anche su questo versante, non c’è da stare allegri. Mi riferisco soprattutto al maggior sindacato del nostro Paese, la CGIL. Non perché le altre sigle sindacali (almeno quelle confederali) su questo fronte si siano comportate meglio, anzi. Piuttosto, perché dalla CGIL, giustamente, ci si aspetta qualcosa di più. E premettendo che le considerazioni che seguono vengono da uno che ha militato per anni nella CGIL (nella FIOM, poi nella FP), che ha partecipato con convinzione all’esperienza (Democrazia e
Lavoro) che ha concorso a portare all’elezione a Segretario Generale di Maurizio Landini e che ora è un semplice iscritto allo SPI.

Senza attribuire più importanza del dovuto alle parole, in epoca di pandemia, con le ovvie difficoltà a svolgere attività in presenza, le dichiarazioni che passano sugli schermi televisivi, sulla stampa o sui social assumono un’importanza particolare. Proprio le dichiarazioni del compagno Landini, subito dopo la nascita del governo Draghi, appaiono poco convincenti. Ne riporto alcune, così come apparse sui media: “Draghi è autorevole, può essere una persona utile”. “Draghi ha consultato le parti sociali prima di fare il governo. E’ una novità”. “Draghi ha proposto di ridurre l’IRPEF mantenendo la progressività. Ciò corrisponde alle nostre proposte ed è una base utile per avviare il confronto”.

Si può comprendere, credo, la volontà di non assumere immediatamente posizioni ostili verso un nuovo governo, magari con l’intenzione di preservare una possibilità di confronto che compagini precedenti non hanno garantito.
Parliamo, tuttavia, di un governo particolare, di “grandi intese”, presentato con una forte caratterizzazione “tecnica”. Tutte le esperienze precedenti di questo tipo, da Ciampi a Monti, non hanno portato nulla di buono al movimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Anzi, se vogliamo fare una rapida digressione “storica” il dare eccessivo credito ad un governo non ha mai portato a risultati positivi per il Sindacato e, soprattutto, per i lavoratori e le lavoratrici. Se non vogliamo risalire fino al “governo delle astensioni” (Andreotti, 1976), vediamo che il governo Craxi (1983) portò alla spaccatura della stessa CGIL e al primo pesante attacco alla scala mobile; il governo Amato (1992), che registrò una “assunzione di responsabilità da parte della CGIL” (Storia della CGIL, ediesse) portò all’accordo del 31 luglio 1992, che sancì la fine definitiva della Scala Mobile; il governo Dini (1995), esecutivo tecnico che vide il “sostegno decisivo dei sindacati” (Storia della CGIL, ediesse), avviò la riforma delle pensioni basata sul sistema contributivo; il governo Monti (2011), seguito a Berlusconi, venne visto inizialmente con benevolenza da parte sindacale, portando ad una reazione debolissima (le famose 4 ore di sciopero) alla riforma Fornero.

Al contrario, solo quando la CGIL seppe riprendere un chiaro spirito di autonomia qualche risultato si ottenne: nel 1994 il governo Berlusconi fu costretto dalla mobilitazione al ritiro di una Legge Finanziaria fatta solo di tagli e al tentativo di controriforma delle pensioni; in occasione del secondo governo Berlusconi fu la grandiosa manifestazione del 23 marzo 2002, organizzata dalla CGIL al Circo Massimo, ad impedire un primo attacco all’art. 18. E nelle fasi in cui, malgrado il recupero di autonomia e di iniziativa, non riuscì ad ottenere il risultato (ad esempio col Jobs Act di Renzi) quanto meno seppe rinsaldare il fondamentale legame con la propria base (e alla fine quel governo comunque cadde).

