Moncada: non si uccidono le idee

Il 26 luglio di settant’anni fa Fidel Castro approfittando delle celebrazioni carnevalesche assaltava una caserma. Cominciava, con una disfatta, la grande epopea della rivoluzione cubana

«La logica mi dice che se esistono tribunali in Cuba, Batista dovrebbe essere punito, e se Batista non è punito e continua indisturbato ad agire come padrone dello Stato, presidente, primo ministro, senatore,  generale maggiore, capo civile e militare, potere esecutivo e potere legislativo, proprietario delle vite e delle terre, allora non esistono più tribunali, essi sono stati soppressi. Tremenda realtà? Se è così, ditelo immediatamente, appendete le vostre toghe, date le dimissioni dai vostri posti». È l’aprile 1952 quando il giovane avvocato Fidel Castro, appena venticinquenne, al cospetto del Tribunale d’Urgenza dell’Avana, denuncia tutte le violazioni delle norme costituzionali commesse dal generale Fulgencio Batista che con un golpe il 10 marzo si era autonominato capo di Stato e aveva abrogato la Costituzione del 1940. La sua richiesta viene respinta e Castro si convince che esiste solo un modo per rovesciare l’usurpatore: «Se Batista ha preso il potere con la forza, questo dev’essergli tolto con la forza».

Le reazioni della maggior parte dei cubani subito dopo il putsch batistiano erano state piuttosto confuse, ma non era sfuggito che il colonnello, con l’appoggio degli Stati uniti, aveva violato la Costituzione e aveva impedito alle masse di far salire al potere il Partito ortodosso, ma nessuno immaginava che avrebbe instaurato un regime peggiore di quello del presidente-despota Gerardo Machado (il «Mussolini tropicale»). Il golpe era stato riconosciuto una settimana dopo da Washington, e di conseguenza anche dai gruppi industriali nordamericani. Ad aprile, per la prima volta, Cuba appare sulla copertina della rivista Time con una raffigurazione fiammeggiante del volto di Batista, con la bandiera cubana spiegata come un’aureola intorno al suo capo, e la luminosa dicitura «Batista porta la democrazia a Cuba».

Tra i membri della Juventud ortodóxa che si muovono nell’Università dell’Avana Fidel Castro è il più attivo, e dopo qualche settimana dal colpo di Stato, i «fidelisti»non sono più di una mezza dozzina scelta accuratamente; questo piccolo gruppo sarebbe presto diventato, al fianco di Castro, la cellula motrice della rivoluzione.    

Il movimento studentesco da cui provengono Castro e alcuni dei suoi più devoti compagni, come Camilo Cienfuegos, figlio di anarchici spagnoli, è liberale ma anche nazionalista e antimperialista. Ci sono forti ragioni storiche per questo: mentre quasi tutti i paesi dell’America latina avevano dichiarato la loro indipendenza all’inizio del XIX secolo, Cuba invece non aveva rotto con la Spagna fino al 1898. La sua tarda indipendenza, raggiunta dopo lunghe guerre contro la madre patria, ancorava il nazionalismo al cuore di ogni progetto rivoluzionario cubano. Spiega anche l’importanza della figura di José Martí nell’immaginario della rivoluzione cubana. Martí era considerato il padre dell’indipendenza dell’isola, per la quale assunse la causa ancora adolescente, e che gli valse l’arresto e l’esilio a soli sedici anni, nel 1869. La Spagna, che l’accolse, era allora una terra di esilio, ma anche luogo di creazione di reti anticolonialiste transnazionali. Il giovane Martí continuò il suo viaggio attraverso la Francia, l’America latina e gli Stati uniti. In Messico frequentò socialisti contrari a Porfirio Díaz e aderì alla loro causa. Durante i suoi lunghi soggiorni negli Usa, il libertador prese contatto con organizzazioni di cubani in esilio e contribuì alla loro radicalizzazione a favore della causa indipendentista. 

Il «fidelismo»

Il 28 gennaio 1953 cade il centenario della nascita di José Martí e i «fidelisti», circa quattrocento volontari, fanno la loro prima apparizione pubblica insieme al fronte degli antibatistiani al grido Abajo Batista! Revolución! Sono i prodromi della ribellione.

In poche settimane misi assieme i primi combattenti e le prime cellule. Installammo alcune stazioni radio segrete e distribuimmo un giornale in ciclostile. […] Diventammo dei veri cospiratori. […] Organizzammo il movimento in circa 14 mesi. Arrivammo a poter contare su 1.200 membri. […] Attraverso le riunioni con i futuri combattenti, durante le quali io davo loro idee e indicazioni, mettemmo in piedi una salda organizzazione che si reggeva su di una ferrea disciplina. 

