L’otto di classe

Il 26/11/2006, l’edizione online del New York Times pubblicò, a firma di Ben Stein (avvocato e commentatore economico) un articolo intitolato In Class Warfare, Guess Which Class is Winning. Parlando di carico fiscale e deficit di bilancio, l’autore ricordava una conversazione con Warren E. Buffett, value investitor, CEO di Berkshire Hathaway e secondo uomo più ricco al mondo dopo il celebre Bill Gates. Non solo un potente, un capitalista, un padrone, ma un membro del ristrettissimo gotha di “signori della finanza e in ultima analisi del mondo” composto da 8 (sic!) uomini che possiedono, insieme, la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione globale (Oxfam 2017). Tutto normale? Solo nell’attuale contesto di trionfo del capitalismo.

Mentre i due parlavano di sperequazione fiscale negli USA, sembra che Buffett abbia sostenuto l’ingiustizia (sic! – e due) di un sistema contributivo dove lui, potente fra i potenti, paga proporzionalmente molto meno di chiunque altro nella propria azienda. Alla replica che una tale riflessione avrebbe suscitato l’accusa – assai “infamante” nell’impero della finanza – di fomentare la lotta di classe, Buffett avrebbe dichiarato «C’è una lotta di classe, è vero. Ma è la mia classe, quella dei ricchi, che sta muovendo guerra, e la stiamo vincendo».

Forse Buffett si vede nei panni del socialismo utopista di “padroni buoni” come Robert Owen (1771-1858) o Charles Fourier (1772-1837): oltre a criticare il sistema fiscale americano, nel 2006 ha donato 37 miliardi di $ in beneficenza e oggi è attivo finanziatore della Bill & Melinda Gates Foundation, la più grande organizzazione filantropica del mondo (e questa è attività di moda, fra i Paperoni). Il buon benefattore, però, non mette in discussione il sistema che permette a lui e ai suoi amichetti di essere tanto generosi; né, pare, la sua azienda ha mai varato un qualche rivoluzionario piano di condivisione dei profitti con i propri dipendenti. Infatti, Buffett è ancora il secondo uomo più ricco al mondo.

La cosa più interessante è che il suo pensiero sulla lotta di classe non è solo lucidissimo e ferocemente esatto: il punto è che esso proviene da chi dovrebbe maggiormente temerla, la lotta di classe. Per converso, risalta la colpevole assenza di autocoscienza da parte di chi la lotta di classe dovrebbe fomentarla, combatterla e – sperabilmente – vincerla: quegli stessi ceti subalterni che oggi sono più interessati a prendersela con migranti, poveracci (“più poveracci di loro”) e a vomitare insulti su Laura Boldrini. Il paradosso, quindi, è che un signore del capitalismo comprende gli interessi di classe molto meglio di un operaio. Ciò non stupisce troppo: il primo gode presumibilmente di migliore istruzione e strumenti culturali più raffinati.

E questo è, forse, il vero punctum dolens sul quale intellettuali, militanti e in generale “anime” di sinistra dovrebbero interrogarsi. Dopo trent’anni di pensiero unico ed esaltazione diffusa del liberismo, la tradizionale egemonia culturale della sinistra non esiste più, ma non solo. Non esiste nemmeno più l’egemonia della cultura in sé, in quanto valore individuale e collettivo, nonché occasione di riscatto sociale. Un libro? Meglio lo smartphone. Porsi una domanda in più rispetto al pensiero mainstream? Troppo radical chic. Politica? Meglio Le Iene. A una domanda un tempo assurda, oggi non si può dare che una triste risposta: esiste una qualche consapevolezza degli interessi di classe, di quella classe che più ne ha bisogno? No. Eppure quelli con il posto al sole hanno consapevolezza dei propri. Ciò è strano, improbabile o unico? No, è solo ingiusto: ma nella storia le cose sono sempre andate così.

In un momento imprecisato, compreso fra il 430 e il 415 a.C., nella democratica Atene post-periclea – impegnata nella guerra del Peloponneso e di recente colpita da una tragica pestilenza – compare un breve pamphlet, un trattatello polemico e feroce che oggi chiamiamo Costituzione degli Ateniesi. Scritta da un anonimo, da noi indicato come “Vecchio Oligarca”, si tratta di un’acuta e violenta critica alla democrazia radicale ateniese (la quale, pur segregando le donne e mantenendo la schiavitù, era per l’epoca effettivamente rivoluzionaria, se non altro a vantaggio dei cittadini di pieno diritto). L’Oligarca non afferma che il regime democratico non funzioni: al contrario, rimarca quanto le istituzioni garantiscano ed esaltino gli interessi della “plebaglia”, contrapposta ai ceti aristocratici che detengono il potere nella polis greca. Allo stesso tempo, l’anonimo attacca quegli aristocratici che traggono profitto dalla democrazia, collaborando con il governo popolare e legittimandolo.

“Io ammetto volentieri che il popolo ami la democrazia: è comprensibile che ciascuno persegua i propri interessi. Ma quando uno che non proviene dal popolo sceglie di stare in una città democratica piuttosto che in una oligarchica, vuol dire che costui ha in mente di compiere qualche azione delittuosa” (II 20).

L’Oligarca analizza altresì l’atteggiamento degli Ateniesi nei confronti delle città alleate, a suo avviso influenzato da questioni ideologiche:

“Nelle città colpite da lotte civili gli Ateniesi appoggiano gli elementi peggiori. Ma lo fanno a ragion veduta. Se infatti appoggiassero i migliori, non avrebbero a che fare con persone che la pensano come loro. In nessuna città i migliori sono ben disposti verso il popolo; al contrario, ovunque sono proprio i peggiori a essere ben disposti verso il popolo: il simile, come è noto, è ben disposto verso il simile. Per questo dunque gli Ateniesi scelgono secondo il loro tornaconto” (III 10).

Fatta salva la violenta retorica nei confronti dei democratici e del popolo, l’Oligarca è quindi molto lucido nell’identificare i loro interessi, così come quelli della propria “parte”. Pur non potendosi usare in antico il concetto di “classe”, almeno nell’accezione marxiana, colpisce che, ieri come oggi, i più efficaci analisti delle tensioni sociali siano sempre i potenti. Quegli stessi potenti che, in pubblico, da più di 150 anni rifiutano l’idea dello scontro di classe in quanto destabilizzante per uno status quo sociale che conviene solo a loro. Ma, in tutto questo, i potenti non fanno altro che il proprio lavoro: perseguono appunto i propri interessi. “L’otto di classe”, quegli 8 che possiedono quanto mezzo mondo, conoscono bene i propri interessi. Chi è, al contrario, che non conosce, né persegue i propri?

Giuseppe Cilenti

Pubblicato nell’inserto CULTURA/E del numero di marzo della rivista Lavoro e Salute  www.lavoroesalute.org

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