Tornando all’oggi, penso innanzitutto che una grande organizzazione sindacale abbia il diritto/dovere di segnalare ai propri iscritti e alle proprie iscritte (e non solo) quali siano le potenzialità ma anche i rischi che presenta la situazione esistente. Mi sarei aspettato, perciò, che questo fosse l’atteggiamento della CGIL, senza con questo volersi sostituire alla cosiddetta “politica”. Il che non esime, naturalmente, dalla necessità di seguire da vicino le mosse del governo, che non si presenterà da subito, avendo da distribuire alcuni miliardi, come i vecchi governi dell’austerità. Probabilmente gli effetti si vedranno nel medio periodo, e fondamentale sarà il tema delle diseguaglianze, che ne usciranno ulteriormente accentuate.
Ma, al di là di questo ragionamento, sorgono comunque spontanee una serie di domande: siamo in grado di dire,oggi, che Mario Draghi deciderà di prorogare, e come, il blocco dei licenziamenti? Sappiamo quali modifiche opererà sul Recovery Plan? Possiamo dire che, oltre alla proroga del blocco dei licenziamenti, il governo opererà per il ripristino dei diritti del lavoro (art. 18, Jobs Act)?

Quali saranno le ricadute concrete su lavoratori e lavoratrici, di una politica tesa a salvare solo le aziende più “meritevoli”? Siamo in grado di prospettare, dopo la nomina di Brunetta, in che direzione andrà la riforma della Pubblica Amministrazione? L’asserito potenziamento della Sanità territoriale ne preserverà il carattere pubblico, o si orienterà verso il già sperimentato (con gli effetti noti) partenariato

fra pubblico e privato? Sappiamo come Draghi intende intervenire sulle Pensioni, allo scadere di “quota 100”? Cosa significa “ridurre l’IRPEF mantenendo la progressività” quando sappiamo che proprio la progressività è stata pesantemente intaccata nel tempo?

C’è un piano di assunzioni stabili nel Pubblico Impiego, a partire da Scuola e Sanità? C’è un Piano più generale per il Lavoro che fronteggi la crescita della disoccupazione, specie giovanile e femminile?

Possono apparire, queste, domande banali e retoriche. Ma io credo, invece, che esse possano riportare alla realtà dei fatti. Perchè, se proprio non si volesse azzardare un giudizio complessivo sull’operazione che ha portato alla costituzione del governo Draghi, si potrebbe almeno provare ad applicare quel vecchio metodo che dice: 1) definiamo le proposte del Sindacato per affrontare la crisi e raccogliamole in una piattaforma condivisa; 2) su di essa andiamo al confronto col governo e sentiamo quali sono le sue risposte; 3) coinvolgiamo lavoratori e lavoratrici nel giudizio da dare a tali risposte; 4) se il giudizio su di esse è negativo, agiamo di conseguenza e costruiamo i necessari momenti di mobilitazione.
L’applicazione di un simile metodo è certamente oggi resa più difficile dalla persistenza del covid, ma ciò non la fa diventare impraticabile, pena la perdita delle ragioni stesse di esistenza del Sindacato.

In una precedente occasione, a proposito del governo Conte 2, Maurizio Landini dichiarò: “Se si rimane ai titoli, il Sindacato è pronto alla mobilitazione”. Ad oggi, in assenza di risposte precise da parte di Draghi, siamo appunto ai titoli. Perché poi, al di là delle dichiarazioni, che sono comunque importanti, il problema è il seguente: abbiamo visto, in questi mesi, lo svilupparsi di diverse mobilitazioni parziali, dai metalmeccanici al Pubblico Impiego, a tutti quei movimenti che hanno prospettato la costruzione di una alternativa di società al trionfo del Capitalismo e del Mercato. E’ mancato, invece, un processo di unificazione e generalizzazione di queste esperienze. La costruzione, cioè, di una rete di iniziativa e di solidarietà in grado di stimolare processi di più ampia partecipazione. Senza subalternità, e tanto meno deleghe in bianco, a nessuno.

Il Sindacato potrebbe oggi dare un contributo importante, e forse indispensabile, in questa direzione. Ma avendo chiaro, però, che apparire come una della già tante voci che inneggiano a Mario Draghi non aiuta affatto i lavoratori e le lavoratrici a recuperare la loro coscienza di sé (una volta si diceva “di classe”) e a sviluppare una mobilitazione che è
ogni giorno più urgente e necessaria.

Fausto Cristofari

Già dirigente CGIL FP Torino

Pubblicato sul numero di marzo del mensile Lavoro e Salute

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