Fidel Castro, insieme allo stato maggiore del movimento,inizia a progettare l’attacco a una caserma a Santiago, in Oriente, per ragioni tattiche e perché la caserma Moncada ospita appena un migliaio di soldati. L’idea è di attaccare e impadronirsi simultaneamente del cuartel Moncada e del cuartelito di Bayamo, con lo scopo di impossessarsi di un nuovo arsenale e quindi armare il gruppo di ribelli in vista delle future rappresaglie, ma al contempo rappresentare il primo atto simbolico della (auspicata) sollevazione popolare. Il grosso delle forze, centotrentaquattro uomini, avrebbe attaccato a Santiago e ventotto a Bayamo, sarebbero entrati di forza sfruttando la sorpresa, catturato la caserma e distribuito armi agli altri volontari che, si supponeva, a quel punto sarebbero accorsi in massa per appoggiarli. Gli armamenti a disposizione di Castro erano limitati a tre fucili dell’esercito degli Stati uniti, sei vecchi Winchester, un vecchio mitragliatore e un gran numero di fucili da caccia, oltre a revolvers e una certa quantità di munizioni.  

Dopo settimane di reclutamento e formazione di cellule sul territorio, a metà del 1953 Fidel Castro guida un gruppo di giovani uomini e donne appartenenti alla piccola borghesia o al proletariato, perlopiù provenienti dal Partito ortodosso, che intendono rovesciare Batista. Il progetto dei «Giovani del Centenario» (in omaggio al centenario della nascita di Martí) è studiato nei minimi dettagli. La data scelta da Fidel Castro è domenica 26 luglio, il giorno della festa carnevalesca che coinvolge tutta la città con le numerose congas che suonano per i viali, i cubani che affluiscono a Santiago e la città che trabocca di stranieri. Una decina di volontari, spaventati, abbandonano l’impresa all’ultimo momento. 

Le basi teoriche del movimento di liberazione nazionale, scevre da qualsiasi riferimento ideologico, sono contenute nel proclama che dev’essere letto una volta preso possesso della stazione radio: 

La Rivoluzione dichiara la sua ferma intenzione di porre Cuba su un piano di benessere e di prosperità economica che assicuri la sopravvivenza del suo ricco sottosuolo, della sua posizione geografica, della diversificazione in agricoltura e dell’industrializzazione […] La Rivoluzione dichiara l’instaurazione totale e definitiva della giustizia sociale, fondata sul progresso economico e industriale […] La Rivoluzione riconosce e si basa sugli ideali di Martí e […] dichiara il proprio rispetto per la Costituzione data dal popolo nel 1940. 

L’obiettivo dichiarato del ribelli del 26 luglio è sempre stato il rispetto della Costituzione del 1940 e porre limiti alle rivendicazioni nordamericane su Cuba.

Quando decide di attaccare il Moncada, Fidel Castro è fortemente influenzato dagli scritti di un altro leader studentesco e populista radicale degli anni Trenta: Antonio Guiteras. Deluso dall’esperienza rivoluzionaria del 1933 e dalla fragilità delle istituzioni democratiche che sembravano sempre dover cedere alle inclinazioni autoritarie del dittatore di turno, Guiteras era convinto che il percorso elettorale fosse inadatto al contesto cubano. A suo giudizio, la lotta armata era l’unico modo per consolidare la democrazia e abbattere i tiranni locali. Le idee guida di Guiteras – il fallimento del processo elettorale, la fattibilità della lotta armata, la necessità imperativa di rovesciare i tiranni e la sfiducia nelle istituzioni democratiche cubane – vengono riprese e applicate da Castro prima e dopo la sua conquista del potere. 

L’alba rivoluzionaria 

Alle 5.15 del mattino del 26 luglio 1953 inizia l’operazione, ma, come racconterà lo stesso Castro, «a causa di un malaugurato errore metà delle nostre forze – e per di più la metà meglio armata – si smarrì all’entrata della città e non poté aiutarci nel momento decisivo». Castro, che era in prima linea, si lancia senza nessuna copertura in una sparatoria con i soldati rimanendo incredibilmente illeso, mentre attorno a lui cadono alcuni dei suoi uomini. Le altre due fasi in cui si articola l’attacco a Santiago sono riuscite: Raúl Castro si impadronisce del palazzo di giustizia, quasi sguarnito, e Abel Santamaría dell’ospedale civile, senza alcuna perdita né nelle loro file né in quelle militari. Ma ormai l’effetto sorpresa al Moncada è venuto meno e Castro, dopo circa un’ora, dà l’ordine di ritirata. Fallisce anche l’attacco a Bayamo, dove l’allarme viene dato dai cavalli innervositi e i ribelli sono costretti a fuggire. Nell’assalto alla caserma Moncada muoiono diciannove soldati e ventisette rimangono feriti: fra i volontari di Castro si contano otto morti.

