Molestie sessuali e sfruttamento sul lavoro

Se è vero che la possibilità di denunciare le molestie sessuali è più diffusa del passato è anche vero che è cresciuto lo sfruttamento delle donne sul lavoro. Alcuni casi su cui i grandi media hanno sguazzato farebbero pensare che se vuoi migliorare le tue condizioni di lavoro, ottieni più appoggio sociale e presenza mediatica codificando il conflitto in termini di aggressione sessuale più che di diritti o condizioni lavorative. In molti pezzi di società e in diverse istituzioni (ad esempio le università), sempre più dipendenti dalla precarietà, l’abuso sessuale e i rapporti di lavoro precari hanno cominciato a rafforzarsi a vicenda. Intanto, in molti paesi accade che le donne migranti subiscano più abusi rispetto alle donne bianche. Il capitalismo, del resto, non smette mai di dividere e stratificare i popoli per sfruttarli meglio. Secondo Nuria Alabao, antropologa, occorre contrastare prima di tutto le condizioni che rendono gli abusi possibili, o rendono impossibile alle donne combatterli: la solidarietà femminista tra donne di condizioni sociali ed economiche diverse può aprire crepe profonde nella gabbia del lavoro

Il #SeAcabó, le proteste della squadra di calcio femminile per gli abusi di potere e per il bacio di Luis Rubiales alla giocatrice Jemmi Hermoso (agosto 2023, ndr) ci hanno lasciato un monito per questi tempi. Le calciatrici già da tempo avevano un conflitto sindacale e una lista di rivendicazioni lavorative per cui si stavano mobilitando, ma hanno ottenuto attenzione pubblica e ampia solidarietà solo quando si è iniziato a parlare del bacio non consensuale. Quindi si potrebbe pensare che se vuoi migliorare le tue condizioni di lavoro, otterrai più appoggio sociale e presenza mediatica codificando il conflitto in termini di aggressione sessuale più che di diritti o condizioni lavorative. Sembra che lo sfruttamento, l’abuso o addirittura la tratta attirino meno attenzioni se non sono accompagnati da questioni sessuali.

Abuso e precarietà, una stretta relazione

Accade naturalmente all’Università. Da tempo è noto che molti professori sfruttano il lavoro e le idee degli studenti di dottorato o dei borsisti che frequentano i loro dipartimenti. Questi studenti dipendono dai docenti per poter sperare in un contratto più stabile in futuro, quindi possono fare ben poco, si considera un pedaggio da pagare se si vuole fare la carriera accademica. Le denunce pubbliche quasi mai hanno conseguenze, a meno che non vengano espresse in termini sessuali. Le denunce di abuso sessuale, indipendentemente dal grado di violenza implicata, almeno possono avere ripercussioni mediatiche e innescare ondate di appoggio, al di là che si riesca o meno a contrastare effettivamente questi abusi o che i responsabili se ne assumano le conseguenze. Se non c’è di mezzo uno scandalo sessuale, ancora una volta, lo sfruttamento sul lavoro non sembra preoccupare nessuno o è considerato parte integrante del mondo lavorativo della società capitalista. Il fenomeno della violenza sessuale sul luogo di lavoro – o di studio – non si può comprendere pienamente senza metterlo in relazione con l’aumento della precarietà nei rapporti lavorativi. È infatti proprio quest’instabilità che rende possibile e fomenta l’abuso.

Questo tema è diventato di preoccupazione pubblica grazie a un attivismo femminista molto presente nelle università, prima infatti molte denunce venivano semplicemente ignorate e tutto restava uguale. Di fatto quest’attivismo femminista ha contribuito a far nascere procedimenti e protocolli per affrontare questi casi come parte di “un tentativo comprensibile di creare un mondo più prevedibile, quindi più sicuro e meno precario”, dice Alison Phipps a proposito del caso statunitense. Tuttavia secondo l’autrice il modo in cui vengono implementati, invece di contribuire al benessere delle donne vittime di abuso, finisce per rafforzare l’istituzione che strumentalizza le narrazioni di sicurezza e protezione: i rapporti di potere rimangono inalterati, però “se si seguono i giusti protocolli, andrà tutto bene”. Secondo Phipps la violenza sessuale sta diventando una risorsa utile a rafforzare il potere delle istituzioni, che dipendono sempre più dalla precarietà come strumento di dominio, per cui l’abuso sessuale e i rapporti di lavoro precari si rafforzano a vicenda. “Mentre la precarietà di questi rapporti espone donne e chiunque sia emarginato a subire violenze sessuali, la violenza stessa alimenta i processi istituzionali di sfruttamento tramite la paura, il disagio e il trauma” che genera, spiega la sociologa. L’insicurezza nel lavoro e l’insicurezza fisica plasmano soggettività vulnerabili, le cui singole insicurezze diventano parte delle attuali forme di governo: chi ha paura non si organizza, come scrive Isabell Lorey in Stato di insicurezzaOrganizzarsi, creare forme di solidarietà femminista di classe è lo strumento migliore contro l’abuso e lo sfruttamento.

La violenza sessuale è strettamente legata al potere di classe

In generale le donne subiscono sul lavoro più violenza legata allo sfruttamento che aggressioni sessuali propriamente dette, anche se sono tipi di violenza che si intrecciano: entrambi sono legati al controllo. Il #MeToo ha messo sotto i riflettori la violenza dei datori di lavoro che usano il loro potere simbolico ed economico per abusare delle donne. Ma questi abusi a cosa servono? Uno studio ormai classico di Lin Farley (1978) – realizzato negli Stati Uniti – mostrava come, negli “impieghi femminizzati” dell’epoca (cameriera, dattilografa, impiegata) l’abuso sessuale da parte dei superiori maschi serviva a mantenerle in riga, per controllarne meglio la forza lavoro. In altri tipi d’impiego, dove ai tempi le donne stavano guadagnando spazio (poliziotte, dirigenti o disegnatrici tecniche), gli episodi di nonnismo a sfondo sessuale servivano a mantenerle fuori.

Susan Watkins si chiede se tutto questo accade anche oggi che la presenza delle donne è ormai consolidata in quasi tutte le professioni. È ancora funzionale la violenza come forma di disciplina di genere sul luogo di lavoro, o è ormai residuale? Che rapporto ha questa violenza con i lavori più subalterni o con il razzismo? Secondo un’inchiesta, negli Stati Uniti due donne su cinque che lavorano in posizioni non dirigenziali del settore fast food hanno riferito di aver subito violenza. Inoltre le donne afroamericane e latine erano state oggetto di abusi in misura maggiore che le donne bianche, e affermavano di averli dovuti sopportare in silenzio per non perdere il lavoro – soprattutto le donne latine migranti – o che spesso erano punite per rappresaglia se tentavano di denunciare, soprattutto le donne nere. “Il silenzio veniva imposto non solo dalla dominazione maschile, ma anche dall’ansia normalizzata che regna tra le donne immigrate senza documenti, per le quali le pressioni di natura economica e uno stato civile precario si aggiungono all’oppressione di genere ad indebolire il diritto all’integrità fisica e ad intensificare i timori quotidiani”, dice Watkins.

In Spagna il luogo che meglio fa comprendere la correlazione di questi elementi è la situazione delle raccoglitrici di frutta per salari tra i più bassi del mondo del lavoro. Questa forma di contrattazione in origine offriva un posto dove stare (baracconi isolati) e la possibilità – la disparità di potere per straniere che saranno rispedite nei loro paesi di origine a fine stagione – di far accadere ogni sorta di abuso e aggressione sessuale. Di nuovo, la loro situazione di ipersfruttamento è salita all’attenzione mediatica solo quando qualche violenza è stata denunciata. In ogni caso non ha prodotto nemmeno una grande ondata di indignazione e di appoggio come quelle scatenate dal processo contro “La Manada”, anche se i periodi coincidevano. Troviamo qui di nuovo un salto di classe e di razza/origine migratoria: ci mobilitiamo solo per quello che sentiamo “più vicino”. In base alla “razza” o al genere il capitalismo divide e stratifica i popoli per sfruttarli meglio. Questa solidarietà selettiva incarna queste stratificazioni elaborando la sua personale gerarchia di priorità.

Panico sessuale a lavoro

Nonostante tutto, né la precarietà né la sua relazione con la classe sociale di appartenenza sono molto evidenti nei discorsi sull’abuso. La violenza sessuale è una materia di intervento politico centrale e allo stesso tempo molto complicata per i femminismi. Si tratta di mettere in guardia sulla gravità di questo campo senza definirlo come un grave pericolo né riaffermare il carattere sacro ed eccezionale del sesso. Se mettiamo questa violenza in cima alla gerarchia delle violenze che possiamo subire, se la mettiamo al centro delle nostre preoccupazioni e prima di tante altre problematiche – o a prescindere della trama di dominio più generale imposta dal sistema economico -, può arrivare a porci un limite più che portarci alla liberazione. Il modo in cui lo annunciamo pubblicamente può dare impulso a sensazioni di panico che possono renderci più facili da sottomettere e da disciplinare in quanto forza lavoro.