Batista rientra frettolosamente dalle spiagge di Varadero, scatena su tutta l’isola una repressione sproporzionata e sospende le garanzie costituzionali. Per la prima volta dopo quarantatré anni l’Ejército aveva dovuto combattere, e aveva perduto degli uomini. Il governo è terrorizzato, l’esercito messo in stato di allarme in tutta l’isola, e centinaia di persone vengono incarcerate: poiché si sa che alcuni «fidelistas» sono feriti, chiunque abbia una ferita rischia di essere interrogato e maltrattato. La maggior parte dei ribelli sopravvissuti che vengono catturati nei primi due giorni viene assassinata a sangue freddo o muoiono a seguito delle torture. A Bayamo tre prigionieri vengono trascinati per chilometri appesi a una jeep. Le due donne che hanno partecipato all’assalto, Haydée Santamaría e Melba Hernández, non subiscono maltrattamenti, ma sentono torturare a morte Abel Santamaría, fratello della prima e fidanzato della seconda, e Boris Santa Colona, fidanzato di Haydée. Mentre un pugno di ribelli con Fidel Castro riescono a nascondersi sui monti della Sierra Maestra, ma vengono catturati dopo cinque giorni: «Credevamo di essere già morti, ma il tenente si girò verso i soldati e ripeté a bassa voce: ‘Non sparate; las ideas no se matan!’ […] Quell’uomo lo ripeté tre volte: non si uccidono le idee!». I giovani ribelli hanno salva la vita grazie al tenente afrocubano Pedro Manuel Sarría. Le foto dei cadaveri dei loro compagni, ottenute furtivamente e pubblicate il 2 agosto dal giornale Bohemia, sconvolgono l’intero paese e mettono la popolazione contro il regime, provocando un’ondata di indignazione e di simpatia per gli assalitori.

Il processo dei trentadue prigionieri inizia il 21 settembre e termina il 16 ottobre. Fidel Castro, che ormai gode di grande popolarità, ne diventa il protagonista assoluto. Si tenta di avvelenarlo o di impedirgli di comparire a causa di una fantomatica malattia, ma ottenuta la possibilità di prendere la parola in propria difesa, il líder parla ininterrottamente per cinque ore. Il suo discorso non è un’invocazione di clemenza, al contrario, è un implacabile atto di accusa contro il regime di Fulgencio Batista che termina con queste memorabili parole: 

Io so bene che la prigionia sarà per me dura come mai lo è stata per alcuno, piena di vili minacce e di orribili torture. Ma io non temo la prigione, come non temo la furia del miserabile tiranno che ha spento la vita di settanta miei fratelli. Condannatemi, non m’importa. La storia mi assolverà.

Le pene sono pesantissime. Fidel è condannato a quindici anni di reclusione, suo fratello Raúl a tredici, ad altri venti insorti vengono comminati dieci anni, mentre a Haydée Santamaría e Melba Hernández solo sette mesi. Il giorno dopo Castro viene trasferito in aereo sull’isola-carcere Isla de Pinos insieme ad altri compagni e immediatamente inizia la ricostruzione del suo movimento rivoluzionario. Nel frattempo, la sua celebre arringa difensiva viene fatta uscire dalla prigione in scatole di fiammiferi e, una volta pubblicata, diventa il manifesto politico del castrismo. 

Come i suoi compagni, Fidel rimane in carcere fino al 15 maggio 1955. Dopo un anno e sette mesi di reclusione, vengono tutti liberati in virtù di un’amnistia ottenuta grazie alle pressioni dell’opinione pubblica appoggiata dalla stampa cubana. Nel giro di poche settimane decide di trasferirsi in Messico per formare, in totale segretezza, un nucleo ben addestrato e disciplinato che possa in seguito costituire l’ossatura di un reparto di guerriglieri, con l’obiettivo di rovesciare Batista con la forza. 

Nel Messico romantico e rivoluzionario di Lev Trockij, di José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, di Juan Antonio Mella e Tina Modotti, di Diego Rivera e Frida Kahlo, una sera dei primi di luglio si incontrano Fidel Castro e il ventisettenne medico argentino Ernesto Che Guevara. 

Ha scritto Paco Ignacio Taibo II nel suo Senza perdere la tenerezza, che la prima conversazione tra i due dura otto o dieci ore a seconda delle testimonianze, e resterà profondamente scolpita nella memoria dei due protagonisti: «Dalle otto di sera fino all’alba parlano della situazione internazionale, ripassano le rispettive idee sull’America Latina, parlano di politica e soprattutto di rivoluzioni». Da allora, l’appartamento nella calle Emperán diventa una specie di quartier generale e una centrale informativa per i «fidelisti». Di lì a pochi giorni Fidel Castro costituisce il nucleo di quella che diverrà l’organizzazione politico-militare «Movimiento 26 de Julio» (denominato M-26-7 in onore del loro primo gesto di resistenza armata), che si doterà di un settimanale ciclostilato battezzato Revolución. A dicembre 1956, un gruppo di ottantadue guerriglieri, guidati da Fidel Castro, si imbarca in Messico sul motoscafo Granma per sbarcare a Playa de las Coloradas nella parte orientale di Cuba. Un gruppo di venti persone, il nucleo originario dell’Ejército Rebelde, riesce a organizzare la prima base della guerriglia nella Sierra Maestra. È il principio della lotta e della rivoluzione che rovescerà la dittatura batistiana il 1° gennaio 1959. La rivoluzione cubana è in marcia.

Andrea Mulas, studioso di storia dell’America Latina, è ricercatore indipendente della Fondazione Basso. Tra le sue più recenti pubblicazioni, L’altro settembre. Allende e la via cilena al socialismo (Bordeaux, 2023) e La storia spezzata. Cile 1970-1973 (Nova Delphi, 2023).

26/7/2023 https://jacobinitalia.it

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