Secondo Marta Lamas il modo in cui si sta elaborando il discorso egemonico sulla violenza sessuale, influenzato dall’espressione del femminismo radicale statunitense – qui culturale -, rafforza uno schema essenziale che si distacca dalle questioni di classe o rende invisibili altre trame di dominio. Queste rappresentazioni della sessualità maschile sempre come “depravata” e delle donne come vittime, si allontanano da altri elementi come l’oppressione di classe, razza o età – tra i tanti -, oltre a rendere invisibili le molte differenze sociali tra donne. Creano inoltre la figura di una vittima ideale che limita la nostra capacità di resistenza di fronte agli abusi. Questa prospettiva in cui si dà un’eccessiva enfasi alla sessualità, contrapposta ad altre forme di oppressione sociale, può solo condurre a un trattamento punitivista della questione.

La questione di classe ancora una volta ci può aiutare a comprendere. Per le donne di classe media un abuso sessuale può essere la violenza più grave che si trovino ad affrontare nel mondo del lavoro e un freno alla loro carriera, ma per altre donne può non essere la violenza più grande né la più dolorosa dal punto di vista fisico e psicologico (cosa che racconta Laura Macaya nei suoi interventi pubblici). Isabel Otxoa, dell’ Asociación de Trabajadoras del Hogar Bizkaia Etxebarrukoak, spiegava in questo articolo come l’ultima riforma della legislazione sul lavoro domestico proclama il diritto a ricevere protezione in tema di sicurezza e saluta sul lavoro, “specialmente nell’ambito della prevenzione della violenza contro le donne”. Otxoa si chiede perché gerarchizzare la protezione: “Possono essere ugualmente dannose dal punto di vista sia fisico che mentale la mancanza di riposo, di intimità, l’assenza di vita sociale, il poco riconoscimento morale e salariale e la carenza di formazione e di mezzi”, tutti elementi presenti nella vita di molte lavoratrici apprendiste.

Un sindacalismo femminista deve resistere alla tentazione di codificare in termini sessuali qualunque situazione di abuso sul lavoro per occupare spazio mediatico, anche lo sfruttamento sul lavoro può danneggiare le donne e comportare alti livelli di violenza. Sicuramente dobbiamo lottare con ogni strumento a nostra disposizione, ma dobbiamo anche pensare che le nostre decisioni e il racconto che costruiamo sullo sfruttamento, hanno conseguenze sociali. Dobbiamo riflettere su quali discorsi stiamo producendo a partire dal femminismo, per evitare la tentazione essenzialista e la logica del castigo che la accompagna. Assunzione di responsabilità, autonomia delle donne – e giustizia sociale -, assistenza sono altre logiche della giustizia da inserire nel discorso pubblico. L’attivismo dovrebbe combattere le false promesse di sicurezza che rafforzano l’autorità, che sia dell’istituzione accademica con le sue logiche o del sistema penale. Mettere alcuni dei padroni responsabili in carcere non cambierà la situazione delle donne più sfruttate né porrà fine agli abusi, perché ce ne saranno altri e avranno lo stesso potere sulle donne. Contrastare le condizioni che rendono questi abusi possibili, o rendono impossibile alle donne combatterli, è una strategia che va messa al centro, soprattutto se pensiamo a lungo termine e cerchiamo la trasformazione sociale.

Per combattere la violenza sessuale dobbiamo contrastare le instabilità legate a lavoro e precarietà. Sono le condizioni di sfruttamento e violazione dei diritti che pongono le donne in un rapporto di dominio di cui l’abuso e l’aggressione sono parti costitutive. Per combatterlo meglio dobbiamo avere diritti al lavoro, residenze legali – non subordinate all’impiego -, ispezioni sul lavoro, potere sindacale e capacità di organizzarsi e lottare.


Pubblicato su ctxt.es con il titolo Frenar el acoso sexual con derechos laborales (“Contrastare le molestie sessuali con i diritti dei lavoratori”) e qui pubblicato con l’autorizzazione dell’autrice. Traduzione di Leonora Marzullo per Comune

Nuria Alabao

19/3/2024 https://comune-info.net/

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